SOCIETÀ
I nodi vengono al pettine: la città post-pandemica tra problemi noti e nuove crisi
La città di Milano. Foto: Contrasto
Ormai da diversi mesi la pandemia da Covid-19 ha completamente rimesso in discussione il nostro modo di vivere le città. Le crescenti limitazioni che si sono susseguite sin dalle primissime fasi di proliferazione del virus hanno alterato la quotidianità, obbligandoci a riconsiderare profondamente il rapporto con gli altri e lo spazio urbano. Ciò è vero nella misura in cui l’evento pandemico è stato tanto dirompente quanto totalizzante, ma è altrettanto certo che le difficoltà che ne sono scaturite discendono in buona misura anche dal fatto che viviamo in città che hanno faticato ad adattarsi ai nuovi scenari. In altre parole, le città hanno dimostrato di essere poco o per nulla resilienti. Non si tratta di una novità nell’ambito degli studi urbani (Meerow S., Newell J.P. e Stults M., 2016, “Defining urban resilience: A review”, Landscape and Urban Planning, 147, pp. 38-49): la gran parte delle città in cui viviamo presentano scarsissima capacità di reazione ai cambiamenti improvvisi e di adattamento al nuovo corso, tanto che la resilienza continua a rappresentare più una buona pratica messa in atto da alcune città che una consuetudine, a testimonianza di quanto questo approccio fatichi a farsi strada nel governo delle città contemporanee.
“ Le città hanno dimostrato di essere poco o per nulla resilienti
Sotto questo profilo, la diffusione di Covid-19 ha messo in luce la debolezza e la vulnerabilità dei sistemi urbani, incapaci di adattarsi prontamente al cambiamento, e non a caso nel dibattito pubblico si è fatta largo la necessità di una ‘ripartenza’. Il che certamente rappresenta una necessità comprensibile alla luce degli scenari di crisi che si sono delineati all’indomani della diffusione globale del Covid-19. Ma precisamente quale ripartenza si sta invocando? Da un lato, infatti, la pandemia ha esacerbato criticità già note da tempo a livello urbano e di cui a breve daremo parzialmente conto, ma, dall’altro lato, questa crisi sanitaria, nel segnare una sorta di cesura tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, può certamente costituire un’occasione per ripartire, a condizione, però, che ciò non coincida con un ritorno al passato, perché quel passato dimostra di non essere più compatibile con la realtà odierna, mentre è tempo che si avvii una profonda e complessiva riorganizzazione delle nostre città e dei nostri territori.
Un primo punto chiama in causa un cambiamento delle nostre abitudini, dei nostri stili di vita, dei nostri comportamenti. In questo siamo naturalmente noi i protagonisti in prima battuta, ma solo se potremo agire in un contesto coerente con questa necessità che ci consenta di assecondare realmente tali cambiamenti. Da questo punto di vista, le nostre abitudini potranno cambiare se accompagnate, ad esempio, da una completa rivisitazione dei ritmi della nostra quotidianità e da una rimodulazione dei tempi delle attività e in particolare della mobilità. Si tratta di un tema che la sociologia studia da tempo (si vedano: Urry J., Sociology Beyond Societies: Mobilities for the Twenty First Century, Routledge, London, 2000; Zajczyk F., Tempi di vita e orari della città. La ricerca sociale e il governo urbano, Franco Angeli, Milano, 2000; Colleoni M., I tempi sociali. Teorie e strumenti di analisi, Carocci, Roma, 2004), ma che ancora fatica a farsi spazio nelle agende politiche. In Italia, città come Milano e Genova furono tra le prime ad avviare un ragionamento sui tempi della città, che di fatto però non ha mai innescato un mutamento vero e proprio in questa direzione.
