La pandemia da Covid-19 che dal 2020 flagella con altalenante intensità e disomogenea distribuzione territoriale e sociale l’umanità intera ha avuto ed ha tutt’oggi, mentre stiamo scrivendo questo articolo dopo più di un anno dalla sua deflagrazione, significativi impatti sui singoli individui e sulla società nel suo insieme. Si tratta, evidentemente, in primo luogo di impatti di tipo sanitario e umano e, a seguire ma non di secondaria importanza, di tipo economico, sociale e politico. La letteratura scientifica su questi temi è ormai ampia così come lo è, a tutti i livelli, il dibattito sugli effetti che la pandemia potrebbe avere sulla forma della città e del territorio, sui modi con cui li abitiamo e ci rapportiamo ad essi, oltre che su come li abbiamo progettati e realizzati e su come più o meno prevedibilmente li abiteremo, progetteremo e trasformeremo in futuro. Nelle righe che seguono affronteremo questi temi da una particolare prospettiva: quella determinata dai possibili mutamenti del nostro modo di lavorare – in qualsiasi forma si intenda il lavoro e comprendendo in questo termine anche quello dei più giovani (e fortunati) cittadini dei paesi occidentali ovvero lo studio – e soprattutto delle relazioni tra casa e lavoro.
Qualcosa è cambiato, non tutto
Se escludiamo le questioni di tipo sanitario e quelle legate alla privazione delle libertà individuali, tra gli aspetti che hanno maggiormente caratterizzato la nostra vita in questo periodo di pandemia c’è stato senza dubbio l’estensivo ricorso alle tecnologie informatiche. È tramite l’utilizzo di un dispositivo elettronico – sempre meno strumento e sempre più protesi del nostro corpo – che molti di noi hanno lavorato, i nostri figli hanno seguito le lezioni scolastiche, abbiamo dato continuità alle nostre relazioni affettive e sociali, fatto la spesa o comprato un libro. E questa – lo diciamo per inciso – è stata una vera fortuna perché l’isolamento a cui siamo stati costretti durante i periodi di lockdown che si sono susseguiti a partire dal marzo 2020 è stato in qualche modo annacquato, risultando così meno crudele e lacerante di quanto avrebbe potuto essere.
Il più delle volte abbiamo fatto tutto ciò da casa, per intere settimane, comprimendo le nostre esistenze in spazi fisici rivelatisi, soprattutto nel lungo periodo, per lo più inadatti. Indebolendo significativamente i legami con gli altri luoghi della nostra esistenza – le strade, le piazze, gli uffici, le fabbriche, le aule – e abbandonando repentinamente tutto ciò che era collettivo, pubblico, compresenza con quanti non appartenessero al nostro ristretto nucleo familiare. Abbiamo cioè perso, almeno nei periodi in cui questo ci è stato giustamente vietato per contenere la diffusione del contagio, l’abitudine di recarci al lavoro, a scuola, a teatro, al mercato, allo stadio. Di prendere il tram, bere un caffè ai tavolini di un bar, vedere un film al cinema, una mostra in una galleria. Oltre che quella di stare semplicemente tra gli altri, non necessariamente con gli altri, in un luogo pubblico, nonché il piacere di perdersi dentro la città per ritrovare sé stessi. Molte azioni della nostra quotidianità sono state cioè confinate entro le cosiddette “quattro mura” domestiche e allo stesso tempo, quasi senza che ce ne accorgessimo, repentinamente risucchiate in un mondo virtuale dove improvvisamente la fisicità – quella dei nostri corpi nella relazione tra loro e con lo spazio fisico – è venuta meno. Da un lato, a livello domestico, si sono così esasperate la contiguità e la promiscuità degli affetti, dei sessi, delle generazioni, delle attività e delle azioni di ciascuno di noi. Dall’altro, a livello sociale, esse si sono in molta parte dissolte così