UNIVERSITÀ E SCUOLA

Ma la nostra università non è incapace. Anzi

Lo hanno già ribattezzato il “teorema Figalli”. E a detta di un grande giornalista, Gian Antonio Stella che ne ha parlato di recente su 7, il supplemento settimanale del Corriere della Sera, se uno lo dimostra correttamente porta a una conclusione da indurre a mettere le mani nei capelli: l’incapacità dell’università italiana di assumere i giovani e i meritevoli.

Insomma, nei nostri atenei alcune decine di migliaia di brocchi, mediamente anziani, tendono a favorire l’assunzione di giovani non meno brocchi, invece di ragazzi geniali o almeno molto ben preparati. Il che starebbe portando l’università italiana all’isolamento.

Ci dispiace davvero entrare in (civile) polemica con un giornalista che stimiamo moltissimo, come Gian Antonio Stella, ma, con molta modestia, cercheremo di fornire una diversa e forse più esatta dimostrazione del “teorema Figalli”. Naturalmente per svolgere questo compito dobbiamo ricordare brevemente chi è, Alessio Figalli. 

Si tratta di un matematico nato a Roma il 2 aprile 1984 che ha appena vinto la Medaglia Fields, al culmine di una carriera tanto rapida quanto prestigiosa. Alessio si è laureato a Pisa, dove ha studiato presso la Scuola Normale con un matematico di notevole valore, Luigi Ambrosio: tra gli scienziati italiani più citati nella letteratura internazionale. Subito dopo Alessio – in virtù di solide relazioni con la comunità matematica mondiale e specialmente francese e in virtù del fatto che il suo valore era già ben noto a Pisa –, per conseguire il PhD è andato a studiare all’estero, come è prassi per i più bravi, con un altro giovane, Cédric Villani, dell’École Normale Supérieuredi Lione e a sua volta vincitore della Medaglia Fields nel 2010. I rapporti con Ambrosio e la Normale non si sono mai interrotti.

Alessio era (ed è) un giovane molto sveglio. E in breve riesce a ottenere una posizione presso il CNRS francese, poi presso una delle università di Parigi, poi ad Austin in Texas, poi a Princeton nel New Jersey, finché a soli 26 anni non diventa full professor, in altri termini professore ordinario, sempre ad Austin. Ora è al Politecnico di Zurigo.

Cosa dimostra questa storia? Proprio quello che ha indicato Gian Antonio Stella: all’estero per un giovane valido (di genio, nel caso di Figalli) c’è la concreta possibilità di ottenere una posizione stabile. Se si è bravi si può raggiungere il massimo della carriera universitaria già a 26 anni, mentre in Italia, come calcola l’ANVUR (l’Agenzia per la Valutazione dell’Università e della Ricerca) in un recente rapporto, si diventa ordinari in media a 59,6 anni. 

Perché questa clamorosa divergenza tra Francia, Stati Uniti e Italia?

L’articolo sul settimanale del Corriere della Sera punta il dito contro le università italiane, che sarebbero tagliate fuori dalla grande scienza internazionale, e in particolare sui professori anziani, brocchi che amano scegliere come collaboratori giovani altrettanto brocchi e in più obbedienti. 

Ma è così? Davvero le nostre università fanno tanta pena da far mettere le mani nei capelli e la colpa di tutto è del corpo docente retrivo e un po’ ignorante?

Beh, i dati di fatto dicono di no. Partiamo da un aneddoto. Pochi giorni, addirittura poche ore dopo la Medaglia Fields assegnata ad Alessio Figalli, un altro italiano, Giovanni Gallavotti, nato a Napoli nel 1941 e professore emerito di Sapienza,università di Roma, ha vinto, come dire, il Nobel di categoria: il premio Poincaré per la fisica matematica. Non è un caso.