Se pensiamo al funzionamento delle città, infatti, queste continuano ad essere fortemente scandite da orari e tempi rigidi, legati al lavoro, allo studio, quasi fossimo ancora in epoca fordista. Nonostante, come noto, la città industriale sia entrata in crisi diversi decenni fa, di fatto l’organizzazione delle città sembra rispecchiare ancora quel tipo di modello. Al punto che quando la pandemia ha reso improvvisamente necessario il cosiddetto ‘lavoro agile’, l’Italia – che pochissimo ha investito in questa direzione, nonostante le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dalla connettività basata su Internet (Aloisi A. e De Stefano V., 2020, “Questa non è un’esercitazione: persone e lavoro al tempo della pandemia”, il Mulino, 508, 2, pp. 224-231) – si è sostanzialmente trovata spiazzata: da un giorno all’altro le persone – ben poco agilmente – hanno dovuto ricostruire faticosamente le proprie routine quotidiane, perché quell’organizzazione dei tempi e dei luoghi a cui si era abituati è improvvisamente saltata. Alla fine dell’estate 2020, la cosiddetta ripartenza è pressoché coincisa con una sorta di ‘ritorno al passato’, se si pensa a ciò che è accaduto nelle grandi città, con le stazioni e i mezzi pubblici affollati di persone che andavano e venivano dai luoghi di lavoro e dalle scuole. In altre parole, si sono riproposte le medesime routine del periodo pre-pandemico con i conseguenti assembramenti determinati dagli orari di punta. Si è detto, a riguardo, che il problema fosse legato all’insufficienza dei mezzi di trasporto pubblico, che è certamente uno dei problemi cronici che affligge la mobilità in Italia, ma pensare di garantire condizioni di sicurezza sanitaria semplicemente incrementando il numero di mezzi in circolazione sembra essere oggi non solo difficilmente attuabile, ma al contempo insostenibile nel lungo periodo.
Lo sforzo, semmai, va fatto verso un progressivo cambiamento dei nostri stili di vita, che passi attraverso una diversa organizzazione dei tempi delle giornate e favorita da un approccio verso la desincronizzazione delle attività e conseguentemente dei flussi (Mulíček O., Osman R. e Seidenglanz D., 2015, “Urban rhythms: A chronotopic approach to urban timespace”, Time & Society, 24, 3, pp. 304-325). Si tratta di un tema tanto noto in letteratura quanto poco presente nelle politiche urbane, ma che già nel breve periodo può aiutare a governare l’emergenza sanitaria e, in prospettiva, sperimentare routine più flessibili e comportamenti maggiormente capaci di adattarsi più in generale a cambiamenti improvvisi e rispondere più prontamente a nuove esigenze.
Abitudini e stili di vita dovranno essere ripensati anche in previsione di un ritorno alla socialità, che è tanto più forte quanto più è sottoposta alle numerose limitazioni che, nell’ottica di garantire la sicurezza sanitaria, stanno ridefinendo radicalmente modalità e forme dello stare insieme. Allo stato attuale, il distanziamento fisico caratterizzerà le interazioni sociali in presenza ancora a lungo, e ciò richiederà nuove combinazioni tra dimensione fisica e dimensione temporale della vita sociale urbana con l’obiettivo di far fronte a bisogni sociali diversificati in spazi capaci di promuovere benessere collettivo e accessibilità. Nell’ambito delle interazioni con i luoghi, urbani e non urbani, ripercussioni significative sono emerse anche rispetto alle pratiche turistiche, in quelle forme di relazione con lo spazio da intendere come atto di scoperta dell’ignoto, e conseguentemente con il venir meno di quelle occasioni di conoscenza tanto per chi si sposta quanto per chi accoglie. Anche da questa prospettiva la pandemia sembra aver ribadito l’opportunità di un cambio di paradigma con l’esplorazione di nuovi modi di fare turismo, agendo, ad esempio, sulla diversificazione delle destinazioni e su un diverso governo dei flussi. Se in epoca pandemica, infatti, ciò potrebbe consentire la fruizione turistica dei luoghi in condizioni di sicurezza sanitaria, in una prospettiva di più lungo periodo ciò promuoverebbe una mitigazione del carico antropico su alcuni territori con vantaggi dal punto di vista degli equilibri ecosistemici (si veda: Mazzette A. e Spanu S., 2021, “Phases of Tourism Development and Regulatory Policies: the case of Sardinia”, in IX International AssMed Conference, Slow and Fast Tourism: Travellers, Local Communities, Territories, Experiences, in corso d pubblicazione).
Da ultimo, vale la pena soffermare l’attenzione sugli esiti delle misure di contenimento della diffusione del Covid-19 in relazione al fatto che attività come il lavoro, lo studio e lo svago siano improvvisamente confluite in un unico contesto: l’abitazione.
