Al potere non si rinuncia mai volentieri. Ne sa qualcosa Mahathir Mohamad, che a 97 anni compiuti si ricandida a guidare il futuro governo della Malesia, lui che già due volte è stato premier (e il primo incarico è durato 22 anni): «Ho ancora l’energia per un ultimo sforzo», ha detto l’anziano leader, anche se la coalizione che guiderà, la Gerakan Tanah Air (Movimento per la Patria), parte tutt’altro che favorita nei sondaggi. La situazione politica, nella nazione del Sud-est asiatico, non è tra le più stabili: quattro primi ministri negli ultimi cinque anni, costellati da scandali, corruzioni e arresti eccellenti. E domani, 19 novembre, si torna al voto: una trentina di partiti in lizza, quattro diverse coalizioni che si presentano alle elezioni e quasi nessuna possibilità che una soltanto riesca a imporsi, a ottenere una maggioranza. Dunque è assai probabile che bisognerà puntare a coalizioni tra coalizioni, il che potrebbe rendere ancor più fragile l’esecutivo che verrà, che pur in presenza di indicatori economici generalmente positivi sarà comunque chiamato a risolvere questioni assai urgenti per la popolazione, come il contrasto all’inflazione, lo stanziamento dei sussidi per l’acquisto di carburante e di elettricità, i salari sostanzialmente bloccati.
Sul voto malese continua tuttavia ad aleggiare lo spettro della corruzione. E non tanto per gli indicatori internazionali (secondo il Transparency International’s 2021 Corruption Perception Index la Malesia è a metà classifica, 62° posto su 180) quanto per la parabola politica di Najib Razak, ex premier dal 2009 al 2018, leader della United Malays National Organisation’s (UMNO), il partito nazionalista che fin dall’indipendenza della Malesia (ottenuta nel 1957, era una colonia britannica) ha guidato quasi ininterrottamente il Paese con la coalizione Barisan Nasional. Due anni fa, luglio 2020, Najib è stato condannato a 12 anni di carcere per corruzione e abuso di potere, e per altri cinque capi d’accusa, tra cui riciclaggio di denaro. L’ex premier è stato ritenuto responsabile del saccheggio sistematico di miliardi di dollari dal fondo statale 1MDB, istituito dallo stesso Najib nel 2009 per promuovere nuovi investimenti, ma in realtà utilizzato come cassaforte per il premier e la sua corte di fedelissimi. Nel 2015 i primi sospetti. Nel 2016 il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti sostenne che 681 milioni di dollari diretti al fondo fossero finiti sul conto personale di Najib. L’anno successivo il procuratore generale degli Stati Uniti, Jeff Session, definì lo scandalo 1MDB come “la peggiore forma di cleptocrazia”, pubblicando un primo elenco di acquisti illeciti: immobili a New York e nel sud della California, opere d’arte, yacht di lusso, gioielli, orologi. «In totale - si legge nella relazione - i funzionari di 1MDB avrebbero riciclato più di 4,5 miliardi di dollari di fondi attraverso una complessa rete di transazioni opache e società di copertura fraudolente con conti bancari in paesi che vanno dalla Svizzera e Singapore al Lussemburgo e agli Stati Uniti».
Economia florida e corruzione dilagante
Sulla scia dello scandalo, che ha coinvolto anche la moglie dell’ex premier e i più alti dirigenti del partito, nel 2018 l’UMNO fu sconfitto per la prima volta alle elezioni. Al governo salì una nuova coalizione riformista e multietnica, “Pakatan Harapan”, guidata in ticket dall’anziano Mahathir Mohamad (che nel 2016 si dimise dall’UMNO denunciando la corruzione dilagante) e dal capo dell’opposizione Anwar Ibrahim. L’accordo pre-elettorale prevedeva che nel ruolo di premier si sarebbero dovuti alternare i due leader: ma nel 2020, quando spettava a Ibrahim, Mohamad si rifiutò di lasciare l’incarico: e la coalizione andò in pezzi, favorendo il ritorno al governo (senza passare dalle urne) di UMNO, con primo ministro il nazionalista Ismail Sabri Yaakob. Che il 10 ottobre scorso ha indetto elezioni anticipate, sperando di ottenere un nuovo e più solido mandato dagli elettori grazie anche al positivo andamento dell’economia (è la nazione che cresce di più nell’Asean, l’associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), con la Cina che continua a considerare Kuala Lumpur uno dei tasselli imprescindibili della sua Belt and Road Initiative, soprattutto nella digital economy. Il sistema di governo malese è una monarchia costituzionale, sulla falsariga del Regno Unito: l’attuale sovrano, Sultan Abdullah Sultan Ahmad Shah (che come da tradizione malese è insignito del titolo di Yang di-Pertuan Agong, “Colui che è stato fatto Signore Supremo”), ha formalmente il ruolo di Capo di Stato, ma deve in gran parte attenersi alle decisioni del governo al potere. Per evitare repentini cambi di partito e crisi di governo premeditate, com’è avvenuto nel recente passato, il Parlamento malese ha approvato una legge contro il “party-hopping”, entrata in vigore lo scorso 5 ottobre.
