SOCIETÀ

Il percorso ad ostacoli del professionismo sportivo. Per le donne ancora di più

Dedicano la propria vita allo sport, arrivando anche a gareggiare nelle più importanti competizioni internazionali. Sono atlete che si allenano intensamente tutti i giorni, conquistano trofei e medaglie rappresentando l’Italia in diverse discipline, individuali e di squadra, ma non hanno accesso al professionismo e a tutte le tutele che questo assicurerebbe. Inquadrate come dilettanti, sono costrette ad accettare contratti dove non c’è traccia di garanzie assicurative e contributive. E la maternità diventa, per le società in cui sono tesserate, una condizione che porta all’immediata rescissione degli accordi. Un evento inquadrabile come un danno.

La vicenda della pallavolista Lara Lugli, che ha denunciato pubblicamente i problemi legali con la dirigenza della squadra in cui giocava, sorti dopo l’annuncio della sua gravidanza, ha scoperchiato un fenomeno purtroppo molto diffuso, spesso tenuto nascosto dalle atlete per paura e per l’amara introiezione del messaggio che “tanto funziona così”.

Ingiustizie che hanno radici in una legge che ha compiuto ormai 40 anni, la 91/1981, che delega alle singole federazioni la scelta di aderire o meno al professionismo. Un meccanismo che riguarda anche gli uomini, a parte le quattro rare eccezioni rappresentate dal calcio (fino alla Lega Pro), del basket (solo il campionato di A1), dal ciclismo e dal golf, ma che nel caso delle atlete amplia la sua portata discriminatoria, arrivando a mettere in discussione il diritto alla maternità. 

Disuguaglianze e diversità di trattamento che ritroviamo anche in ambito extrasportivo, come ha ricordato la ministra per le Pari Opportunità, Elena Bonetti, definendo quella di Lara Lugli "un'esperienza drammatica che nessuna donna deve più vivere nel nostro Paese". Per le atlete, ma non solo, la maternità diventa invece spesso un bivio definitivo, oltre il quale la permanenza nel mondo del lavoro, come nella carriera agonistica, trova le porte sbarrate. Senza considerare che, anche ad alti livelli, sono ben poche le sportive che possono contare su ingaggi elevati, soprattutto in discipline dove non circolano molti soldi e dove la presenza di sponsor è limitata. I contratti sono sostituiti da scritture private, con esplicite clausole anti maternità, e i compensi prendono la forma di rimborsi spesa da cui è esclusa ogni forma di tutela.

Forse ricorderete anche la storia di Carli Ellen Lloyd, pallavolista americana che nel 2016 ha guidato Casalmaggiore alla vittoria della Champions League femminile e che quattro anni dopo, alla vigilia di un nuovo campionato, ha scoperto di aspettare un bambino e ha deciso di tornare negli Stati Uniti. Bersagliata da alcuni messaggi d’odio sui social, da parte di "tifosi" che non avevano gradito che fosse rimasta incinta e, soprattutto, con in tasca un contratto di collaborazione di tipo dilettantistico ha scelto di non continuare ad allenarsi durante i primi mesi di gravidanza. Ha preferito non correre rischi, a fronte di un contratto che non proteggeva il suo futuro. “Non siamo atlete professioniste e quindi il mio contratto in questo caso diventa carta straccia”, aveva spiegato in conferenza stampa, pur ringraziando la società per il sostegno.

La storia di Lara Lugli, arrivata anche sulle pagine dei più importanti quotidiani internazionali, è però ancora più amara. Dopo aver chiesto alla sua ex società di B1, di cui era anche la capitana, il pagamento dell’ultima mensilità, relativa al periodo in cui aveva continuato ad allenarsi e giocare regolarmente, si è vista recapitare dalla stessa società un atto di citazione per danni, in opposizione al decreto ingiuntivo con cui l’atleta cercava di ottenere il suo compenso. “Anche se non sono una giocatrice di fama mondiale, questo non può essere un precedente per le atlete future che si troveranno in questa situazione, perché una donna se rimane incinta non può conferire un danno a nessuno e non deve risarcire nessuno per questo”, ha scritto Lugli su Facebook. 

