SCIENZA E RICERCA

Megafauna: il ruolo degli incendi (e forse dell’uomo) nell’estinzione di 13 mila anni fa in California

Durante il tardo Pleistocene, nella maggior parte delle regioni del mondo, molte specie di mammiferi di grandi dimensioni si estinsero. Il declino della megafauna e le ragioni che portarono alla scomparsa di animali come i bradipi giganti, i mammut o i gatti dai denti a sciabola, sono questioni dibattute da tempo e sono ormai numerose le ricerche che hanno cercato di stabilire se dietro a questa estinzione ci sia stata la mano, diretta o indiretta, di Homo sapiens.

Le ipotesi principali sono tradizionalmente due: la prima è stata avanzata negli anni Sessanta e si concentra sul potere distruttivo delle attività di caccia messe in atto dalle comunità umane nelle aree in cui progressivamente andavano ad insediarsi. Secondo questa teoria l’arrivo di un predatore come Homo sapiens, capace di costruire armi e di modificare l’ambiente, avrebbe implicato la fine di questi grandi mammiferi

Molti scienziati ritengono però non sufficientemente robuste le prove a sostegno del fatto che la caccia abbia potuto portare all’estinzione di animali che avevano prosperano per decine di milioni di anni e propendono per l’ipotesi che a decretare la fine della magafauna siano stati i cambiamenti climatici avvenuti durante il periodo di riscaldamento di Bølling-Allerød che segnò l'inizio della fine dell'ultima glaciazione.

Uno studio da poco pubblicato sulla rivista Science ha condotto a risultati che tengono insieme le due ipotesi e ha individuato nel fuoco - dovuto ad incendi che avevano cominciato ad essere sempre più frequenti e diffusi, probabilmente a causa dell'aumento della presenza umana - l’elemento chiave dei processi di estinzione della megafauna. La ricerca si è focalizzata sul noto sito archeologico di La Brea Tar Pits nel sud della California le cui enormi fosse di catrame, frutto di infiltrazioni naturali dal terreno, hanno rappresentato per migliaia di anni una trappola mortale per gli sventurati animali che attraversano l’area, spesso attirati dalla presenza di carcasse di altri esemplari già morti.

Accanto al sito sorge ora un museo di storia naturale che, con oltre 3,5 milioni di esemplari di 60 specie di mammiferi, ospita la più grande collezione al mondo di fossili del Pleistocene. Un patrimonio di questo tipo è una risorsa scientifica di enorme valore per gli scienziati che cercano di ricostruire le storie di queste estinzioni di massa e gli eventuali punti di collegamento con le crisi ambientali che stiamo affrontando oggi.

La storia dello studio a cui Science ha dedicato anche la copertina inizia nel 2028 quando Franck Robin O’Keefe, biologo della Marshall University e primo autore del nuovo studio, ha cominciato ad avviare una serie di analisi per datare al radiocarbonio le ossa rinvenute in una delle fosse di catrame del sito, scavata per la prima volta negli anni ’20. Il fatto che nei campioni fosse rimasto intrappolato asfalto, di gran lunga antecedente rispetto ai reperti stessi, rappresentava uno scoglio da superare e per farlo è stata decisiva la collaborazione con altri esperti, come Emily Lindsey, paleoecologa e responsabile degli scavi presso il sito, che ha consentito di sviluppare tecniche in grado di evitare che le datazioni non fossero corrette. 

In questo modo il team di ricercatori è riuscito a datare 169 esemplari delle otto specie di animali più comuni rinvenuti nella fossa, tra cui il gatto dai denti a sciabola (Smilodon fatalis), il bisonte antico (Bison antiquus), il bradipo di Harlan e leoni americani, scoprendo che tutta la megafauna oggetto dello studio, tranne i coyote, era velocemente scomparsa intorno a 13 mila anni fa.

Il passo successivo è stato provare a individuare le possibili cause dell’estinzione e per farlo i ricercatori hanno eseguito carotaggi nelle vicinanze del sito allo scopo di ottenere informazioni sul clima e sull’ambiente in quel periodo. Le analisi palinologiche hanno consentito di scoprire che circa 13 mila anni fa la vegetazione, in precedenza ricca di querce e ginepro, è cambiata radicalmente andando verso un ambiente più aperto e secco caratterizzato da piante arbustive e dalla boscaglia di caparral, simile alla macchia sempreverde del Mediterraneo, che oggi è tra gli elementi distintivi della California.

A testimoniare che questa trasformazione della vita vegetale è stata la conseguenza degli incendi che in quel periodo devastavano l'area sono le quantità di carbone rinvenute in prossimità del sito. E qui è stato fondamentale il lavoro di Lisa Martinez, dottoranda dell'Università della California - Los Angeles, che era impegnata in ricerche sulla storia degli incendi nella regione. I risultati delle sue analisi hanno rivelato che circa 13.200 anni fa, l’accumulo di carbone aumentò di 30 volte e persistette a livelli elevati per i successivi 400 anni. Un dato che corrispondeva perfettamente a quelli sul polline e sull'estinzione delle sette specie di animali che scomparvero per sempre.

Ma perché ad un certo punto l'area cominciò ad essere interessata da così tanti incendi? Dai registri paleoclimatici, osserva un articolo di commento pubblicato sempre su Science, emerge che la regione aveva precedentemente attraversato periodi caldi e secchi senza conseguenze ecologiche così drammatiche. La differenza è che alla fine dell'ultima era glaciale la presenza dell'uomo era, con tutta probabilità, in forte espansione: i modelli di crescita della popolazione pubblicati in precedenza, basati su prove archeologiche e genetiche, suggeriscono che tra circa 15.000 e 13.000 anni fa il Nord America aveva conosciuto un'esplosione demografica e ciò incoraggia a pensare che la California meridionale abbia vissuto un simile andamento (sebbene non vi siano prove certe al riguardo).  

"La presenza di carboni è statisticamente correlabile con la stima dell'aumento della presenza umana, quindi l'uomo ha probabilmente avuto un ruolo attivo nella modifica dell'ambiente e nella scomparsa delle specie recuperate a Rancho La Brea", ha spiegato Elena Ghezzo, paleontologa dell'università Ca' Foscari di Venezia, che ha partecipato allo studio fornendo parte dei dati delle radiodatazioni fatte sul leone americano (Panthera atrox).

Numerosi esperti che non hanno preso parte allo studio, citati da Science nell'articolo di commento alla ricerca, sono ampiamente d’accordo con le conclusioni del team, mentre altri ritengono più probabile che l'impatto dell'uomo sulla megafauna sia avvenuto nel contesto di ecosistemi resi vulnerabili dai cambiamenti climatici. Secondo Anthony Barnosky, paleoecologo dell'università della California-Berkeley non coinvolto nel lavoro, i risultati di questo studio dovrebbero indurci a considerare quanto accaduto in passato per impedire che possa ripetersi in futuro. Sentito dal New York Times l'esperto ha posto l'accento sull'intreccio tra aumento della pressione umana e cambiamento climatico causato proprio dall'impatto antropico. 

Tutte le condizioni che all'epoca causarono la fine della megafauna nordamericana oggi si stanno ripresentando in molti ecosistemi di tutto il mondo, ha osservato Robin O’Keefe, primo autore dello studio. E l'emergenza incendi - pensiamo a quelli più recenti che hanno devastato vaste aree del Canada, delle isole Hawaii e della Grecia, senza dimenticare quanto accaduto qualche anno fa in Australia - mostrano che i roghi sono un problema globale che mette seriamente a rischio le specie più vulnerabili. 

 

 

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