L’offerta politica in Malesia, nonostante l’enorme quantità di sigle, resta ferma al passato, bloccata com’è da liti interne, giochi di potere e difesa delle posizioni di rendita di ciascun leader che impedisce un ricambio generazionale. Leader che peraltro, in larghissima parte, provengono in un modo o nell’altro dal partito UMNO, il cui presidente, Ahmad Zahid Hamidi, anche lui accusato di corruzione, rischia di finire in carcere qualora il suo partito perdesse le elezioni. E lo stesso Mahathir Mohamad, che oggi da outsider si propone come paladino contro la corruzione, nei lunghi anni del suo primo governo era stato definito un autocrate, soprannominato “Grande Faraone” e ben lontano dal rispetto delle regole democratiche, con tanto di oppositori arrestati senza processo, media imbavagliati e un sistema di privilegi economici per i suoi accoliti.
Verso un compromesso tra coalizioni
«Il panorama politico della Malesia è così frammentato che anche le possibilità di Mahathir di tornare al potere, per quanto minuscole possano sembrare, non possono essere totalmente escluse, dal momento che nessuna grande coalizione sembra in grado di ottenere una maggioranza parlamentare assoluta. Perciò potrebbe essere necessaria una figura di leadership di compromesso», ha commentato ad AP News Oh Ei Sun, Senior Fellow del Singapore Institute of International Affairs. Mentre per Khoo Ying Hooi, un accademico che studia diritti umani all’Università della Malesia a Kuala Lumpur, interpellato dalla rivista Foreign Affairs, il problema è che «…gli elettori malesi questa volta hanno troppe opzioni, una confusione che rende difficile una scelta». Così molti elettori, secondo gli analisti, soprattutto nelle zone rurali, sceglieranno “il metodo della razza”, in base al quale gli elettori malesi (circa il 60% del totale, le minoranze prevalenti sono cinesi e indiane) sosterranno candidati e partiti che sono visti come rappresentanti legittimi della loro comunità. Un mosaico sia etnico sia religioso. «In una regione in cui la popolazione è prevalentemente cinese, non puoi inserire un candidato malese: non vincerà mai», ha recentemente commentato l’ex premier Mohamad Mahathir, al quale certo non manca l’esperienza, né la faccia tosta, visto che ha formalmente chiesto alla comunità cinese di sostenere la sua coalizione: «Se sconfiggeremo queste persone cattive, formeremo un buon governo che aderirà allo stato di diritto e tratterà tutti, indipendentemente dall’etnia, in conformità con la Costituzione».
L’unico barlume di speranza potrebbe arrivare dagli elettori più giovani. Nel 2019 il governo aveva approvato il disegno di legge di modifica della Costituzione per abbassare la soglia d’età per votare: da 21 a 18 anni. Ora gli elettori di età inferiore ai 30 anni sono circa 6 milioni, su 21 totali. Il centro di ricerca Yusof Ishak Institute (ISEAS) ha pubblicato sul suo magazine Fulcrum un interessante sondaggio svolto proprio tra gli elettori malesi della Gen Z (nati dal 1997 in poi): «La maggioranza della Generazione Z ha poca fiducia negli attori politici che gestiscono il paese, ma è comunque impegnata politicamente», scrive Fulcrum. «Il 79% dei ragazzi dichiara che molto probabilmente andrà a votare alle prossime elezioni». Quello che trapela è comunque un diffuso senso di sfiducia: il 64% degli intervistati ritiene che i politici sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa per vincere le elezioni, anche mentire al pubblico. Il 62% si dichiara “disgustato” dai partiti politici. Perfino il vescovo Anthony Bernard Paul, della diocesi di Melaka-Johor, ha voluto lanciare un appello prima del voto, il che la dice lunga sull’importanza della posta in gioco: «Se voti per persone corrotte, allora sei loro complice. Chiediamo a tutti i giovani: date il vostro voto con coscienza. Siate elettori orgogliosi di aver dato il vostro contributo».
Le ultime rilevazioni stimano sostanzialmente alla pari le due principali coalizioni, Barisan Nasional e Pakatan Harapan, attorno al 24% dei consensi (e se un istituto indica un vincitore con un margine più ampio, il sondaggio viene bollato come “propaganda”). Più indietro, al 13%, gli islamisti di Perikatan Nasional (PN). E se davvero fosse questo il responso delle urne, il rischio di stallo politico sarebbe altissimo. Inoltre c’è da considerare il fattore meteo: la Malesia sta entrando nella stagione dei monsoni e ci sono già state inondazioni in alcune parti del paese. Secondo Ibrahim Suffian, direttore dei programmi presso il Merdeka Center, l’istituto con sede a Kuala Lumpur specializzato in sondaggi d’opinione, «…inondazioni diffuse nel periodo delle elezioni potrebbero ostacolare in modo significativo l’affluenza alle urne (storicamente alta, oltre l’80%), il che potrebbe influire sui risultati elettorali. E una bassa affluenza favorirebbe il partito al governo, il Barisan Nasional». Che appena un mese fa ha deciso, probabilmente non per caso, di indire elezioni anticipate.