Qualcosa per fortuna si sta muovendo. Sia sul piano legislativo, sia nella presa di coscienza del mondo sportivo. Anche di quello maschile. E lo si deve soprattutto all’impegno dell’Associazione nazionale atlete (Assist), nata nel 2000 per tutelare e rappresentare i diritti collettivi delle atlete di tutte le discipline sportive operanti a livello agonistico e attuare un’opera di sensibilizzazione sulla parità di diritti nello sport. Nei giorni scorsi Assist ha lanciato la campagna #IOLOSO per i diritti delle atlete e la tutela della maternità: durante le finali di Coppa Italia di serie A2 le pallavoliste sono scese in campo con un pallone sotto la maglia a rappresentare il pancione e lo stesso hanno fatto i colleghi delle squadre maschili. Anche sui social fioccano le adesioni, con una grande partecipazione da parte degli uomini. 

La speranza che qualcosa possa davvero cambiare è dovuta anche al fatto che proprio in questi giorni sono stati pubblicati in Gazzetta ufficiale cinque decreti legislativi che contengono molte novità, anche in tema di professionismo sportivo. Entreranno in vigore il prossimo 2 aprile e hanno preso forma nell'ambito della riforma dello sport, portata avanti da Vincenzo Spadafora quando era ministro nel precedente governo Conte. Il testo ha aperto la strada al cambiamento ma si scontra con forti resistenze da parte di diverse federazioni, ancor di più in ambito femminile. E i termini per l'attuazione della parte più delicata della riforma, quella che riguarda appunto il riconoscimento del professionismo e che è contenuta nel Decreto legislativo n.36 del 28 febbraio 2021 slittano all'1 luglio 2022 (come specificato dall'articolo 51 dello stesso decreto).

Alla base di quanto accaduto in questi anni c'è il fatto che la legge del 1981 ha demandato alle singole federazioni la decisione di aderire o meno al professionismo, impedendo così che sia la natura della prestazione a definire l'attività, inquadrandola come professionistica o amatoriale, e arrivando al paradosso che un'atleta olimpica possa avere lo status di dilettante. Una situazione che, nelle discipline individuali, ha portato tantissimi atleti e atlete a rivolgersi all'unica forma di tutela esistente: l'ingresso nei gruppi sportivi militari. 

Abbiamo parlato di questo tema con Luisa Rizzitelli, presidente dell'Associazione nazionale atlete (Assist), di cui è stata anche tra le fondatrici. Dopo aver lasciato la pallavolo, sport praticato a livello agonistico militando in società di A2 e B1, è diventata giornalista ed esperta di politiche di genere. Da sempre attivista per i diritti delle donne e per la lotta alle discriminazioni, le abbiamo chiesto di ricostruire il quadro normativo che ha reso finora così difficile il riconoscimento del professionismo sportivo femminile e quali passi avanti sono contenuti nei cinque decreti legislativi che danno attuazione alla legge di riforma dello sport.

"Quando sono stata intervista dal New York Times, poco più di una settimana fa, mi hanno richiamato tre volte perché non credevano che potesse essere possibile e legale che un’associazione sportiva scrivesse nero su bianco nella scrittura privata con la propria atleta che se rimane incinta deve andarsene a casa", ha spiegato Luisa Rizzitelli che si è poi soffermata sul successo della campagna #IOLOSO, sottolineando con entusiasmo la partecipazione di molti atleti uomini.