come sono sostanzialmente svanite le relazioni con i contesti e dunque, per esempio, le emozioni di un bel paesaggio urbano o rurale o le sensazioni generate da una qualsiasi spazialità interna o esterna di cui, insieme al cuore, il nostro cervello si nutre costantemente. Insomma, una parte importante di ciò che dà senso e attribuisce qualità alla nostra vita – l’esperire i luoghi nella loro multiforme condizione fisica, sociale, culturale – è venuta meno e i confini tra il pubblico e il privato si sono sclerotizzati nel reale per sgretolarsi nel virtuale. È infatti nei nostri spazi privati – nei soggiorni delle nostre case, tra gli elettrodomestici delle nostre cucine, dalle nostre camere da letto – che molti di noi hanno incontrato colleghi e superiori, discusso con clienti e fornitori delle attività lavorative, assistito o partecipato a dibattiti, ascoltato o tenuto lezioni o conferenze, sostenuto interrogazioni, esami, colloqui di lavoro. Ed è così che, nostro malgrado, scorci del nostro privato sono diventati qualcosa di pubblico. Cosa che, certo, talvolta abbiamo voluto noi stessi – come dimostra l’ondata di immagini e testi relativi a fatti intimi che si è riversata sui canali social (forse una sorta di esibizione collettiva del privato come forma di ricostituzione dei legami sociali) –; altre volte l’abbiamo subita, senza sostanziale possibilità di scampo da quella che, per molti versi, è stata una vera e propria intrusione da cui è stato difficile se non impossibile difendersi.
Le domande che suscita tale situazione sono più d’una. La prima, quella che ha attraversato molte delle letture che sono state date della condizione pandemica mentre stavamo vivendo i suoi periodi più bui, è: fino a quando durerà tutto ciò? Domanda subito sostituita, non appena le cose sono andate un po’ meglio, da altri interrogativi e una pluralità di risposte sui caratteri che avrebbe assunto il futuro post-pandemico, su ciò che ci saremmo portati nel nostro domani e ciò che, al contrario, avremmo pian piano abbandonato e forse dimenticato. Ammesso e non concesso che i vaccini che stiamo utilizzando nel medio e lungo periodo siano davvero in grado di debellare il virus in tutte le sue molteplici varianti presenti e future, consentendo il ritorno stabile a una vita normale – dove per normale intendiamo quella pre-pandemica –, dal nostro punto di vista non è così scontato che quanto abbiamo vissuto abbia segnato in modo irreversibile il nostro modo di abitare la città e il territorio. Non è cioè così sicuro che, almeno nel breve periodo, abbia luogo quell’effetto domino (pandemia / nuovi modi di lavorare / nuovi tipi di case e di spazi urbani / nuovi rapporti territoriali) che più d’uno, forse incautamente, ha prospettato. Come hanno osservato Yvonne Farrell e Shelley McNamara (Grafton Architects) in occasione del conferimento del Pritzker Priz nell’ottobre 2020, «ogni periodo di crisi impone cambi d’abitudini per un certo tempo: ma non per sempre, perché alla fine si ritorna alla normalità […] [E] anche se la tecnologia ci consente di lavorare da remoto e di essere autosufficienti, rimane il piacere umano di interrelarsi, di intrecciarsi gli uni agli altri, di sperimentare quel tipo di vicinanza che solo la città è in grado di offrire» («Il Sole24ore - Domenica», 13 giugno 2021, intervista di Fulvio Irace). Se dal punto di vista sanitario la situazione si risolvesse, è cioè assai probabile che «il piacere di interrelarsi» torni a prevalere. La quantità di persone che, non appena è stato possibile, è tornata a invadere strade, piazze, parchi, spiagge – in taluni casi anche decisamente oltre misura e con sprezzo per il pericolo sanitario – è la dimostrazione plastica di tutto ciò.
