CULTURA

L'ultimo viaggio del Magic bus e la ricerca della felicità

"Vi è un piacere nei boschi inesplorati / e un’estasi nelle spiagge deserte [...] non amo meno l’uomo ma di più la natura", Lord George Gordon Byron.

Stati Uniti, inizio anni Novanta. Dopo aver conseguito la laurea, il 24enne Christopher McCandless abbandona tutto per raggiungere l'Alaska con l'obiettivo di vivere in mezzo alla natura selvaggia, in solitudine, allontanandosi da una società in cui non riesce a riconoscersi. Inizia così un viaggio straordinario che si conclude tragicamente il 6 settembre 1992, quando McCandless, che per sé aveva scelto il nuovo nome di Alexander Supertramp, viene ritrovato senza vita accanto a quello che era diventato il suo rifugio, il Bus 142, l'autobus urbano di Fairbanks, da lui ribattezzato Magic bus. Questa storia vera, di una bellezza luminosa e al tempo stesso struggente, prima raccontata nella rivista Outside e in un libro dal giornalista e scrittore Jon Krakauer e poi portata al cinema da Sean Penn con il film Into the wild, ha segnato il cammino di esplorazione e scoperta di moltissimi sognatori alla ricerca del senso della vita. Perché al centro della vicenda umana di un giovane uomo coraggioso e idealista risiede un messaggio universale: il desiderio di felicità che attraversa il cuore di ogni essere umano.

Il motivo che oggi ci riporta a parlare dell'incredibile avventura di McCandless, è la recente rimozione dallo Stampede Trail del Magic Bus, prelevato il 18 giugno scorso, per ragioni di sicurezza pubblica, con un elicottero della Guardia nazionale dell'Alaska, nel corso di una missione di addestramento. Il bus-icona si trovava immerso nella natura, in un'area non attrezzata, senza copertura di rete e segnata da condizioni meteo sempre imprevedibili. Negli anni era diventato meta di pellegrinaggio per troppi incauti escursionisti. I casi più recenti? Quello dei cinque turisti italiani salvati all'inizio di quest'anno e la morte di una donna bielorussa l'anno scorso.

Nel suo libro Nelle terre estreme, Jon Krakauer sceglie queste parole per presentarci il protagonista: "Nell’aprile del 1992 un ragazzo di buona famiglia della costa orientale degli Stati Uniti raggiunse l’Alaska in autostop e si addentrò nel territorio selvaggio a nord del monte McKinley. Quattro mesi più tardi un gruppo di cacciatori d’alci rinvenne il suo corpo ormai in decomposizione. Poco dopo la scoperta del cadavere, il direttore della rivista Outside mi chiese di scrivere un pezzo sulle misteriose circostanze della morte del giovane. Scoprii così che si chiamava Christopher Johnson McCandless e che era cresciuto in un ricco sobborgo di Washington D.C, distinguendosi sia per gli ottimi risultati accademici sia per quelli sportivi. Nell’estate del 1990, appena conseguita una laurea con lode all’Emory University, McCandless sparì dalla circolazione. Cambiò nome, diede in beneficenza tutti i risparmi — circa ventiquattromila dollari —, abbandonò l’auto con quasi tutti i beni personali, bruciò i contanti nel portafoglio e s’inventò una nuova esistenza ai margini della società, peregrinando attraverso l’America del Nord in cerca di un’esperienza pura e trascendentale. La famiglia non sapeva dove il ragazzo si trovasse né cosa gli fosse capitato, finché un giorno in Alaska non ne fu trovata la salma". E Krakauer aggiunge poi una riflessione personale, confermando quanto la storia di un singolo sia riuscita nel tempo ad abbracciare e coinvolgere tante altre esistenze, a partire da quella dell'autore, incapace di "essere un biografo imparziale": "Cercando dì capire McCandless, mi trovai inevitabilmente a riflettere su temi ben più vasti: il fascino che i territori selvaggi suscitano nell'immaginario americano, l’attrattiva che le attività ad alto rischio esercitano su certi ragazzi, il complicato e delicato legame che unisce padri e figli".

Per l'animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo. Il vero nucleo dello spirito vitale di una persona è la passione per l'avventura Christopher McCandless, dal film "Into the wild"

C'è un ideale, c'è una irresistibile utopia che alimenta l'attrazione nei confronti della natura selvaggia e incontaminata, un travolgente desiderio di avventura e di vita autentica che rifiuta le condizioni imposte da una società dal ritmo accelerato fondata sul denaro. "Non mi servono i soldi, rendono le persone prudenti", spiega Christopher McCandless nel film (e immaginiamo nella realtà), parafrasando Thoreau ("Non l'amore, non i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia, datemi la verità"), e si mette in viaggio, dopo aver abbandonato ogni cosa: famiglia, soldi, sicurezze.

Solo alla fine di un lungo e intenso viaggio - fuori, nelle terre estreme, e dentro la propria anima -, questa solitudine desiderata, lontana dagli uomini, cercata e ottenuta, incontra il pensiero di Tolstoj e si trasforma in una rinnovata consapevolezza: La felicità è reale solo quando è condivisa. E ritrovando ora queste parole, sembra di sentire nell'aria l'indimenticabile colonna sonora composta da Eddie Vedder per il film diretto da Sean Penn. "Got a mind full of questions and a teacher in my soul / And so it goes... / Don't come closer or I'll have to go / Owning me like gravity are places that pull / If ever there was someone to keep me at home / It would be you".

On bended knee is no way to be free. Lifting up an empty cup, I ask silently. That all my destinations will accept the one that's me. So I can breathe Guaranteed, Eddie Vedder

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