E per finire abbiamo guardato in prospettiva al mese di maggio, quando ci sarà il rinnovo della presidenza del Coni. Per la prima volta in oltre 100 anni di storia tra i candidati c'è una donna ed è Antonella Bellutti, due ori olimpici nel ciclismo su pista ad Atlanta nel 1996 e a Sydney nel 2000. Per capire che la sua elezione sarebbe un passaggio davvero epocale basti pensare al fatto che fino a pochi giorni fa nessuna delle 44 federazioni del Comitato olimpico italiano (e nemmeno delle discipline associate o degli enti di promozione sportiva) era mai stata presieduta da una donna. La prima è Antonella Granata, eletta pochi giorni fa alla guida della Federazione italiana giuoco squash (Figs).

L'intervista completa a Luisa Rizzitelli, presidente dell'Associazione nazionale atlete. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

Per cominciare possiamo ricostruire il quadro normativo che è stato finora in essere e quali sono le conseguenze del mancato riconoscimento del professionismo sportivo?

Nasce tutto nel 1981 quando si decise di legiferare per poter meglio regolamentare i flussi di denaro enormi che il calcio produceva. Questo ha portato all’approvazione di una legge, che oggi chiamiamo legge sul professionismo sportivo, che conteneva molti punti interessanti e anche utili, perché si parlava per la prima volta di vero e proprio lavoro sportivo e si cercava di regolamentare protezioni e tutele. Il problema che però ci siamo portati dietro da tantissimo tempo è che il legislatore ha voluto demandare al Coni e alle federazioni sportive il compito di decidere quali fossero le discipline sportive professionistiche e quindi quali atleti e quali atlete potessero avvalersi di questo strumento di legge. Nell’arco di 40 anni il Coni e le federazioni non hanno mai emanato quella circolare di chiarimento che avrebbe dovuto individuare dei vincoli precisi di utilizzo di questa legge, e le modalità di qualificazione delle discipline sportive professionistiche. Il risultato è oggi, nel 2021, abbiamo solo quattro discipline sportive considerate professionistiche, quindi che utilizzano questa legge, e sono soltanto maschili. Nello sport si consuma la più grave discriminazione che abbiamo in Italia perché una donna, di fatto, non ha diritto di accesso a una legge dello Stato. E questo è di una gravità inaudita.

Quali sono le conseguenze in termini di contratti e mancate tutele?

Se non sei un professionista non puoi fare un vero contratto. Si stipula un accordo finanziario, una scrittura privata, un semplice agreement con la parte datoriale, che tipicamente è un’associazione sportiva dilettantistica, con la quale stabilisci determinati criteri. L’atleta è però privo di qualsiasi tutela e non ha la possibilità di ricevere, per esempio, un trattamento previdenziale, un’adeguata tutela infortunistica, il trattamento di fine rapporto e tutte quelle voci che sono invece normali per chi fa dello sport il proprio lavoro. Sottolineo questo punto perché deve essere chiaro che ci riferiamo esclusivamente a chi pratica sport a livello agonistico e vive di questo, una categoria in cui devono essere inclusi anche istruttori, allenatori, direttori sportivi, team manager. A loro, donne e uomini che fanno questo per lavoro, e in particolare agli atleti e alle atlete, è invece negato questo diritto. E’ una condizione che non va assolutamente bene e che la riforma dello sport, con i cinque decreti approvati in questi giorni, tenta di scardinare come concetto paradigmatico del tutto fallimentare. Qualcosa adesso si sta provando a fare.

Cosa potrà cambiare con l'entrata in vigore dei cinque decreti legislativi con cui viene avviata la riforma dello sport?