Allo stesso tempo, tuttavia, è ragionevole pensare che le abilità nel fare le stesse cose in modo diverso che abbiamo acquisito, tanto a livello individuale quanto sociale, probabilmente non andranno del tutto perdute. Così come è verosimile che alcuni “vantaggi” derivanti da questa situazione condizioneranno almeno in parte le scelte future dei singoli, da un lato, e delle imprese e della pubblica amministrazione, dall’altro. Vantaggi che – se non adeguatamente regolati come non lo sono stati durante il periodo di emergenza pandemica – a seconda della prospettiva da cui li si guarda potrebbero – come diremo – facilmente trasformarsi in svantaggi per i singoli o la società nel suo insieme.
Smart working e dad, non solo vantaggi
Molte delle proposte sul futuro della città e del territorio avanzate in questo periodo critico muovono sostanzialmente dall’idea che – come si è dimostrato durante la pandemia – le tecnologie informatiche consentirebbero di svolgere in tutto o in parte diversi tipi di lavoro a domicilio e, per alcuni livelli dell’istruzione, potrebbe essere praticata più o meno sistematicamente la cosiddetta “dad”, didattica a distanza. Cosa che comporterebbe una sorta di indifferenza localizzativa delle residenze rispetto ad alcuni luoghi di lavoro o di studio; un risparmio della quantità degli spazi necessari per tali attività resi superflui dal fatto che ciò che in essi si svolgeva quotidianamente potrebbe avvenire altrove; una minore domanda di trasporto pubblico e privato (soprattutto in determinate ore del mattino e del tardo pomeriggio) e dunque di infrastrutture e servizi. Stiamo parlando, evidentemente, delle attività di tipo terziario, di alcune del terziario avanzato (ricerca, tecnologia, ecc.) o quelle didattiche relative ai livelli intermedi e alti dell’istruzione che, potenzialmente, potrebbero essere svolte ovunque – più o meno stabilmente e integralmente – con la sola dotazione di un personal computer e di una buona connessione alla rete Internet. Uno scenario che – come tra Otto e Novecento quando per analoghe ragioni le proposte antiurbane proliferavano – è alimentato da un immaginario viziato dalla paura del contagio e dal consolidarsi delle pratiche di distanziamento sociale, ma soprattutto è reso ancor più credibile tanto da una pervasiva diffusione del commercio online (che anche prima della pandemia tendeva a ridurre la necessità di spazi fisici per la vendita dei prodotti e soprattutto la necessità di raggiungerli per gli acquisti) quanto dalla dematerializzazione degli scambi finanziari e della burocrazia (che, a differenza di qualche anno fa, nella maggior parte dei casi ormai non richiede più la presenza fisica per ritirare dei documenti o per una firma).
Interessante notare, poi, che diverse ipotesi circolate in questi mesi, alcune delle quali in realtà maturate anche prima dello scoppio della pandemia come risposta alla crisi ambientale e sociale, sembrano andare nella direzione di immaginare forme insediative che – a dispetto di quella disconnessione tra individuo e contesto generata dalle tecnologie informatiche, di quella sorta di sradicamento dai luoghi che caratterizza per molti versi la società contemporanea e della forzata dissoluzione dei legami sociali determinata dalle norme e dai comportamenti volti a contrastare la diffusione dell’epidemia – intrecciano un’attenzione alla dimensione spaziale e funzionale con quella relazionale e sociale che pare far emergere un rinnovato interesse tanto per forme tipiche degli insediamenti urbani quanto per strutture sociali che, per certi versi, potremmo definire premoderni, dove cioè prossimità e promiscuità funzionale e sociale sono una caratteristica essenziale. Per esempio, fin dai primi mesi della pandemia, Stefano Boeri ha sostenuto, con grande eco mediatica, la necessità di tornare ad abitare i piccoli borghi di cui è costellata l’Italia. Boeri, in particolare, auspicava «una campagna per facilitare la dispersione, e anche una ritrazione dall’urbano», «un grande progetto nazionale [sostenuto e agevolato da] vantaggi fiscali e incentivi» in grado di condurre alla occupazione/rioccupazione di quei «5800 centri sotto i 5mila abitanti, e [soprattutto dei] 2300 [che] sono in stato di abbandono» («la Repubblica», 21 aprile 2020, intervista di Brunella Giovara). Ezio Manzini, per fare un altro esempio, sostiene che una «città delle prossimità, in cui tutto è appunto in prossimità, può essere la prospettiva con cui contrastare quella distopica […], sfortunatamente, molto potente e già ampiamente operante, del tutto a/da casa» (Abitare la prossimità, Egea, 2021, p. 3). Quella proposta da Manzini è invece «una città in cui a questa prossimità funzionale ne corrispond[erebbe] una relazionale, grazie a cui le persone [avrebbero] più opportunità di incontrarsi, sostenersi a vicenda, avere cura reciproca e dell’ambiente, collaborare per raggiungere assieme degli obiettivi. In definitiva, una città costruita a partire dalla vita dei cittadini» (p. 1). Rafael Moneo, per citarne ancora uno, ha invece sottolineato quanto «ancora oggi non si possa pensare alla città contemporanea senza fare riferimento alla città tradizionale. Bisogn[erebbe] – ha affermato in occasione del Leone d’oro alla carriera della Biennale di Venezia – considerare i valori storici e tradizionali di una città: la scala, l'intellegibilità, la mancanza di specializzazione» dei suoi tessuti edificati («la Repubblica», 24 giugno 2021, intervista di Cloe Piccoli).
Non sempre, tuttavia, la portata di tali proposte – peraltro per molti versi condivisibili – è colta appieno in tutte le molteplici sfaccettature che implicherebbe la loro applicazione estensiva. Come altre volte è accaduto nella storia, le possibilità offerte dall’innovazione tecnologica – si pensi alla diffusione dell’automobile nel Novecento – stanno cioè alterando il rapporto con lo spazio urbano e territoriale, mettendo in secondo piano ogni altra riflessione sugli impatti che ciò potrebbe comportare tanto sugli individui quanto sulla società nel suo insieme oltre che, evidentemente, sulla città, il territorio, il paesaggio, l’ambiente.
Dal punto di vista ambientale, per esempio, la ridistribuzione della popolazione sul territorio potrebbe essere interessante nella prospettiva di un riequilibrio della pressione antropica tra le aree urbane più congestionate, quelle metropolitane meno organizzate e i territori interni che soffrono di una condizione di abbandono. Allo stesso tempo, però, potrebbe trasformarsi in un boomerang se non preceduta e accompagnata da una rinnovata e attenta riflessione sulle modalità con cui questa potrebbe avvenire e soprattutto sulle conseguenze che potrebbe avere in termini funzionali ed ecosistemici. Non è più tempo di immaginare soluzioni che comportino un incremento della dispersione a bassa densità dell’edificato sul territorio perché non possiamo più permetterci un’ulteriore alterazione degli equilibri idrogeologici e tantomeno una riduzione delle superfici agricole e naturali. Le ricerche più serie su questo fronte fanno emergere un quadro preoccupante e sono concordi nel denunciare l’insostenibilità ambientale e perfino sociale di questo modello insediativo. Tale ridistribuzione andrebbe dunque eventualmente immaginata e pianificata in un quadro culturale e normativo, chiaro dal punto di vista della sostenibilità ambientale, efficace nella sua azione di progetto e governo, ampiamente condiviso a livello politico e sociale, e di lungo periodo, in grado cioè di mettere noi e le future generazioni al riparo dai pericoli di un ulteriore aggravamento delle attuali fragilità territoriali che caratterizzano molti contesti del Belpaese. Condizione che al momento non sussiste come dimostrano, per fare qualche esempio: l’arenarsi della legge nazionale sul consumo di suolo ferma in Parlamento da anni; la scarsa attenzione al tema nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, che invece contiene la previsione di una miriade di opere infrastrutturali di significativa entità fuori da un quadro pianificatorio d’insieme (Il Sole24ore, 15 giugno 2021); il ricorso da parte del Governo a un approccio emergenziale per riavviare rapidamente i cantieri di quelle opere arenatesi nelle sabbie mobili della burocrazia (Il Sole24ore, 16 giugno 2021).