Se, da un lato, la casa ha assolto ancora una volta al compito di proteggerci dai rischi provenienti dall’esterno, dall’altro lato essa si è rivelata spesso inadeguata ad accogliere contemporaneamente al suo interno funzioni, presenze ed esigenze molto diversificate. Se poi pensiamo a chi un’abitazione non la possiede o vive in condizioni di estremo disagio abitativo, la pandemia ha esacerbato condizioni già precarie ed estremamente vulnerabili, a ulteriore riprova del fatto che le città non solo appaiono scarsamente reattive di fronte a cambiamenti improvvisi, ma che è proprio in momenti di crisi come quello che stiamo attraversando che si ripropone l’utilità di una politics of relatedness (Amin A., 2006, “The Good City”, Urban Studies, 43, 5/6, pp. 1009-1023) finalizzata a sostenere una cultura della cura verso il prossimo che promuova il diritto alla piena realizzazione umana.
Le questioni finora delineate mettono in luce solo alcuni dei nodi problematici che la sociologia dell’ambiente e del territorio indaga da tempo, offrendo prospettive di superamento in un’ottica di sostenibilità ambientale e sociale. Come si è avuto modo di evidenziare più volte, l’emergenza sanitaria da Covid-19 ha, per così dire, acutizzato criticità già note in ambito urbano ma, al contempo, ci pone davanti una serie di nuove questioni sulle quali interrogarci. Al di là della questione sanitaria e sociale pensiamo, infatti, di trovarci di fronte ad altre crisi di tipo cognitivo/progettuale che andremo qui a descrivere.
La prima è di tipo epistemologico: quale è la forza delle discipline dure e umane sociali, se non nel contenere, almeno nel cogliere la situazione, la realtà per quella che è? La caduta della torre d’avorio di cui parlava Ulrich Beck (Beck U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2013, edizione originale: 1986), con il conseguente passaggio da una verticalità della scienza e della comunicazione dall’alto verso il basso, ad una sua orizzontalizzazione (cioè la moltiplicazione dei dati e delle letture), non ha segnato una crescita della conoscenza/consapevolezza, ma piuttosto ha determinato un aumento della segmentazione del sapere, fino ad una sorta di saturazione della capacità ricettiva. Troppa informazione genera confusione, incertezza, scelte difficili, desacralizzazione della scienza, assuefazione, volgarizzazione della discussione, manipolazione politica. La pandemia ci ha posto di fronte alla necessità non solo di affrontare il problema facendo ricorso ai frame teorici più consolidati – seppur non esaustivi – che le varie discipline ci offrono, ma anche di pensare alle modalità future di gestione dei processi di informazione/comunicazione. In questo quadro il tema degli esperti diventa tanto cruciale quanto problematico, visto il carico di responsabilità che spetta loro e, allo stesso tempo, considerati gli intrecci che si determinano tra mondo della scienza, mondo politico, amministrativo e società civile (come si osserva, ad esempio, in: Caselli D., Esperti. Come studiarli e perché, il Mulino, Bologna, 2020).
La seconda crisi, fortemente legata alla prima, è di tipo previsionale. Incalzante si è fatta la richiesta di formulare scenari predittivi sulla città e più in generale sulla società del dopo Covid-19. Questa pressione ha investito soprattutto gli scienziati sociali che hanno improvvisato quadri senza ancora aver colto la realtà dei fatti e soprattutto senza avere cognizione della durata della pandemia così come delle sue conseguenze. Sono bastati pochi mesi per far assurgere lo smart working a prospettiva di lavoro futuro, senza considerare che, per poterne valutare l’efficienza e l’efficacia, occorrerebbero ben più anni di prova e in altre condizioni rispetto a quella attuale di emergenza sanitaria. Il funerale della città, conseguente alla possibilità di lavorare da remoto, è stato celebrato più volte, ma senza il defunto. Già verso la fine degli anni ’70 Brian Berry parlava di contro-urbanizzazione (Berry B., ed., Urbanisation and counterurbanisation, Sage, Beverly Hills, 1976) e Alvin Toffler preconizzava il diffondersi di cottages informatizzati immersi nelle foreste, da cui ciascuno avrebbe potuto comunicare con il mondo, senza necessità di grandi spostamenti (Toffler A., The Third Wave: The Classic Study of Tomorrow, Bantam Books, New York, 1980). Erano gli anni in cui si pensava che il telelavoro avrebbe profondamente modificato gli stili di vita e decentralizzato l’organizzazione del lavoro stesso, restituendo pregnanza anche ai territori meno urbanizzati. Le previsioni si sono però dimostrate ampiamente errate, non solo perché le città hanno continuato vertiginosamente a crescere, ma anche perché la tecnologia, nel farsi sempre più leggera e invisibile, non ha limitato, ma, anzi, ha favorito incredibilmente la mobilità e gli incontri tra le persone. Computer portatili sempre più leggeri, cellulari sottilissimi, auricolari, orologi da polso multifunzione non hanno ancorato l’individuo allo spazio domestico, ma al contrario lo hanno liberato dallo stesso. In un mondo teso alla virtualizzazione delle relazioni, i rapporti vis a vis tornano paradossalmente a rappresentare un valore aggiunto irrinunciabile. Così il core momentaneamente abbandonato dell’area metropolitana viene rivalutato e consacrato a luogo privilegiato delle interazioni umane anche se in un’ottica che sancisce la messa in crisi, se non la definitiva scomparsa, del modello di sviluppo urbano basato sul rapporto centro-periferia per come lo avevamo conosciuto per buona parte del XX secolo, ma che comunque non rinnega la città.