Per quanto riguarda la situazione delle atlete non siamo molto ottimisti. Questa legge fa un passo in avanti parlando di nuove figure giuridiche del lavoro che sono applicabili al mondo sportivo, però assegna ancora alle federazioni sportive il compito di qualificare i propri atleti. Al momento solo il calcio riuscirà a fare il passaggio verso il professionismo femminile perché la federazione ha comunicato di voler attingere al fondo previsto dalla legge, con un conseguente sgravio fiscale per le società che ne beneficeranno, e si è aperta a questo cambiamento. Per quanto riguarda tutte le altre federazioni non ci risulta che si siano dette disponibili a farlo e non crediamo che lo faranno. In teoria la legge prevede che non vi possa essere uno sport professionistico maschile e uno femminile. Di conseguenza ci chiediamo cosa faranno pallacanestro, golf e ciclismo su strada, che sono le uniche altre tre discipline che sono ad oggi considerate professionistiche. E purtroppo pensiamo che tutte le altre discipline che non sono professionistiche nè per gli uomini nè per le donne, come la pallamano, il rugby o la pallavolo, solo per citarne alcune, non avranno ancora alcun interesse ad aprile al professionismo e quindi a ritrovarsi un lavoratore che di colpo passerebbe ad essere inquadrato come subordinato con tutti i relativi maggiori costi che questo comporta. A nostro parere, i decreti che sono stati approvati rappresentano un passo ancora troppo timido e bisogna fare dei correttivi importanti che auspichiamo vengano fatti. In caso contrario la riforma si dimostrerà inefficace.

La resistenza di molte federazioni si basa su considerazioni economiche e sul timore che l'aumento dei costi possa incidere negativamente sui bilanci mettendo a rischio la sopravvivenza di alcune società. Cosa si può fare per tenere insieme tutela dei diritti delle atlete e sostenibilità economica?

I diritti basilari delle persone, sanciti dalla Costituzione, non hanno un prezzo e non possono essere messi sul piatto della bilancia della sostenibilità. E’ giusto affrontare questo tema ed è giusto che le associazioni sportive dilettantistiche vengano aiutate in questo passaggio, come all'interno di Assist abbiamo sempre sostenuto. Ma io mi rifiuto di sentire dire che a mandare le associazioni sportive in fallimento siano quei lavoratori e quelle lavoratrici che chiedono dei diritti elementari. Concordiamo sul fatto che si debba trovare una strada per fare in modo che questo passaggio sia possibile ma riteniamo vergognoso, come ha sostenuto anche l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini - presentando insieme a 40 deputate un’interpellanza urgente nella quale chiedevano conto del caso di Lara Lugli - che sul piatto della bilancia ci siano i diritti, perché in alternativa si pensa che tutto il sistema fallisca. Il mondo della politica e la politica sportiva, che con questo alibi ha sempre fatto spallucce su questo tema, devono sedersi velocemente a un tavolo e trovare immediatamente una soluzione perché se ne scrivono il New York Times, il Guardian, El Pais e in tutto il mondo facciamo una figuraccia del genere vuol dire che è arrivato il momento di arrivare a una svolta.

Sull'onda di quanto accaduto alla pallavolista Lara Lugli e per denunciare una situazione purtroppo molto comune nel mondo sportivo avete lanciato la campagna #IOLOSO: come sta andando?

Questa campagna si chiama #IOLOSO perché gli atleti e le atlete di qualsiasi disciplina sanno che nel mondo sportivo se sei incinta ti stracciano il contratto e vai a casa e tutto questo è considerato normale. Non è solo un tema di lavoro sportivo, ma di diritti elementari di lavoratori e lavoratrici e riguarda una platea di migliaia di persone. Abbiamo ricevuto la solidarietà di personaggi straordinari come Ivan Zaytsev e i ragazzi della pallavolo maschile si sono messi il pallone sotto la maglia in occasione di alcune partite. Ha aderito alla campagna anche il Rimini calcio e i tantissimi atleti e atlete che si sono uniti a noi dicono che questa situazione è assolutamente inaccettabile. Quando ci sono gli uomini che si mettono al nostro fianco in queste battaglie sono particolarmente contenta e penso che loro siano un’arma formidabile. Il fatto che gli uomini ci mettano la faccia, anche nella campagna contro la violenza maschile sulle donne, è un passaggio straordinario per la potenza che assume e per fare capire che non parliamo di temi di donne ma di questioni che coinvolgono l’intera società e un senso di giustizia che deve appartenere a tutti. In questa campagna stiamo ricevendo tantissime foto di campionesse e di campioni straordinari è questo ci fa veramente molto piacere.

