Foto: Reuters
In Ecuador c’è una guerra in corso, anomala e spietata. I “rivoltosi”, vale a dire le decine di migliaia di narcotrafficanti che sotto le insegne di diverse bande imperversano nel paese commettendo crimini d’ogni genere, non puntano a sovvertire l’ordine democratico, non hanno alcun interesse a prendere il potere, il governo dello stato. Vogliono invece costringere alla resa le istituzioni per ottenere una sempre più ampia impunità, e continuare così a fare i loro colossali affari, i loro traffici di droga, senza fastidiose intromissioni. Pretendono di conquistare, usando in egual misura forza, ferocia e corruzione, la sottomissione e il silenzio della politica, della polizia, della magistratura. E chi si mette di traverso, viene eliminato. Come il procuratore di Guayas, César Suárez, ammazzato in un agguato il 17 gennaio scorso mentre stava andando, da solo, a bordo della sua auto e senza scorta, a un’udienza nel tribunale di Guayaquil, la più grande città portuale del paese: bersaglio fin troppo facile per i sicari. Suárez era a capo di diverse inchieste su narcotraffico, terrorismo e criminalità organizzata: evidentemente fermarlo era diventata una priorità.
Così l’Ecuador, che fino a pochi anni fa era considerato un piccolo angolo di paradiso nel turbolento Sud America, che si “nutriva” economicamente di banane e di petrolio, si è rapidamente trasformato nel più importante hub di distribuzione degli stupefacenti di produzione latinoamericana, soprattutto cocaina e il micidiale fentanyl, con gli stati confinanti, Colombia e Perù, e più a sud la Bolivia, nel ruolo di leader tra i produttori. Con il Messico, attraverso i famigerati cartelli di Sinaloa, ieri comandato da Joaquim El Chapo Guzmàn, e oggi da Ismael Zambada García, detto El Majo, e Jalisco Nueva Generación a tirare le fila dell’operazione. E con le più ramificate bande ecuadoriane (Los Choneros, Los Tiguerones, Los Lobos) a garantire la distribuzione, dai principali porti dell’Ecuador (Guayaquil, Puerto Bolivar, La Libertad, Manta, Esmeraldas, Posorja). Il paese sudamericano è tuttora il più grande esportatore mondiale di banane al mondo: e spesso i giganteschi carichi di droga vengono nascosti proprio lì: «Dei circa 300.000 container che partono ogni mese dal porto di Guayaquil le autorità sono in grado di perquisirne solo il 20%», ha ammesso al New York Times Edison Núñez, un funzionario dell’intelligence della polizia nazionale ecuadoriana. A febbraio dello scorso anno la polizia ecuadoriana ha scoperto, durante un controllo, un carico di quasi 9 tonnellate di cocaina nascoste in un container carico di banane e diretto in Belgio, nel porto di Anversa (una delle principali “porte d’accesso” della droga in Unione Europea) per un valore stimato di circa 300 milioni di euro. Ed è appena una goccia nel mare. La gestione della droga che arriva in Europa è invece “proprietà” della ‘ndrangheta calabrese e della mafia albanese: una “saldatura” tra potenze criminali internazionali che ben spiega la portata del fenomeno.