Dal punto di vista sociale, la ridistribuzione della popolazione sul territorio, unita a una diffusione del lavoro a domicilio, potrebbe rivelarsi vantaggiosa tanto per i singoli individui e le famiglie, che per esempio potrebbero accedere a un mercato della casa più equo di quanto non lo sia attualmente quello urbano e risparmiare il tempo e il denaro speso quotidianamente nei rapporti casa-lavoro, quanto per le imprese, le quali vedrebbero ridursi i costi di produzione in virtù di una contrazione degli spazi necessari per alcune attività lavorative. Ma, anche qui, potrebbe non esserlo se tale processo non fosse accompagnato da una seria riflessione sull’alterazione dei rapporti sociali che, giocoforza, questa condizione comporterebbe, i cui effetti in termini di alienazione e isolamento abbiamo già toccato con mano durante la pandemia. L’indebolimento delle relazioni tra gli individui, e dunque anche quello dei gruppi organizzati (associazioni, movimenti, partiti, sindacati) così come quello con i luoghi collettivi (compresi quelli del lavoro), potrebbe anche rivelarsi limitante per ogni forma di rivendicazione e, più in generale, pericoloso per la democrazia. Le politiche antiurbane del fascismo e le tesi dei suoi più zelanti interpreti nell’affermare la necessità di Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione (V. Civico, «Critica Fascista», maggio 1942, pp. 198-200) così come le spregiudicate pratiche immobiliari della finanza internazionale sono solo alcuni dei moniti che, da questo punto di vista, vengono dal Novecento. Per non dire dei rapporti contrattuali che regolano il mercato del lavoro. Da una recente indagine della Fondazione Claudio Sabattini svolta su un campione di oltre tremila lavoratori in smart working, per esempio, è emerso che «il 45,6 per cento degli intervistati non può negoziare individualmente gli obiettivi di lavoro e per il 53 per cento è impossibile mettere in discussione i carichi di attività. Per un altro 52 per cento le scadenze sono diventate più rigide e strette e quasi la metà dichiara di sostenere un ritmo eccessivo. […] Il 50 per cento sostiene di non effettuare pause di alcun tipo e per oltre il 78 per cento la giornata lavorativa si è allungata. Infine, nel 93 per cento dei casi il surplus di attività non viene retribuito» (G. Riva, in «L’Espresso» n. 26/2021, pp. 40-45).
In altri termini, qualsiasi ipotesi di ridistribuzione della popolazione sul territorio non può essere l’esito meccanico e acritico di un problema sanitario, quello di un’opportunità tecnologica o di una mera convenienza economica. È questione che va considerata in termini più generali e attentamente ponderata da molti punti di vista, se non si vuole correre il rischio che gli svantaggi individuali e collettivi prevalgano sui vantaggi. Soprattutto, non può essere abbandonata a sé stessa. In una società civile, non è cioè possibile immaginare che possa avvenire al di fuori di politiche manifeste e senza essere incanalate in una qualche forma di azione pubblica – compresa quella della pianificazione urbanistica – di cui siano chiari e condivisi gli obiettivi finali a cui si vuole tendere.