La scienza italiana gode di un prestigio che non solo è meritato, ma è anche riconosciuto. Per esempio, al CERN di Ginevra nel dicembre 2011, poco prima della scoperta del “bosone di Higgs”, sei esperimenti su sei erano diretti da italiani. E sì che a quegli esperimenti partecipavano alcune migliaia di ricercatori provenienti da decine di paesi di tutto il mondo.  D’altra parte l’Italia al CERN ha avuto quattro direttori generali: Edoardo Amaldi, il co-fondatore del laboratorio internazionale; Carlo Rubbia; Luciano Maiani e ora Fabiola Gianotti, la prima donna in assoluto a guidare il più grande laboratorio di fisica del mondo.

Sono tutti segni che, lungi dall’essere confinati a Villautarchia, come con la solita e pungente ironia, sostiene Gian Antonio Stella, gli scienziati italiani sono aperti al mondo. Anzi, sono tra i più aperti. 

Né ci sono solo la matematica o la fisica. Faremmo un torto a tantissimi uomini di scienza italiani di valore assoluto se facessimo solo alcuni nomi e non altri. Meglio ricorrere alle statistiche. Ebbene, i dati sulla ricerca internazionale ci dicono che, lungi dall’essere dei fannulloni che guardano solo il proprio ombelico, gli scienziati italiani sono tra i più produttivi e bravi al mondo. E non solo quelli che lavorano all’estero. Ma anche – e verrebbe da dire soprattutto – quelli che lavorano nelle università e nei centri di ricerca italiani. 

Ma allora perché i Figalli o scappano e diventano ordinari a 26 anni o restano in Italia e diventano ordinari a 60 anni? 

Beh, questo ce lo dice un’altra serie di dati che annunciamo con uno slogan: i nostri scienziati sono bravi, ma pochi. Ci riferiamo a quelli che lavorano in Italia. E perché sono pochi? Non è perché si crogiolano a Villautarchia, ma perché per la ricerca e l’università in Italia non ci sono soldi. Investiamo in ricerca l’1,3%: poco più della metà della media europea e mondiale. Poco più di un terzo rispetto a Germania e Stati Uniti. Dopo la crisi del 2008 la Germania ha tagliato i fondi pubblici di 80 miliardi di euro, ma nel contempo ha aumentato quelli per l’università e la ricerca di 15 miliardi. L’Italia ha aumentato la spesa pubblica, ma ha tagliato del 20% le risorse per l’università e la ricerca. Ha di fatto bloccato il turn over e così i docenti universitari sono diminuiti del 20%. Detto in altri termini, chi stava dentro le università è invecchiato e chi era giovane non è entrato.

Non è che siano entrati i brocchi a scapito dei geni. È che non è entrato nessun giovane. O quasi. E non per colpa dei docenti in via di invecchiamento, ma per volontà dei vari governi che si sono succeduti.

Aggiungete poi il fatto che all’estero ai giovani meritevoli offrono ponti d’oro – nella vicina Svizzera retribuiscono lo stage presso un’università di un ragazzo delle medie superiori con un grant che, a parità di tempo, è superiore allo stipendio di un ricercatore italiano – e capirete perché molti giovani, come Alessio Figalli, se ne vanno all’estero e ci restano. 

Tutto bene, dunque, nelle nostre università? Tutti corretti i comportamenti di ogni docente? Certo che no. In molti atenei o anche in molti singoli dipartimenti di alcune università prevale il familismo e il clima da Villautarchia, certo. Comportamenti da denunciare con assoluta inflessibilità, come fa meritoriamente Gian Antonio Stella. Ma non bisogna confondere fatti locali e tutto sommato marginali con ciò che si produce nell’intero sistema universitario.

Se i nostri atenei producono ragazzi come Figalli e propongono professori come Gallavotti, beh significa che non sono messi poi così male. Il “teorema Figalli” denuncia non la sua incapacità, ma al contrario le sue notevoli capacità. A iniziare da quella di riuscire a celebrare molte nozze con fichi sempre più secchi. 

Se il resto del paese non riesce a farne tesoro e a sostenerla, la nostra università, se non riesce a credere nel valore della cultura, questa no, non è una colpa che può essere attribuita all’università. Non si può scambiare la vittima per il carnefice.

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