SOCIETÀ

Meta ha esordito da poco e già non se la passa bene

C'è poco da stare allegri in casa Facebook, anzi, Meta. Dopo i Facebook papers, i documenti interni fatti uscire dalla gola profonda Frances Haugen, l'azienda di Mark Zuckerberg non trova pace.
Per tenersi a galla e contrastare il successo della più giovane, nonché cinese, TikTok, Facebook in passato ha trattato Trump con i guanti di velluto (ci è voluto un tentato colpo di stato per bannarlo dal social, nonostante lo usasse da tempo incitando all'odio), ha copiato il formato dei video brevi di TikTok (sono i reel di Instagram, la vera sfida non è crearli, ma è trovare le differenze) e come extrema ratio si è rassegnato, dopo 5 anni, a dare a tutti gli utenti la possibilità di inserire nelle storie di Instagram dei link che possono portare i seguaci all'esterno del social, lontani dalle pubblicità da cui l'azienda trae i maggiori profitti (prima lo potevano fare solo i profili con più di 10.000 follower). Non deve essere bastato, visto che di recente il CEO di Instagram, Adam Mosseri ha dichiarato l'impensabile.

Facoltativamente si potrà quindi tornare all'ordine cronologico, che su Instagram mancava dal 2016. Anche allora il motivo, neanche troppo nascosto, era quello di mostrare più annunci pubblicitari possibili: con l'ordine cronologico, al decimo selfie del cognato che si mangia un toast bruciato probabilmente l'utente chiudeva l'app, perdendosi un sacco di annunci utili. Per la piattaforma, più che per lui. Così era stato introdotto un algoritmo che mostrava i post potenzialmente più interessanti per l'utente, che veniva colpito da scrolling selvaggio e dal desiderio di guardare un altro post, uno solo, anche se il tostapane sul piano cucina emanava un odore sospetto. Tanto il toast bruciato si poteva sempre fotografare.

Se Facebook, anzi Meta (tendiamo ancora a confonderci), è sempre stato bravo a trattenere i suoi utenti sulla piattaforma, non ha altrettanta fortuna quando suo malgrado diventa un mezzo di denuncia politica. Un gruppo di rifugiati rohingya, la minoranza musulmana del Myanmar, per esempio, lo ha denunciato per incitamento all'odio. Varie volte, infatti, il social non ha accolto le segnalazioni degli utenti sui contenuti d'odio (e francamente non c'è da stupirsi, conoscendo il meccanismo), ma questa volta potrebbe costargli 150 miliardi di dollari (questa è la richiesta di risarcimento fatta al tribunale degli Stati Uniti).
Del resto a Face…. Meta non va tanto meglio nemmeno in Europa: questa volta il problema è rappresentato dai dati, che l'azienda raccoglie in abbondanza per nutrire il suo sistema di advertising che costituisce la parte più sostanziosa del suo fatturato (parliamo di 86 miliardi di dollari di ricavi nel 2021), ma che non ha mai tutelato più di tanto, anche perché la normativa statunitense in questo è molto più permissiva di quella europea.

Cos'è successo, esattamente? L'avvocato generale della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (CGUE) ha chiarito che in caso di violazione della legge europea sulla protezione dei dati le associazioni dei consumatori potrebbero intentare azioni legali per conto dei cittadini. C'è da dire che quello dell'avvocato generale è solo un parere, ma di solito viene recepito dalla CGUE, e se andasse così anche questa volta diventerebbe più facile per ogni cittadino difendere i propri diritti contro le multinazionali tecnologiche che fanno un uso più o meno spregiudicato dei dati di cui entrano in possesso.

A scatenare la tempesta, questa volta, sono stati i quiz. Quelli classici che si facevano quando ancora non c'era (e sbagliavamo) questa sensibilità per i nostri dati personali, e non eravamo coscienti del fatto che per scoprire che lo pterodattilo era il nostro animale guida o per dire a tutti i nostri amici che a Farmville eravamo proprio i migliori dovevamo condividere i nostri dati con varie piattaforme. Non ne eravamo coscienti perché, in effetti, nessuno ci aveva avvisato, perlomeno non in modo chiaro, e in particolare, all'inizio, non lo aveva fatto Facebook (che all'epoca non si chiamava Meta). Se n'era però accorta la Federation of Germany Consumer Organizations (VZBV) ancora nel 2014, e aveva intentato una causa vincendola in primo grado e in appello. I giudici della più alta corte tedesca, però, hanno anche voluto chiedere un parere alla CGUE, per capire se soltanto i cittadini potevano presentare dei reclami attinenti al Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) dell'UE o se potevano farlo anche le associazioni dei consumatori.

Ora si attende la decisione finale della CGUE prevista per il 2022, ma se dovesse confermare il parere dell'avvocato generale la situazione per Meta e per tutte le multinazionali che raccolgono molti dati senza farsi troppi problemi si farebbe più complicata, perché è evidente che sarebbe più semplice e molto meno costoso per i cittadini intentare azioni legali tramite le associazioni dei consumatori piuttosto che con l'aiuto di un avvocato assunto direttamente.

Sembra inoltre chiaro che l'Europa miri a dettare una linea più stringente sulla diffusione dei dati rispetto alla più permissiva America, e l'intenzione di dare battaglia è dimostrata dalla stesura a tempo di record di una proposta per il nuovo Data Governance Act, già pronta per l'approvazione dopo solo un anno.
È probabile quindi che Zuckerberg e Mosseri si ritrovino prossimamente con qualche grattacapo di troppo, ma forse all'Europa bisognerebbe anche chiedere qualcosa di più: se da una parte è apprezzabile che cerchi di tutelare i suoi cittadini attraverso indicazioni e normative, è anche vero che, quando si parla di diffusione dei dati e di meccanismi di protezione, i cittadini, europei e non, dimostrano fin troppo spesso un'ignoranza disarmante (presente quei post nelle bacheche che diffidano Facebook dal condividere i propri dati, come se la bacheca costituisse un documento con valore legale, dopo aver accettato le condizioni di utilizzo che prevedono esattamente questo?). Forse alle azioni legislative andrebbero affiancate quelle divulgative, promuovendo iniziative di formazione e aggiornamento al passo con i tempi e con le nuove tecnologie, che ormai hanno cambiato nome e sono già vecchie.

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