Prima della pandemia, la densità dei luoghi urbani, l’eterogeneità degli stessi – variabili tanto care a Louis Wirth (Wirth L., 1938, Urbanism as a Way of Life, American Journal of Sociology, vol. 44, n. 1, pp. 1-24), alle quali egli aggiungeva, nella sua definizione di città, il tema della numerosità della popolazione – come occasione di scambio e di emancipazione culturale erano considerati come elementi costitutivi del benessere, conquiste sociali inalienabili. Sharing economy – cioè condividere mezzi e luoghi, dal divano all’autovettura, dagli uffici alle aree di ritrovo – era la parola chiave di uno sviluppo sostenibile e democratico che avrebbe ampliato le opportunità di molti, anche dei più deboli, frutto di una sedimentazione culturale lenta, ma ormai consolidata soprattutto in alcuni contesti proprio a maggiore tecnologizzazione. La smart city (Vanolo A., 2015, Smart city e sviluppo urbano: alcune note per un’agenda critica, Scienze del territorio, n. 3, Ricostruire la città, pp. 111-118), figlia dei tempi attuali, non è una città che confina le persone a casa, ma, al contrario, ne facilita le relazioni in presenza, guida all’uso delle facilities, invita le persone alla partecipazione, dunque a non rassegnarsi alla domesticità. La cosiddetta community without propinquity, già entrata da tempo nella riflessione teorica sulla città (si veda: Webber M., 1963, Order in Diversity: Community without Propinquity, in Wingo L., ed., Cities and Spaces, Johns Hopkins Press, Baltimore, pp. 23-54), non può costituire l’unico orizzonte di una società.
E che dire del multilocalismo, del desiderio di distribuire il proprio abitare in più case e città, della mobilità intensa nel tenere uniti i diversi poli (si vedano su questo punto: Nuvolati G., 2009, “Dalla casa all’abitare. Nuove pratiche e ricadute simboliche”, Meridiana, vol. 62, pp. 159-176; Pucci P. e Colleoni M.. eds., Understanding Mobilities for Designing Contemporary Cities, Springer, New York, 2016). Prospettive che ad alcuni possono suonare come pretese individualistiche e finanche presuntuose, oppure come forzature dettate dalle contingenze familiari e lavorative, ma che comunque rappresentano una sacrosanta ricerca di affermazione personale che difficilmente si può negare a un essere umano, nella misura in cui non collide con il rispetto della collettività. Non è questa l’occasione per entrare nel merito di modelli di sviluppo alternativi; ci riferiamo, ad esempio, al paradigma della decrescita di cui Serge Latouche è tra i più importanti portavoce (Latouche S., Breve trattato sulla decrescita serena. Come sopravvivere allo sviluppo, Feltrinelli, Milano, 2015). Certo, per alcuni versi le circostanze attuali sembrano richiamare la necessità di un ritorno dell’intellettuale engagé. Anche l’approccio del Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19, in fondo, va in questa direzione, alla ricerca delle possibili soluzioni ai problemi generati dalla pandemia, in un’ottica di impegno collettivo, ma nella consapevolezza che molte decisioni dovranno essere prese e riviste in corso d’opera, alla luce delle situazioni che man mano andranno determinandosi.
Ci piace usare la metafora dell’elastico per rappresentare la pandemia. Un elastico che ha momentaneamente bloccato un atleta velocista, che, trattenuto nel pieno della sua corsa, scalpita sul posto, ma che forse, una volta liberato dall’elastico, potrebbe correre ancora più velocemente, alla luce dell’energia accumulata in questo tempo di momentanea sospensione.