Narcos, povertà e criminalità
Ed è proprio l’infiltrazione, sistematica e devastante, dei trafficanti di droga nel tessuto sociale ed economico del paese ad aver spinto nel baratro l’Ecuador, vittima anche di politiche fallimentari, soprattutto dei governi che si sono succeduti dal 2017 in avanti, che hanno via via introdotto politiche neoliberiste e di austerity, con pesanti tagli alla spesa pubblica e al welfare, con gravi ripercussioni sul diritto alla salute e all’istruzione dei giovani. Mentre l’ex presidente Rafael Correa, populista di sinistra, a capo di un governo di stampo socialista, rimasto in carica dal 2007 al 2017, aveva deciso di finanziare, con i proventi statali dell’export di petrolio, programmi di lotta alla povertà, con agevolazioni per le famiglie meno abbienti nell’istruzione e nell’assistenza sanitaria. Oggi si stima che circa il 30% degli oltre 18 milioni di abitanti viva in povertà, che diventa “estrema” per l’11% (e i dati relativi alle zone di campagna, poco abitate, sono ancor più gravi). Secondo i dati diffusi dal governo, relativi al 2022, solo il 34% degli ecuadoriani ha un'occupazione adeguata. «La povertà è una delle cause principali dell'aumento della violenza e dell’insicurezza in Ecuador», ha scritto nell’ultimo report, pubblicato lo scorso settembre, Olivier De Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani. «La mancanza di opportunità di lavoro e la scarsa istruzione hanno reso i giovani facili reclute per le bande criminali. E queste bande stanno a loro volta alimentando la povertà estorcendo piccole imprese, prendendo piede nelle scuole e interrompendo l'istruzione dei bambini, e creando una tale paura e disperazione che un numero crescente di ecuadoriani sta semplicemente lasciando il paese». Dunque non soltanto traffico e smercio di droga: omicidi, rapimenti, minacce. Le bande hanno strappato al governo il controllo dell’intero sistema dei penitenziari, grazie anche a una progressiva riduzione del budget a partire dagli anni 2018-2019 e alla successiva pandemia, che portò alla chiusura delle “direzioni” ministeriali che garantivano il funzionamento delle carceri: oggi sono gli stessi prigionieri, affiliati alle bande di narcotrafficanti, che costringono gli altri prigionieri a pagare per avere un letto, i servizi essenziali, il cibo, la sicurezza. Le “guardie” sono ormai figure di cartone: le chiavi delle carceri sono in mano ai boss, che usano i penitenziari come basi operative per i loro traffici e per il reclutamento di manodopera. Poi c’è il fenomeno delle estorsioni, che colpisce non soltanto i negozianti (si stima che, nelle città portuali, il 70% dei locali sia stato costretto a chiudere) ma intere aziende, e anche scuole, uffici privati, singoli lavoratori: se vuoi stare “al sicuro” devi pagare. Dire di no è un’opzione non contemplata.
Anche Fernando Villavicencio, 59 anni, giornalista, candidato alle presidenziali dello scorso agosto, aveva provato a dire no. No al crimine organizzato, no alla corruzione: era scritto a chiare lettere nel suo manifesto elettorale. Aveva denunciato platealmente l’esistenza di un “narco-stato”, e su quella denuncia stava raccogliendo voti e consensi. Aveva anche fatto nomi e cognomi, riportando le minacce subìte, da lui e dal suo staff elettorale, ad opera dei membri del clan Los Choneros. Dieci giorni prima delle elezioni è stato assassinato a colpi di pistola, al termine di un suo comizio elettorale a Quito. A vincere quelle elezioni è stato invece Daniel Noboa, 36 anni, il più giovane presidente che l’Ecuador abbia mai avuto, rampollo di una delle più influenti famiglie del paese, capace di costruire la una fortuna con il commercio delle banane. Lo scorso novembre è entrato in carica, anche dichiarando buoni propositi, una sorta di “pugno duro”. Ma a poco è servito.
La fuga del “Fito” e l’irruzione alla tv
