Umberto Galimberti rispondendo ad un lettore (Che senso ha parlare di resilienza) su D del 23 gennaio 2021, si chiede se sia “davvero possibile applicare all’uomo un concetto tratto dalla capacità di un materiale di resistere agli urti”.
Il lettore (Paola) aveva chiesto a Galimberti cosa ne pensasse “dell’utilizzo ormai dissennato della parola resilienza in tutti gli ambiti scientifici e non, come se fosse la panacea di tutti i mali della società contemporanea”. Aggiungendo che l’uso di questa parola le provoca profonda tristezza non sentendosi “assolutamente resiliente alle prove della vita”.
Questa lettera e la risposta del filosofo e giornalista di Repubblica, prima di scendere nel dettaglio dei suoi contenuti, induce a una riflessione sull’uso delle parole spesso pigro, asettico e ripetitivo. Personalmente considero da condannare questo abuso del quale mi sembra particolarmente emblematico l’aggettivo “sostenibile”.
Quindi concordo con Galimberti e la lettrice dalla cui lettera prende spunto.
Ma resilienza è un'altra cosa e, indipendentemente dall’uso e abuso che eventualmente se ne fa, non appartiene a questo mondo. Al contrario l’altro esempio al quale mi riferivo, sostenibile, è un aggettivo che, diversamente interpretabile e senza senso interpretato, ha origini lontane nella lingua italiana, ma diventate “contemporanee” dal 1987 con la definizione di “sviluppo sostenibile” della commissione Brundtland. Da allora sostenibile (molto meglio utilizzato dai francesi col termine durevole) lo si accomuna a tutte le cose, le azioni, le politiche eccetera che si vogliono far passare per buone.
Non così resilienza. Che non è, come mi sembra l’intenda Galimberti, la capacità di resistere ad un urto senza spezzarsi, bensì, credo più appropriatamente, la capacità di riprendere la condizione precedente l’urto. Che è sì la capacità di resistere all’urto, ma è soprattutto la capacità di riprendersi dopo l’urto, dopo averlo subito. Questo è il caso dell’urto subito da un essere umano: singolo o di gruppo.
In questo senso la resilienza è un modo di immaginare se, dopo un “urto”, nel futuro, vi potrà essere una ripresa economica, sociale, psichica tale da consentire un ritorno allo stato originario di esseri umani e del loro ambiente di vita.
Oggi la società planetaria si confronta con due gravi pandemie.
La pandemia da Covid-19, proiettandone nel futuro le conseguenze, consentirà una ripresa dello stato originario pre-virus? Come? Per chi? In quanto tempo?
La pandemia del mutamento climatico sempre in proiezioni futura consentirà una ripresa dello stato originario pre-virus? Come? Per chi? In quanto tempo?
Il futuro, dunque.
Futuro è anche una forma verbale che indica situazioni ed eventi presenti e futuri dei quali, peraltro, può non esservi certezza. Del doman non v’è certezza ci diceva già Lorenzo de’ Medici nella sua Canzona di Bacco.
Ma questo è quello che nella grammatica italiana si definisce come futuro semplice. Semplice perché, sempre nella nostra grammatica, c’è anche una almeno apparente contraddizione in termini che è il futuro anteriore.
Nel primo caso, nella prima forma verbale, potremmo dire: “Questa pandemia finirà”; nel secondo: “Fra un anno di questi tempi la pandemia sarà già finita”. Se all’una e all’altra frase aggiungiamo un punto interrogativo ci allineiamo perfettamente con il Magnifico: siamo nel regno dell’incertezza.
Perché la storia delle pandemie ci dice che anche questa finirà, tuttavia certus an incertus quando.
E poi? Una volta finita come sarà? Tutto sarà come prima? Si conteranno i malati sopravvissuti, e i morti; si farà la conta dei settori economici che la pandemia ha costretto a chiudere o a ridurre le attività e dei lavoratori che avranno perso il posto di lavoro e, come si dice, si volterà pagina?
Ma voltata così la pagina, cioè gettando alle spalle il passato e guardando al domani, resta forte il rischio di restare sguarniti e vulnerabili, comunque impreparati, al riproporsi di questa e/o altre pandemie.
Per evitare che questo accada sarà necessario cercare, conoscere e approfondire le cause di questa epidemia e il come e il perché si sia diffusa sino a diventare una pandemia.
Ormai se si escludono quanti (pochi, per fortuna) negano che la Terra sia sferica, che il clima sta mutando per cause sempre più umane, che Trump ha perso l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti; se si escludono questi negazionisti da strapazzo non v’è chi non abbia capito che questa pandemia sia il prezzo che l’umanità paga al maltrattamento della natura in tutte le sue componenti. E, di conseguenza non sappia come si debba intervenire per prevenire guai successivi dopo avere riparato questi. Ma che cosa passa tra il dire e il fare? Molto, poco o, molto meglio, nulla a seconda di a chi tocca il fare.
Abbiamo visto quanto danno abbia fatto il quadriennio del capo-negazionista Donald Trump all’itinerario fissato a Parigi nel dicembre 2015 per tentare di rallentare e contenere entro limiti meno inaccettabili l’aumento delle temperature terrestri.
Ma in questo come nel caso dell’uscita dalla pandemia in corso, sarà molto difficile guardare al futuro ragionando in termini di resilienza.
Possiamo certamente farlo nel senso che ritorniamo alla vita, al lavoro, allo studio, alla ricerca, agli esercizi fisico-sportivi, agli svaghi. Ma se intendessimo ritornarvi con i comportamenti e le abitudini di prima, come se niente fosse stato e niente ci avesse insegnato, sarebbe colpevole. Perché spianerebbe la strada ad altre pandemie le quali avendo, loro sì, fatto tesoro della nostra fragilità e della crescente vulnerabilità dell’ambiente nel quale viviamo, sapranno come occuparne gli spazi.
Realisticamente possiamo prevedere che niente o poco sarà come prima. Nel caso della pandemia da covid-19 niente deve essere come prima; nel caso del mutamento climatico, anche facendo tesoro del “niente” del primo, molto si sarà costretti a cambiare nel quotidiano delle generazioni future.
Vale a dire che il futuro che non è domani, ma di tempi medi e lunghi, va costruito anno per anno. Senza perdere di vista la comunanza delle azioni per giungere al comune risultato di realizzare le migliori condizioni di vita per una popolazione che verosimilmente si sarà attestata su circa 10 miliardi di persone.
E che dovrà adattarsi a vivere in un pianeta, la Terra, modificato in molti degli aspetti che ne avevano caratterizzato, nel bene e nel male, la storia degli ultimi duecento anni. Non sarà un problema, ma solo un diverso modo di vivere.
Non sarà facile. Comunque, non lo sarà per tutti e non allo stesso modo. Anche per questo sarebbe bene e utile che gli amministratori del bene comune Terra, indipendentemente dalla fede, censo, etnia e altre eventuali diversità dessero più di una scorsa alle due encicliche di Papa Francesco: “Laudato si’ – Sulla cura della casa comune” e “Fratelli tutti – Sulla fraternità e l’amicizia sociale”.
Soffermandosi in particolare sul valore dei due “sottotitoli” (Sulla cura della casa comune e Sulla fraternità e l’amicizia sociale) che mi sembrano il filo conduttore delle azioni da realizzare e del perché realizzarle. Il come spetta a chi governerà la Terra, ma non meno a chi ne sarà governato.