SCIENZA E RICERCA

Le origini della peste bubbonica

Le pietre tombali sono quanto di più vicino c’era un tempo a un certificato di morte: spesso, oltre al nome e alla data della sepoltura, possono recare impresse anche una serie di informazioni interessanti come il ruolo e il rango sociale del defunto e una breve descrizione dei motivi del decesso. Quelle oggi esaminate dagli studiosi nella valle di Chüy, vicino al lago Issyk-Kul nell’attuale Kirghizistan, potrebbero però avere anche un’altra valenza: quella di certificare di nascita di una delle più tremende pandemie della storia, la peste bubbonica del Trecento.

La notizia arriva da uno studio pubblicato su Nature che in pochi giorni ha già fatto il giro del mondo. Esaminando le tombe presenti nei cimiteri denominati Kara-Djigach e Burana era già stato notato che un numero inusualmente alto di esse risaliva al 1338 e al 1339 e che dieci facevano inoltre riferimento a una pestilenza. Da qui è partita un’équipe internazionale di ricercatori, guidata da Johannes Krause dell’istituto Max Planck di antropologia evolutiva di Lipsia, Philip Slavin dell’università di Stirling e Maria Spyrou dell’università di Tubinga, per studiare direttamente i corpi riesumati.

E i risultati non si sono fatti attendere: in sette dei resti umani esaminati sono state infatti trovate tracce di Dna del batterio Yersinia pestis, risalenti a otto anni prima che la pandemia deflagrasse in Europa uccidendo in certe zone fino al 60% della popolazione. Una scoperta che potrebbe chiarire percorsi, modi e tempi di diffusione di una delle pestilenze più famose della storia, descritta anche da Giovanni Boccaccio nel Decamerone. Fino a non molto tempo fa si ipotizzava infatti che il morbo fosse arrivato in Occidente sulla scia dell’invasione mongola: il suo deflagrare viene infatti registrato per la prima volta nelle cronache nel 1346 presso la città di Caffa in Crimea, mentre questa era assediata dalle truppe dell'Orda d'Oro guidate dal khan Ganī Bek. Da qui la pestilenza si sarebbe in seguito diffusa nei porti del Mediterraneo (Caffa era un dominio genovese) e poi in tutto il continente.

La scoperta condotta in Kirghizistan sembra invece suggerire un altro scenario: il micidiale battere avrebbe potuto arrivare in Europa qualche anno prima tramite le carovane che percorrevano la Via della Seta. Gli studi sulle salme, portate alla luce nell’Ottocento e attualmente conservate dal museo di antropologia e di etnografia di San Pietroburgo, sono infatti riusciti a sequenziare due genomi di Yersinia appartenenti allo stesso ceppo, che sarebbe il progenitore sia di quello che ha provocato la peste nera a Londra nel 1648, sia di tutti gli altri che da allora hanno continuato ad affliggere l’umanità fino a tutto l’Ottocento. Proprio nel 1894 a Hong Kong il microbiologo svizzero-francese Alexandre Yersin, durante una delle ultime grandi pestilenze che avrebbe ucciso milioni di persone in Cina e in tutto il sudest asiatico, avrebbe scoperto il bacillo a cui poi avrebbe dato il nome.

Secondo lo studio, che unisce competenze e strumenti diversi afferenti agli ambiti dell’archeologia e dell’analisi documentale, della biologia e della computazione di dati, l’area di origine del patogeno potrebbe essere identificata in un’area compresa tra il Kirghizistan e il Kazakistan orientali e la regione dello Xinjiang, nel nordovest della Cina. In particolare l’attenzione di studiosi e scienziati è concentrata sui monti del Tian Shan, le “montagne celesti” che costeggiano il tratto iniziale della Via della Seta. Qui la popolazione locale di marmotte sarebbe stata il serbatoio ideale per lo sviluppo del microbo, che come è noto predilige i roditori, per poi effettuare lo spillover nell’uomo, probabilmente attraverso parassiti ematofagi come le pulci.

La scoperta segue di 11 anni il sequenziamento del genoma della Peste Nera che aveva colpito l’Inghilterra nel 1348-49, pubblicato sempre da un gruppo di ricerca guidato da Johannes Krause. In quell’occasione oggetto di studio erano stati i resti umani trovati nel cimitero londinese di East Smithfield. La notizia aveva segnato il rilancio dell’uso della genetica per lo studio delle pandemie: fino ad allora infatti non era ancora affatto sicuro che a causare la strage del 1346-53 fosse stato proprio lo Yersinia Pestis, così come a tutt’oggi non è chiaro se esso sia anche dietro alla cosiddetta “Peste di Giustiniano” che nel sesto scolo devastò il Mediterraneo e il vicino oriente. Nell’antichità infatti veniva spesso indicata come pestilenza ogni sorta di malattia infettiva, a prescindere dai sintomi e dalle modalità di trasmissione.

Un primo tentativo di collegare il batterio alla pandemia del XIV secolo attraverso l’analisi genetica era stata messa in atto nel 2000 dal gruppo di ricerca guidato da Didier Raoult, microbiologo dell’università del Mediterraneo di Marsiglia, che esaminò alcuni reperti provenienti da una fossa comune situata a Montpellier. In quel caso fu usata la tecnica nota come PCR (polymerase chain reaction) per “amplificare” e quindi esaminare frammenti di Dna rinvenuti sui denti di alcuni dei corpi. In quel caso però una parte della comunità scientifica si rivelò da subito dubbiosa sui risultati ottenuti, stante soprattutto il pericolo di inquinamento dei reperti con pezzi di genoma di altri batteri presenti nel suolo o nello stesso laboratorio dove vennero condotte le analisi.

Oggi a distanza di due decenni nessuno dubita più dell’apporto della genetica, sempre come aiuto e non in sostituzione del lavoro condotto negli archivi e negli scavi archeologici. Rimangono comunque molti interrogativi da risolvere, a partire dalle cause del periodico riemergere dello Yersinia Pestis in outbreak violenti quanto mortiferi per poi inabissarsi di nuovo per decenni: un’attitudine che con tutta probabilità dipende da fattori ambientali in parte non ancora del tutto individuati. Sulle pandemie del passato il lavoro è insomma appena iniziato.

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