SCIENZA E RICERCA

Peste suina: che cosa è, come contenerla e che ruolo hanno i cinghiali

E' cominciata nel pomeriggio di lunedì 7 febbraio la missione di Euvet (EU Veterinary Emergency Team) sulla peste suina africana. Gli esperti del team della Commissione Europea, specializzato nel supporto in situazioni di emergenza veterinarie, forniranno assistenza scientifica, tecnica, gestionale e pratica con l'obiettivo di perfezionare le misure di controllo ed eradicazione più adatte per fronteggiare il virus che spaventa gli allevamenti suinicoli italiani. 

Dopo aver duramente colpito la Sardegna, dove nonostante il netto miglioramento della situazione epidemiologica rimangono stringenti le limitazioni alle esportazioni di qualsiasi prodotto, fresco o lavorato, a base di carne di maiale, la pesta suina africana ha fatto adesso la sua comparsa tra Liguria e Piemonte e l'allerta è massima anche perché tra le regioni confinanti figurano territori, come l'Emilia-Romagna e la Lombardia, nei quali la suinicoltura riveste una notevole importanza economica. 

La fase emergenziale è scattata all'inizio di gennaio dopo il ritrovamento di alcune carcasse di cinghiali risultate positive alla PSA (fino a questo momento sono una trentina, ma la situazione è in evoluzione) e il timore adesso è che la malattia possa diffondersi anche tra i maiali, soprattutto quelli allevati allo stato semibrado che entrano più facilmente a contatto con i cinghiali, e che finisca per entrare nella filiera produttiva con enormi ripercussioni per il settore.

Le analisi effettuate hanno permesso di stabilire che il genotipo in circolazione è diverso da quello contro il quale la Sardegna lotta ormai dal 1978 e mostra invece una corrispondenza con la tipologia rilevata in Europa da una quindicina di anni a questa parte, quando ha fatto la sua comparsa in Georgia, probabilmente attraverso trasporti via nave, e si è poi diffusa velocemente nella parte orientale del continente, trovando nei cinghiali un formidabile veicolo di propagazione. Quello apparso in questi giorni tra Liguria e Piemonte è il genotipo II ed è caratterizzato da una maggiore patogenicità per gli animali colpiti. 

Per arginare la diffusione del virus sono state subito introdotte misure restrittive nei 114 comuni identificati come area rossa. Le azioni stabilite prevedono la macellazione e l’abbattimento immediato di tutti i maiali e cinghiali che vivono all’interno di allevamenti bradi o semibradi e il divieto di ripopolamento per 6 mesi, ma anche il divieto di effettuare escursioni nei boschi e qualsiasi attività nella natura che implichi la possibilità di contatto diretto o indiretto con i cinghiali e quindi il rischio di fuoriuscita del virus dall’area interessata. Una delle caratteristiche che rende il virus della PSA particolarmente insidioso è infatti la sua capacità di rimanere vitale nel tempo anche in ambiente esterno: per questo motivo una passeggiata può implicare il contatto con deiezioni di animali infetti e la possibilità di propagare il virus attraverso scarpe o indumenti. Allo stesso modo anche anche lo smaltimento non corretto dei rifiuti alimentari e degli scarti di cucina contaminati può facilitare la diffusione dei contagi tra gli animali.

Con una nota rivolta alle associazioni animaliste e alle Regioni, il ministero della Salute ha in seguito precisato che l'abbattimento preventivo dei suini presenti nell'area infetta e nella zona confinante riguarda solo i capi destinati alla produzione di alimenti per uso umano e quindi non i maiali domestici. In questo modo il ministero ha "tenuto conto che in alcune realtà sporadiche comprovate, i suidi vengono detenuti per finalità diverse dalla produzione zootecnica e alimentare", sebbene il suino non figuri tra le specie di animali da compagnia identificate dal Regolamento UE 2016/429.

La malattia, è bene specificarlo subito, non si trasmette all’uomo e neppure ad altre specie diverse dai suidi ma, come ricorda l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), ha gravi conseguenze socio-economiche nei Paesi in cui è diffusa (nell'Africa sub-sahariana la peste suina africana è endemica) perché porta quasi sempre alla morte gli animali colpiti, è altamente contagiosa e non esistono vaccini nè cure per contrastarla.

Per conoscere più nel dettaglio questo virus, unico rappresentante della famiglia Asfarviridae, dalle origini alla prima fuoriuscita al di fuori del continente africano (dove la malattia era rimasta circoscritta fino alla metà del secolo scorso) e per capire se esiste una legame tra la proliferazione delle popolazioni di cinghiali e la diffusione spaziale del contagio abbiamo intervistato il professor Domenico Fulgione, docente di Zoologia ed evoluzione al dipartimento di Biologia dell'università Federico II di Napoli.