A proposito di tutela della maternità nel mondo dello sport agonistico da qualche anno esiste un apposito Fondo che sostiene le atlete che sono in attesa di avere un figlio. Cosa prevede questa misura?

Il Fondo a tutela della maternità delle atlete lo abbiamo fortemente voluto e siamo riusciti ad ottenerlo nel 2018. E’ un fondo che consente di ricevere mille euro al mese per dieci mesi e possono richiederlo le atlete che possono dimostrare di vivere di sport. Non risolve il problema ma è un aiuto importante ed è stato confermato. E’ quindi tuttora esistente e fa capo al dipartimento per lo Sport: lo Stato ha messo a disposizione questo denaro perché evidentemente capisce, e questo è stato un passaggio importantissimo dal punto di vista simbolico, che non stiamo parlando di diletto o di un’attività amatoriale ma di lavoro.

A maggio ci saranno le elezioni per la presidenza del Coni e per la prima volta nella storia c'è la candidatura di una donna, il doppio oro olimpico Antonella Bellutti. A suo avviso un'eventuale vittoria di Antonella Bellutti cosa potrebbe portare all'interno del Coni?

La candidatura di Antonella Bellutti, un doppio oro olimpico, Commendatrice della Repubblica, una donna straordinaria per cultura e spessore, è una grande novità nello sport italiano non solo perché in 107 anni di storia è la prima donna ma perché sta portando dei temi con una potenza e una determinazione davvero eccezionali. A mio parere sta anche invertendo alcuni paradigmi che erano cristallizzati nella gestione dello sport italiano: non soltanto parità di genere ma anche un grande sforzo in termini di trasparenza e condivisione dei contenuti nelle scelte del Coni e delle federazioni sportive quando affrontano tematiche come la promozione dello sport o lo sport d’élite. Sta parlando di sostenere le associazioni sportive dilettantistiche ma anche di inquadrare il lavoro sportivo e sta proiettando lo sport italiano in una gestione moderna, cosa che a mio avviso ci serve davvero. Sono convinta che tutti i dirigenti italiani siano in estrema buona fede e godono della mia stima, però, e mi dispiace dirlo, siamo in una situazione in cui lo sport italiano è governato dai white old boys. Sono uomini che hanno spesso oltre sessanta anni, sono in carica da tantissimo tempo e sono espressione di una certa cultura del fare sport che onestamente è ormai superata da tanti punti di vista. Antonella Bellutti porta partecipazione da parte della base, entusiasmo, l’esperienza di un’atleta che è stata anche in giunta e quindi non è vero che è inesperta come qualcuno si diverte a dire. E soprattutto porta un nuovo modo di vedere lo sport con un valore sociale importante e andando a cancellare nei fatti tutte quelle logiche di potere, di favori e di scambi di cui il mondo sportivo è pieno. La sua elezione sarebbe una grandissima novità per lo sport italiano, un’immagine straordinaria per lo sport azzurro sia in Italia che all’estero. Ricordo che ci sono 74 grandi elettori di cui solo 8 sono donne e già solo questo la dice lunga. Tra questi elettori ci sono i presidenti delle federazioni e, come lei ha ricordato, sono tutti uomini ad eccezione di Antonella Granata, la neoeletta presidente della Federazione italiana gioco squash. E’ un’impresa veramente difficile però non penso che sia impossibile e sono certa che Antonella Bellutti sta già proponendo dei temi fondamentali su cui i candidati - al momento ce n’è uno (il presidente in carica Giovanni Malagò n.d.r.) ma si dice che se ne aggiungerà un altro a breve - non potranno esimersi dal confrontarsi.

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