Nuovi problemi, vecchie questioni
Sembrava che il secolo breve fosse definitivamente alle spalle. Addentrandosi nel nuovo millennio, lustro dopo lustro, pareva che i temi e le questioni con cui si era misurata l’urbanistica moderna soprattutto nel Novecento – la ricerca di un nuovo equilibrio insediativo tra città e campagna; l’organizzazione del territorio urbano e rurale attraverso il ripensamento della distribuzione delle funzioni e la massiccia previsione di servizi collettivi e infrastrutture per la mobilità; la questione della casa (della produzione di case e dell’accesso alla casa) e quella dell’architettura dei luoghi; il rapporto con le preesistenze storico-paesaggistiche e il tema degli strumenti normativi e progettuali per governare tutto ciò – andassero via via sbiadendo per lasciare il posto a riflessioni e proposte di tutt’altra natura, ad approcci al progetto urbano e territoriale che in qualche modo segnassero una svolta rispetto a quelli praticati nel secolo scorso di cui da più parti si segnalavano limiti e fallimenti. Per molti versi, in effetti, è proprio così. Come peraltro emerge piuttosto chiaramente da molta letteratura degli ultimi anni sull’urbanistica e la condizione urbana e territoriale contemporanea e come lascia trasparire persino il suo lessico. La pandemia, però, ha forse incrinato questa lettura della realtà contribuendo a riportare a galla alcuni elementi caratteristici del dibattito novecentesco che, come brace che arde sotto la cenere, in realtà erano rimasti irrisolti.
Le ipotesi di ridistribuzione della popolazione grazie a un uso estensivo del lavoro a distanza circolate in tempi di pandemia, per esempio, hanno riportato all’attenzione – o dovrebbero farlo – la necessità di perseguire la ricerca di un nuovo equilibrio insediativo: una questione tutt’altro che superata indipendentemente dalla situazione contingente, come dimostrano i disastrosi effetti della dispersione dell’edificato sul territorio avvenuta soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso o quelli dell’abbandono delle aree interne che invece ha radici negli anni del boom economico e la cui soluzione appare ancora lontana. Hanno riportato all’attenzione – o dovrebbero farlo – la necessità di riflettere sull’organizzazione funzionale del territorio urbano e rurale la cui inefficienza – indipendentemente e anche prima della pandemia – continua a comportare in molti contesti un enorme spreco di tempo e di energia spesi nello spostamento di uomini e merci con impatti non secondari sulla qualità della vita e sui bilanci economici individuali e sociali. Hanno riportato all’attenzione – o dovrebbero farlo – la necessità di affrontare la questione della casa (che continua a essere di difficile accesso per ampie fasce di popolazione. Per non parlare del rapporto con le preesistenze, non tanto o non solo dal punto di vista storico-paesaggistico quanto, per esempio, da quello del riuso o del riciclo di un’enorme quantità di edifici produttivi già oggi abbandonati per effetto della delocalizzazione produttiva a cui, se alcune delle prassi sperimentate in tempo di pandemia dovessero stabilizzarsi, potrebbero aggiungersi ulteriori stock di immobili terziari, peraltro già in esubero rispetto al fabbisogno anche prima che il Covid-19 modificasse il nostro modo di lavorare. Analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per le case, quelle in cui viviamo. «La difesa dal contagio e la coesistenza forzata e quotidiana nel medesimo ambiente – osserva, per esempio, Imma Forino – hanno sovente messo alla prova le persone e, più che progettare un innovativo modello abitativo per il futuro, si dovrà pensare a come intervenire nel patrimonio edilizio esistente e come riadattare luoghi precostituiti» (in: M. Bassanelli, a cura di, Covid-Home, LetteraVentidue, 2020, pp. 14-15). Infine, quelle stesse ipotesi comportano – o almeno dovrebbero comportare – una seria riflessione sul tema degli strumenti normativi e progettuali per governare tutto ciò. Questo a condizione che non si preferisca continuare a lasciare sostanzialmente nelle mani dell’iniziativa privata – e spesso della mera speculazione – quanto riguarda le trasformazioni della città e del territorio – ovvero, in altri termini, il futuro dell’ambiente in cui viviamo – come spesso si è fatto nelle ultime decadi del secolo scorso anche per effetto di un progressivo indebolimento delle leggi e degli strumenti urbanistici codificati nel secondo dopoguerra. E questo a condizione che la nostra società abbia la capacità, l’interesse, la volontà di pianificare razionalmente un qualche tipo di futuro, come le prospettive ambientali che ci attendono effettivamente richiederebbero.