"Le disposizioni che sono state emanate di recente dal Ministero della Salute e da Ispra a proposito del controllo delle attività venatorie e delle esportazioni di carni suine, ma anche della movimentazione di persone e mangimi, sono in linea con le misure che devono essere adottate in questi casi", ha commentato Fulgione ampliando poi lo sguardo alle attività umane che hanno favorito la crescita demografica delle popolazioni di cinghiali e al ruolo positivo che può avere un predatore come il lupo nel limitare la diffusione della malattia.

L'intervista completa al professor Domenico Fulgione sulla peste suina africana, dalle caratteristiche del virus alle strategie di contrasto. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"All'origine della peste suina - introduce il professor Domenico Fulgione - c'è un virus di tipo DNA appartenente alla famiglia degli Asfarviridae. Si tratta quindi di un'infezione virale e non batterica e la denominazione di peste è legata soltanto agli effetti che provoca nei suini contagiati con emorragie interne e bubboni".

Le ricostruzioni effettuate finora hanno permesso di capire che il virus si è probabilmente differenziato nel 1700 dalle zecche molli, le Ornithodoros, nella parte meridionale dell'Africa. Da questo animale è passato poi al facocero, un mammifero della famiglia dei suidi, simile al nostro cinghiale ma tipico della savana africana. "Per molto tempo è rimasto in una forma asintomatica fino a quando non è avvenuto il salto verso i suini domestici. Sotto questo aspetto c’è una particolarità perché alla fine dell'800 in Africa avvenne una grande moria di bovini provocata dalla peste bovina e furono importati dall’Europa suini domesticati proprio per sostituire questi allevamenti bovini che erano calati drasticamente", approfondisce il docente.

"Questi animali entrarono a contatto con quelli autoctoni, come il facocero, che erano infettati da questo virus ma in modo asintomatico e questo passaggio iniziò a provocare effetti devastanti sui capi domesticati, determinando la morte di numerosi individui in pochi giorni e creando quindi grandi problemi soprattutto agli allevamenti allo stato brado, visto che agli inizi del ‘900 non esisteva un tipo di allevamento intensivo".

Diversamente dai facoceri i maiali domestici non erano dunque affatto resistenti alla malattia e grazie al nuovo ospite il virus ha iniziato a diffondersi ampiamente, prima nel continente africano e poi fuori dal suoi confini

"Da questo livello di endemismo il virus è poi passato all’Europa orientale e in particolare in Georgia. Non sappiamo come sia arrivato lì ma l’ipotesi principale è che sia accaduto attraverso dei carichi di mangime o trasporto di derrate alimentari con cui venivano nutriti i suini in queste parti d’Europa. Non è però da escludere la possibilità che il virus si sia spostato attraverso la movimentazione di animali perché noi uomini abbiamo questa caratteristica di voler spostare animali da una parte all’altra del mondo", osserva il professor Fulgione.

I genotipi virali esistenti sono una ventina e quelli che conosciamo bene sono genotipo I e II. Il primo è quello che si è radicato in Sardegna a partire dal 1978 e che ha conosciuto un'ampia diffusione anche nella penisola iberica. "Non è facile individuare come sia arrivato in Sardegna ma fino a pochi anni fa era molto comune movimentare suini per la caccia, oltre a quelli da allevamento. I suini importati dall’Est Europa a scopo venatorio in Italia erano tantissimi ogni anno e anche questo poteva essere un canale di introduzione", spiega il docente di Zoologia ed evoluzione dell'università Federico II di Napoli.

Sebbene siano ormai quattro anni che sull'isola non si registrano focolai la Sardegna continua a subire l'embargo per l'export delle carni suine e dal mondo agricolo si alzano voci che fanno notare l'esistenza di due pesi e due misure nel confronto tra le disposizioni adottate per il territorio sardo e quelle messe in atto nel resto d'Europa, anche dopo la scoperta che il genotipo II nel 2020 era arrivato in Germania.

"Oggi le carni suine della Sardegna non possono essere esportate ad eccezione delle aziende che sono in deroga a queste limitazioni perché rispettano dei disciplinari. La Regione Sardegna ha poi risposto al dilagare delle infezioni in maniera molto decisa abbattendo degli allevamenti allo stato brado, cercando di limitare tantissimo il pascolo suino con recinzioni. A mio avviso non è una soluzione straordinaria perché è vero che è difficile convivere con queste patologie ma è anche vero che pur davanti a quello che è senza dubbio un problema serio per la salute di questi animali, domestici e allevati, si deve trovare una soluzione per tenere in vita una tradizione di allevatori così importante, un pezzo della cultura sarda", commenta al riguardo Domenico Fulgione.

La PSA adesso è però arrivata tra Liguria e Lombardia con un genotipo diverso da quello sardo e probabilmente sempre veicolato dall'Europa orientale. La situazione rischia di essere più insidiosa perché l'area rossa ha una disposizione geografica che rende molto più facile il travalico delle infezioni da una regione all'altra e qualora l'epidemia dovesse entrare negli allevamenti di suini l'Italia rischierebbe di perdere 20 milioni al mese di export. Per ora comunque la situazione negli allevamenti di maiali è sotto controllo anche se il settore sta già scontando qualche divieto d’importazione in alcuni Paesi molto prudenti.

