SOCIETÀ

Pakistan, crisi di governo: sfiduciato il premier Imran Khan

Questa volta il “fuoricampo” l’ha subìto lui: Imran Khan, ex capitano della nazionale pakistana di cricket, fino a pochi giorni fa primo ministro, eletto nel 2018 con il partito nazionalista e populista Tehreek-e-Insaf (Movimento per la giustizia, da lui fondato nel 1996) con il proposito di estirpare dal paese povertà e corruzione, è stato costretto a lasciare l’incarico. Sfiduciato dal Parlamento, dall’opposizione compatta e da frange della sua stessa maggioranza (circa una dozzina di parlamentari), che sono riusciti a raccogliere appena più della metà dei voti (174 su 342 totali), sufficienti comunque a decretare (almeno per ora) la sua uscita di scena: mai, in Pakistan, un premier era stato rimosso dal suo incarico attraverso un voto di sfiducia (e mai un premier è riuscito, dal 1947 a oggi, a completare i 5 anni del suo mandato). Pochi giorni prima lo stesso Khan aveva tentato di bloccare il voto di sfiducia, chiedendo al presidente Arif Alvi di sciogliere il Parlamento e di indire elezioni anticipate. Ma la Corte Suprema del Pakistan aveva definito la mossa “incostituzionale”, annullandola. Venerdì 8 aprile, nel suo ultimo discorso da premier alla nazione, Khan ha sostenuto che dietro la sfiducia (formalmente per “cattiva gestione economica”) c’era una “cospirazione straniera” guidata dagli Stati Uniti. Lunedì scorso quello stesso Parlamento, con quella stessa maggioranza (174 voti) ha eletto il nuovo primo ministro: è Shehbaz Sharif, 70 anni, leader della Lega musulmana pakistana (Pml-N), conservatore e liberale, fratello minore del già tre volte primo ministro Nawaz (fino al 2017, quando si dimise perché coinvolto nello scandalo dei “Panama Papers”). 

L’obiettivo del nuovo governo, che punta a rimanere in carica fino alla scadenza naturale della legislatura (ottobre 2023), non sarà semplice anche perché sostenuto da una maggioranza assai eterogenea, che comprende anche il socialdemocratico Pakistan People’s Party (Ppp) di Asif Ali Zardari, marito dell’ex premier Benazir Bhutto, assassinata nel 2007, che lo scorso febbraio aveva organizzato una “marcia”, a bordo di moto, camion e altri mezzi di trasporto, da Karachi a Islamabad (1.400 km) per chiedere le dimissioni del premier.

L’insolita cacciata di Khan apre sicuramente un nuovo capitolo della politica pakistana, ma il paese resta profondamente spaccato in due. Con migliaia di sostenitori dell’ex premier, soprattutto giovani, scesi in piazza ovunque (da Islamabad a Karachi, da Lahore a Peshawar: quello che non è chiaro quanto “spontaneamente”) per confermare il loro sostegno all’ex premier. E con una crisi economica sempre più acuta (l’inflazione per i prodotti alimentari essenziali viaggia attorno al 15%, con la classe media che scivola sempre più verso la povertà), con la rupia pakistana in caduta libera (ha perso oltre il 50% del suo valore negli ultimi 5 anni), un aumento dei tassi di interesse come non si vedeva da decenni e un debito estero al limite dell’insostenibile. Lui, Khan, grida al complotto. «La mossa per estromettermi è una palese interferenza nella politica interna da parte degli Stati Uniti». Accuse generiche, se non per una lettera di “minaccia” che un diplomatico americano (Donald Lu, vicesegretario di Stato per l'Ufficio per gli affari dell'Asia meridionale e centrale) avrebbe consegnato all’ambasciatore pakistano negli Stati Uniti, Asad Majeed, nella quale sostanzialmente si sosteneva che una rimozione di Imran Khan dal ruolo di primo ministro avrebbe contribuito a ricostruire le relazioni tra Pakistan e Stati Uniti. “Se la mozione di sfiducia passerà, il Pakistan sarà perdonato. In caso contrario ci saranno conseguenze”.  La Casa Bianca ha respinto le accuse. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price, ha poi precisato: «Stiamo seguendo da vicino gli sviluppi in Pakistan: rispettiamo e sosteniamo il processo costituzionale e lo stato di diritto. Quanto alle accuse, non c'è nulla di vero».