Le due principali visioni, “tutto tornerà come prima” vs. “niente sarà più come prima” (con i relativi auspici), hanno trovato diversi sostenitori, con i primi che del passato cercano di conservare gli aspetti migliori (di cui si dice non eravamo nemmeno consapevoli, tanto erano dati per scontati) e i secondi che si sono soprattutto orientati sulla necessità di cogliere l’occasione per porre rimedio ai mali del mondo (come se prima non avessimo avuto segnali sufficientemente allarmanti dell’insostenibilità del nostro modo di vivere). Le dimensioni etiche del wishful thinking hanno così preso la prevalenza sulle analisi più oggettive della realtà. Il nodo di questa duplice lettura non sarà facile da sciogliere negli anni futuri.
Veniamo alla terza crisi, quella progettuale, che riguarda dunque il paesaggio urbano per come potrà essere rimodellato al fine di risolvere i bisogni emergenti in seguito alla pandemia. Ancora una volta, vista l’incertezza della situazione, non possiamo immaginare un ripensamento complessivo e impattante sulle infrastrutture. Occorrerà navigare a vista, combinare urgenza e provvisorietà, in attesa che le situazioni si stabilizzino, con un modello di urbanistica che semmai si prefiguri attraverso quelli che vengono definiti ora ‘rammendi’ (Piano R.-G124, Diario delle periferie/1. Giambellino, Skira Editore, Milano, 2015), ora ‘agopunture’ (Lerner J., Urban Acupuncture, Island Press, London, 2016), più in generale micro-interventi capaci di valorizzare al massimo i luoghi nel rispetto delle tradizioni e delle storie che li hanno attraversati, ma senza stravolgerli e con l’intento di creare un senso di appartenenza e comunità nei quartieri.
La cosiddetta ‘città dei 15 minuti’ risponde in parte a tale desiderio, ma ancora una volta si scontra con una tendenza di segno opposto, che era in atto e vedeva le periferie luogo di vivacità e attrazione anche per popolazioni cosiddette non residenti (Nuvolati G., Popolazioni in movimento, città in trasformazione: abitanti, pendolari, city users, uomini d’affari e flâneurs, il Mulino, Bologna, 2002), anziché di semplice rafforzamento dell’identità locale. È il caso dei quartieri che definiamo delle 3B (Bicocca, Barona, Bovisa, oggi sedi di tre Università: Bicocca, IULM e Politecnico), che vedevano in atto un forte rilancio di queste zone, non tanto in ottica di chiusura e intimizzazione delle relazioni, quanto sull’onda di un nuovo policentrismo, di un’alta mobilità in ingresso e in uscita di pendolari, city users, studenti, business persons, dalle suddette aree.
Negli urban studies è assai nota e ancora importante da menzionare la polemica tra Herbert Gans e Louis Wirth. In particolare Gans, in opposizione con le teorie sull’urbanesimo come modo di vita di Wirth (1938), sosteneva che in città si possono ricostruire legami di vicinato, reciprocità e solidarietà simili a quelli delle società contadine premoderne e che, invece, in molti villaggi rurali non esiste quella dimensione solidaristica che ci si potrebbe aspettare (Gans H., The Urban Villagers: Group and Class in the Life of Italian-Americans, NY Free Press, New York, 1962; Wirth L., 1938, “Urbanism as a Way of Life”, American Journal of Sociology, vol. 44, n. 1, pp. 1-24). Anche la prospettiva di ripopolare i borghi attraverso una sorta di gentrification sembra molto difficile da realizzarsi. In Italia le realtà extraurbane appenniniche soffrono particolarmente per una serie di aspetti che riguardano la mancanza di collegamenti, di servizi, e la scarsa manutenzione del paesaggio dovuta al progressivo esaurimento della forza lavoro impegnata nell’agricoltura. Ma non sono solo questi gli aspetti da considerare: vi è anche una ‘voglia di città’ che sembra solo momentaneamente interrotta dal virus.
In conclusione, ci sembra di poter dire che la crisi attuale, così complicata anche solo da descrivere, non ci consente ancora di individuare la strada precisa per uscirne o, meglio, ci chiama ad azioni i cui obiettivi restano incerti, inevitabilmente legati a visioni del mondo differenti. Tale considerazione non deve, però, indurci ad una rassegnazione. Al contrario, deve stimolare la partecipazione e la formulazione di proposte politiche, avendo però in mente che le contraddizioni della nostra società non si possono risolvere d’emblée, pur sull’onda di un evento così tragico come la pandemia, ma richiedono percorsi lunghi, negoziazioni tra interessi diversi, rinunce collettive e individuali.