In altre parole, alcuni dei temi e delle questioni relative alla città e al territorio emersi durante la pandemia sono indubbiamente qualcosa di nuovo, qualcosa che pone nuovi problemi ed esige nuove risposte. Altri lo sono solo per certi versi. Altri ancora, invece, sono semplicemente qualcosa di irrisolto che è stato procrastinato nel tempo, per di più aggravandosi parallelamente al complicarsi della realtà in cui viviamo. Qualcosa che la nostra società – e con essa la classe politica che dovrebbe governarla o codificare strumenti democratici di autogoverno così come i saperi scientifici o culturali che dovrebbero orientarne o meglio informarne le scelte – aveva incautamente rimosso dalla sua agenda spostando l’attenzione altrove. Qualcosa con cui, comunque, pandemia o meno, bisognerà finalmente e seriamente misurarsi nell’immaginare un qualsiasi futuro dei contesti in cui viviamo. Questo, evidentemente, senza prescindere da altre non meno significative questioni tipiche della contemporaneità, in primis quella ambientale.
Per concludere
La pandemia da Covid-19 – in particolare: la forzata limitazione delle libertà personali di molti cittadini costretti, al fine di contenere i contagi e soprattutto nelle prime fasi di diffusione del virus, a vivere, lavorare e studiare in spazi domestici il più delle volte rivelatisi inadeguati; l’abbandono delle attività sociali e degli spazi pubblici urbani per la stessa ragione; il pervasivo ricorso alle tecnologie informatiche anche per mantenere in vita le relazioni sociali; l’eventualità che tale situazione si possa protrarre nel tempo – ha favorito un ampio dibattito sul futuro della città e del territorio, sui modi con cui potrebbero/dovrebbero essere riprogettati e trasformati. Le proposte avanzate su questo specifico fronte, pur fondate su un’esigenza reale, non sempre appaiono giustificabili sul lungo periodo perché non è ancora chiaro in che misura la pandemia ci costringerà a un cambio radicale dei nostri stili di vita, in particolare dei nostri modi di lavorare e studiare, e dunque dei rapporti casa-lavoro che tanta parte hanno nell’organizzazione urbana e territoriale. Tuttavia, tali proposte, pur con questi e altri limiti, hanno avuto il merito di riportare al centro della discussione pubblica la costruzione collettiva di un’idea di futuro dei contesti che abitiamo. Un proposito che la nostra società per molti versi sembrava incapace di perseguire e che forse questa terribile vicenda può contribuire a catalizzare. Dunque, più che assumere tali proposte acriticamente e sull’onda delle emozioni, a questo punto si tratta di sfruttarne la spinta propositiva e di coglierne il portato ideale per inquadrarle in una riflessione più ampia e approfondita, polifonica, trasversale – che peraltro alcuni, da differenti prospettive culturali, hanno già cominciato a imbastire – volta non tanto alla soluzione del problema contingente quanto a elaborare un pensiero di ampio respiro sul futuro della società e di quella che Edoardo Salzano considerava «la casa di una comunità» (E. Salzano, La città bene comune, Ogni uomo è tutti gli uomini, 2009, p. 8), ovvero la città e – aggiungiamo noi – il territorio. Ciò che va evitato è che tali trasformazioni, che potenzialmente potrebbero rivelarsi epocali, avvengano senza una guida consapevole e, al tempo stesso, un indirizzo condiviso socialmente. Che siano cioè lasciate nelle mani di un potere politico ed economico-finanziario disinteressato al bene comune. Immaginare la narrazione di un discorso più ampio che faccia della costruzione di un habitat urbano e territoriale adatto tanto alla vita dell’uomo in tutte le sue componenti (biologiche, sociali, economiche, culturali, estetiche) quanto a quella delle altre specie viventi – e dunque, più in generale, non lesivo degli ecosistemi – è il compito che giocoforza ci aspetta.