La “frattura” con gli Stati Uniti sull’Afghanistan

Certo, i rapporti tra Pakistan e Stati Uniti si sono assai deteriorati negli ultimi anni, in particolar modo da quando Joe Biden s’è insediato alla Casa Bianca (con Trump, che s’era offerto di mediare tra Pakistan e India sull’annosa questione del Kashmir, i rapporti erano migliori). Nonostante gli Stati Uniti siano ancora il più grande mercato di esportazione del Pakistan (almeno il 21% delle esportazioni totali del Pakistan, per un valore stimato di oltre 6 miliardi di dollari). Ma da un punto di vista politico le tensioni si sono acuite lo scorso anno sull’Afghanistan, con Imran Kahn che nel giugno 2021 dichiarò che «non avrebbe assolutamente consentito» agli Stati Uniti di collocare forze militari in Pakistan per condurre missioni antiterrorismo in Afghanistan, guadagnandosi così l’appellativo di “amico dei talebani”. Talebani che aveva poi lodato ad agosto, in pieno ritiro dei soldati Usa dall’Afghanistan, per aver «spezzato le catene della schiavitù». Ma è stato soprattutto il progressivo abbraccio strategico-commerciale con Cina e Russia ad aver fatto infuriare Washington. L’aver spalancato le porte agli investimenti infrastrutturali cinesi, con il programma “Belt and Road Initiative”, al punto da trasformare Islamabad in uno dei più stretti alleati di Pechino. «Abbiamo una politica estera indipendente», aveva più volte ribadito Khan. «Non siamo un burattino nelle mani dell’Occidente». Con la “ciliegina” finale della visita di Khan al Cremlino il 24 febbraio scorso: tre ore d’incontro con Putin, che aveva appena dato l’ordine al suo esercito di invadere l’Ucraina. Ennesima occasione di scontro con le diplomazie occidentali, soprattutto dell’Unione Europea che ha chiesto al Pakistan una presa di posizione più netta, una parola di esplicita condanna contro l’invasione russa: «Non siamo i vostri schiavi, non faremo qualcosa solo perché l’avete detto voi», è stata la risposta di Khan. «Abbiamo relazioni con Stati Uniti, Russia, Cina ed Europa. Non siamo in nessun campo. Siamo neutrali. Cercheremo di collaborare con questi paesi per tentare di porre fine a questa guerra in Ucraina». Tradotto in pratica: all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che all’inizio di marzo ha votato una risoluzione di condanna dell’invasione russa in Ucraina, il Pakistan si è astenuto (come i giganti asiatici Cina e India, come la Thailandia, la Malesia, il Vietnam, come tutto il mondo islamico, ad eccezione di Kuwait e Qatar). Astensioni che nascondono la volontà di non interrompere le relazioni con Mosca. Come ha scrittopochi giorni fa World Politics Review: «Quando si tratta di diplomazia delle Nazioni Unite, non tutte le astensioni sono uguali».

Il ruolo dell’Esercito

Eppure in questa vicenda c’è un terzo attore, formalmente rimasto nella penombra, ma indispensabile per comprendere le dinamiche della politica pakistana: l’esercito. Che nel 2018 aveva dato il via libera all’ascesa politica dell’ex stella del cricket. Ma che ultimamente, anche alla luce dell’andamento drammatico dell’economia, aveva fatto progressivamente mancare il suo sostegno al primo ministro. E se l’esercito rema contro, il governo pakistano, in un modo o nell’altro, finisce per cadere. E mentre Khan ampliava la sua distanza dalle relazioni con l’Occidente, il capo di stato maggiore, generale Qamar Javed Bajwa, esprimeva pubblicamente opinioni diametralmente opposte, quasi fosse un “premier-ombra”: «Il Pakistan ha un lungo ed eccellente rapporto strategico con gli Stati Uniti, che rimane il nostro più grande mercato di esportazione», aveva dichiarato il 2 aprile scorso. Per poi precisare: «Non crediamo alla politica dei campi e le relazioni bilaterali con i nostri partner non vanno a scapito delle nostre relazioni con altri paesi», riferendosi al solido legame di Islamabad con la Cina. E infine sulla guerra in Ucraina: «L’invasione russa dev’essere fermata immediatamente. La sua aggressione contro un paese più piccolo non può essere perdonata». Imran Khan ha compreso: e per restare al potere ha tentato il colpo di mano: sostituire il generale Bajwa con qualcuno di sua fiducia, in grado di seguire senza strappi la sua linea di politica estera. Tentativo fallito. Le cronache raccontano di una visita a sorpresa in elicottero, la sera del 9 aprile, nella residenza del primo ministro, del capo dell’Isi (Inter-Services Intelligence, la più importante sezione dei servizi segreti pakistani, alle dirette dipendenze delle Forze Armate): 45 minuti di colloquio. Il giorno successivo Imran Khan è stato “licenziato” dal Parlamento.

Ma con ogni probabilità la carriera politica di Khan non è finita qui. Di certo può contare ancora oggi su un numero ancora consistente di sostenitori. E la sua uscita di scena è arrivata non per colpe specifiche, ma per una congiura. Come dire: la sua “fedina politica” è ancora pulita. Ma è pur vero che sui temi economici il suo governo non ha raggiunto i risultati sperati. Sostiene l’economista pachistano-americano Atif Mian: «Sebbene Imran Khan abbia ereditato una crisi valutaria, non ha fatto nulla di sostanziale e sta lasciando l’economia in condizioni ancora peggiori. Non ha affrontato le sfide macroeconomiche, non ha pianificato un percorso di indipendenza energetica, senza la quale non può raggiungere una crescita sostenibile. Invece, il governo Khan è andato a chiedere l'elemosina all’estero, facendo innalzare il debito». E di fronte all’impennata dell’inflazione, l’ex primo ministro aveva risposto sprezzante: «Non sono entrato in politica per controllare i prezzi di aloo e tamatar (patate e pomodori)». Ma Khan non si arrende. «La lotta per la libertà ricomincia oggi contro una cospirazione straniera che ha portato a un cambio di regime», ha scritto sul suo profilo Twitter (16 milioni di follower). Continua a chiedere elezioni anticipate e definisce il nuovo esecutivo, espressione del solito clan Sharif, «un governo di banditi». Scrive Fahd Husain, editorialista di Dawn, il più importante quotidiano pakistano in lingua inglese: «Decisioni sconsiderate e un approccio conflittuale alla politica, mescolati con una sana dose di arroganza, hanno portato il governo di Imran Khan a una fine ignominiosa. Ma può ancora salvare le sue prospettive elettorali se impara dai suoi errori e corregge la rotta».

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