SCIENZA E RICERCA

Perché (e come) il coronavirus può aiutarci a raggiungere una “health information for all”

Durante questi ultimi mesi, in molti si sono chiesti se il coronavirus - oltre ad essere la causa di una immane catastrofe umana, sanitaria ed economica - possa insegnarci qualcosa di nuovo e di utile per costruire una società migliore, più solidale e rispettosa dell’ambiente. Con  Marco Capocasa e Paolo Anagnostou, ci siamo concentrati su  un aspetto legato alla pandemia che può avere un significato importante e positivo, ma che è rimasto finora nell’ombra, arrivando a una conclusione molto incoraggiante: il coronavirus responsabile del Covid-19 può rappresentare un punto di svolta verso una disponibilità completa, veloce e senza barriere economiche delle nuove conoscenze mediche, quella che in ambito anglosassone viene definita “health information for all”.

Analizzando la letteratura scientifica prodotta nei sei mesi che hanno seguito l’esordio della pandemia, abbiamo osservato che il numero dei lavori pubblicati sul coronavirus (quasi 14.000) è quasi dieci volte superiore alla somma di quelli sulle più recenti epidemie virali, quali la SARS, l’influenza aviaria, la sindrome respiratoria medio-orientale e  l’influenza suina. È un dato che dimostra, innanzitutto, l’enorme capacità di risposta della comunità scientifica all’emergenza coronavirus. Ma c’è qualcosa di  ancora più interessante: quasi il 90% delle ricerche sul coronavirus è stato pubblicato in accesso aperto e immediato, anche sulle riviste più prestigiose come Nature e Science. Visto che l’infettività, la patogenesi e il decorso clinico della malattia non sono ancora del tutto comprese, la disponibilità di nuove conoscenze può essere decisiva per migliorare sia gli approcci preventivi che quelli terapeutici. 

Che si tratti un enorme passo in avanti lo dimostra il fatto che solo per tre delle dieci malattie responsabili del maggior numero di morti al mondo - un elenco che vede ai primi posti le malattie cardiovascolari, i tumori e le patologie respiratorie croniche - la percentuale dei lavori condivisi supera (di poco) il 50%. Insomma, mai come prima comunità scientifica, publisher, centri di ricerca ed enti di finanziamento sembrano aver compreso l’importanza di una condivisione piena e rapida delle nuove conoscenze. Ma il ragionamento si può spingere anche oltre. Anche se il bilancio è destinato a cambiare e sicuramente non  in meglio, c’è un dato che non deve essere ignorato: i morti da  coronavirus nei primi sei mesi di pandemia sono stati sedici volte inferiori rispetto a quelli per le malattie cardiovascolari e nove volte rispetto a quelle causate dai tumori. Numeri che, inevitabilmente, aprono una domanda: è possibile fare in modo che la straordinaria condivisione degli studi sul coronavirus possa estendersi ad altre patologie di grande impatto sulla salute pubblica? Creare i presupposti per  una maggiore disponibilità di risultati scientifici avrebbe non solo un impatto importante sulla ricerca scientifica e la pratica clinica, ma anche un forte significato etico. Infatti, ad avvantaggiarsi sarebbero soprattutto le nazioni che dispongono di minori risorse per la ricerca e per le cure, ma che in molti casi soffrono delle conseguenze più gravi del coronavirus, così come di molte altre patologie.

A indicare una strada sono proprio i dati prodotti dal nostro studio, riassunti nella figura che riporta le percentuali di accesso aperto alle pubblicazioni sul coronavirus  e sulle dieci patologie con la più alta mortalità a livello globale. 

I dati salienti sono:

  1. Il 90% dei lavori sul coronavirus è in accesso aperto alla versione finale  pubblicata sulla rivista mentre, complessivamente, la percentuale per le dieci patologie è solo del 49% (segmenti blu).
  2. Se i ricercatori condividessero, pur senza contravvenire alle regole dei publisher, i loro lavori accettati (e peer-reviewed), ma non ancora con impaginati secondo il layout finale della rivista (post-print), la percentuale di accesso aperto delle pubblicazioni sulle dieci patologie potrebbe salire fino al 78% (segmenti verdi). La realtà fotografata dal nostro studio  è, invece, che solo una minima parte (meno dell’1%) dei post-print è effettivamente disponibile online (segmenti azzurri).
  3. Per fare un ulteriore passo in avanti,  ricercatori, istituzioni e associazioni dovrebbero unire le forze e muoversi congiuntamente, facendo pressione sui publisher in modo che questi eliminino le restrizioni all’accesso aperto dei post-print (segmenti arancioni). Avendo questi ultimi profitti tanto elevati da superare perfino quelli di Google e Apple, si dovrebbe riuscire a ottenere un ampio margine di trattativa. Congiuntamente e a pieno regime,  “strategia verde” e “strategia arancione” porterebbero a una percentuale di accesso aperto delle pubblicazioni sulle dieci patologie del 99% 
  4. Rimarrebbe esclusa solamente una minima parte (1%) dei lavori (segmenti grigi), per i quali i publishernon contemplano al momento la possibilità di condividere i post-print

Insomma, l’obiettivo è ambizioso ma, in una misura significativa, raggiungibile anche solamente con una maggiore attenzione da parte dei ricercatori alle possibilità che già esistono. Ma, affinché si possa realizzare un qualsiasi passo in avanti, è indispensabile che tutti gli addetti ai lavori acquisiscano una maggiore consapevolezza di quanto sia decisiva la disponibilità rapida e incondizionata delle nuove conoscenze in campo medico, e non solo. Un passaggio non semplice e già molte volte invocato senza particolare successo, ma per il quale oggi abbiamo un’arma in più: il coronavirus, con la rivoluzione che ha provocato nell’editoria scientifica oltreché (drammaticamente) nel mondo reale, dimostra che un vero cambiamento per la condivisione dei saperi è possibile. Non perdiamo questa occasione.

Giovanni Destro Bisol, Marco Capocasa e Paolo Anagnostou

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