Anche il 2024 (dopo un drammatico 2023 che ha visto raggiungere la cifra record di 8000 omicidi, sfiorando la media di 22 al giorno, quasi il doppio rispetto al 2022, quando erano stati oltre 4500) è cominciato per l’Ecuador nel peggiore dei modi, con la rocambolesca fuga dal carcere di Guayaquil di Adolfo Macías, alias Fito, 44 anni, leader del più importante gruppo criminale locale, Los Choneros, alleato del cartello messicano di Sinaloa, considerato “il criminale più pericoloso dell’Ecuador” (i suoi familiari avevano tentato di fuggire in Argentina, per stabilirsi lì, ma sono stati espulsi e rispediti in Ecuador). La risposta del presidente Noboa è stata ferma: «È scaduto il tempo per coloro che sono stati condannati per traffico di droga, omicidio e criminalità organizzata di dire al governo cosa fare», ha dichiarato, proclamando lo stato d’emergenza e il coprifuoco (dalle 23 alle 5 del mattino) in tutto il paese per 60 giorni. E le bande criminali hanno accettato la sfida: prima nelle carceri, prendendo in ostaggio 139 persone tra guardie e funzionari. Poi nelle strade: saccheggiando, terrorizzando, organizzando attentati i commissariati di polizia, saccheggi, attaccando negozi e università: dieci persone sono state uccise nei tumulti. E infine con un blitz nella sede della TC Televisión, dove uomini armati di pistole, fucili da caccia, granate e candelotti di dinamite hanno fatto irruzione nello studio dove si stava trasmettendo El Noticiero, il telegiornale, interrompendo la diretta. Il presidente Noboa ha subito emesso un decreto nel quale ha definito “gruppi terroristici” 22 bande di narcotrafficanti locali, autorizzando l’esercito a “neutralizzare le fazioni criminali entro i limiti del diritto umanitario internazionale”. Le forze speciali della polizia hanno poi riferito di aver arrestato tutti i responsabili (il loro primo interrogatorio era stato condotto proprio da César Suárez, il procuratore antimafia assassinato mercoledì scorso dai sicari dei narcotrafficanti) e di aver liberato tutti gli ostaggi nelle 5 carceri del paese. Tra il 9 e il 20 gennaio reparti dell’esercito e agenti di polizia hanno arrestato oltre 2500 persone, 158 delle quali accusate di terrorismo. Mentre è di sabato scorso la notizia di un “semi-sommergibile” bloccato dalle forze armate ecuadoriane in collaborazione con la Marina colombiana al largo della costa di Esmeraldas: a bordo c’era cocaina per un valore di 50 milioni di dollari e tre trafficanti colombiani, arrestati.
Il problema resta comunque di difficilissima soluzione. Perché non c’è legge che tenga, divisa che valga, limite etico e morale che possa far da argine a questa raccapricciante escalation di violenza: pubbliche impiccagioni, fosse comuni, omicidi indiscriminati, rapimenti per vendetta o a scopo d’estorsione, bande che reclutano bambini, un tasso di omicidi di minorenni che in appena 4 anni è cresciuto del 460%. Anche gli Stati Uniti hanno espresso “estrema preoccupazione” per l’ondata di violenza in Ecuador e hanno offerto il loro sostegno al governo di Noboa. Scrive la piattaforma web The Conversation in un reportage pubblicato pochi giorni fa: «Sempre più spesso, i gruppi criminali sono in grado di esercitare influenza sui governi locali, sui comuni e sugli uffici dei sindaci per nascondere i loro crimini e portare avanti i loro obiettivi strategici di trasformare l'Ecuador in un narco-stato. E a pagarne il prezzo sono i cittadini dell’Ecuador. I macabri omicidi, i rapimenti e altri atti di violenza li costringono a cambiare le loro abitudini o ad adottare una vita di completo isolamento. C’è un’atmosfera di insicurezza e sfiducia che si insinua nella società, che viene esacerbata dai media tradizionali e dai social media, che continuano ad operare senza un reale impegno per l’etica giornalistica e la responsabilità sociale». Mentre il paese sudamericano scala le classifiche dei più violenti e pericolosi al mondo: ora è all’11° posto, al pari della Siria e appena dietro l’Afghanistan, secondo uno studio dell’organizzazione Global Initiative. Mentre il World Justice Project, che monitora la “salute” per così dire dello stato di diritto in 146 paesi del mondo (spoiler: è in recessione, per il sesto anno consecutivo) colloca l’Ecuador al 96° posto, rilevando evidenti criticità nell’applicazione della giustizia penale (anche quella civile non se la passa bene) e nella corruzione. «Questa è una guerra - ha ribadito il presidente ecuadoriano - in cui il nemico è avanzato in profondità nel territorio e sta conquistando alcune aree. Seguiremo il diritto internazionale umanitario perché si tratta di un conflitto armato. Ma è un conflitto in cui abbiamo anche vittime: nostri agenti di polizia sono stati torturati, accecati, lasciati con disabilità fisiche, anche uccisi. È una guerra». Al giovane presidente Noboa, politicamente, non resta altra strada che coinvolgere tutti i partiti per alzare un muro di fermezza, nel duplice tentativo di frenare l’avanzata violenta e sanguinaria delle organizzazioni criminali (un esercito senza divisa), e di riconquistare la “gestione” della sicurezza interna, pur rispettando le libertà fondamentali dei cittadini: un’impresa al limite dell’impossibile.