Abbiamo chiesto al professor Fulgione una valutazione sugli interventi stabiliti dal ministero della Salute e sullo spinoso tema degli abbattimenti. "Penso che le disposizioni emanate siano in linea con quello che è necessario fare. Bisogna astenersi da tutti quei comportamenti che possono veicolare il virus: far muovere gli animali o entrare a contatto con essi. Bisogna congelare la situazione sul territorio, facendo in modo che su quel territorio accada il meno possibile". 

"Gli abbattimenti sono problematici non solo per quanto riguarda la sensibilità ambientale. Sono vietati nella zona colpita dal virus perché questo movimenta gli animali e facilita la trasmissione. L’attività venatoria è quindi sospesa. Per quanto riguarda invece gli abbattimenti come vera e propria misura si controllo, sia per l’emergenza cinghiali che sta interessandi varie parti d’Europa, sia limitare delle aree colpite da particolari patologie, secondo me è necessario fare un discorso di tipo conservazionistico mirato alla popolazione. Tutti noi sicuramente non siamo felici di vedere un animale morire ma la biologia della conservazione guarda non all’individuo, ma alla popolazione", osserva il docente dell'università Federico II di Napoli.

"La biodiversità si compone di tante mattonelle fatte da popolazioni diverse geneticamente. Se guardiamo all’individuo entriamo in un discorso molto più complicato: è vero che vedere un cinghiale morire urta la nostra sensibilità però non urta la nostra sensibilità quandi i cinghiali uccidono altre specie, mangiano nel nido le coturnici oppure mangiano le lucertole. Le orde di cinghiali che girano per i parchi nazionali sono dei depressori di biodiversità. Dobbiamo comportarci in maniera tecnica e scientifica e quando è necessario cerchiamo di regolare le popolazioni utilizzando l’abbattimento, la marginalizzazione delle popolazioni, la cattura o lo spostamento. Si tratta di interventi che ricadono nella discliplina della gestione faunistica che guarda alla popolazione".

Quanto al ruolo dei cinghiali nella propagazione della PSA occorrono però alcune precisazioni. E' senza dubbio vero che la presenza del virus nel cinghiale espone ad elevati rischi di contagio i maiali allevati allo stato brado. Sarebbe tuttavia errato (come ha sottolineato anche Ispra) pensare che la causa della comparsa della peste suina africana sia da ricercare nell'alta densità delle popolazioni di questi ungulati. Inoltre, per quanto i cinghiali si spostino di parecchi chilometri non sono certo in grado di percorrere le distanze necessarie per una diffusione così globale.

Alla base della propagazione del virus c'è quindi l'uomo con le sue attività. E questo vale anche quando si riflette sulle cause alla base del sovrappopolamento dei cinghiali."Se oggi viviamo l’emergenza cinghiali è perché l’uomo ha spostato popolazioni, ha ibridato maiali con cinghiali e ha fatto altre cose che hanno portato a questa crescita demografica. Se vogliamo sanare i danni fatti sugli equilibri ecosistemici che noi stessi abbiamo sconvolto dobbiamo agire, gestire le popolazioni naturali guardando alle popolazioni: quindi, ad esempio, sostituirci al predatore naturale e fare un prelievo, limitare l’espansione di una popolazione, guardare alla popolazione", suggerisce Fulgione. Senza poi dimenticare il peso della gestione errata dei rifiuti, con ampie disponibilità di avanzi di cibo davanti ai cassonetti, la trasformazione del paesaggio e la creazione di corridoi ecologici non sempre ben ponderati che fanno entrare gli animali selvatici nel cuore delle città.

"Quanto alla sospensione dell’attività venatoria nelle aree interessate dal contagio a mio avviso è giusto quello che dice l’Ispra e quindi che va sospesa perché movimenta gli animali, però questa è anche un’occasione affinché i cacciatori si adoperino per individuare i capi malati. Possono quindi essere dei veri e propri controllori del territorio. Ritengo che bisognerebbe sfruttare questo momento per fare in modo che queste persone possano monitorare la situazione. La caccia si deve evolvere e il cacciatore deve essere qualcuno che è sul territorio e interviene quando è necessario, per limitare delle popolazioni in espansione o per fare vigilanza".

Dal lupo un aiuto contro l'emergenza Psa

Un aiuto verso la soluzione del problema della peste suina africana può arrivare da un grande predatore come il lupo sul quale, come ha ricordato Francesca Buininconti sul nostro giornale gravano ancora secoli di racconti popolari, di leggende e narrazioni spesso tossiche che hanno alimentato false credenze.

"In questo momento si sta vivendo in maniera molto tesa anche la crescita delle popolazioni di lupo. Questo accade perché non siamo capaci di fare in modo che l’incremento di un top predator possa convivere con la nostra zootecnia ed è un problema di come noi gestiamo il territorio e gli animali.

A proposito del lupo va detto che limita la diffusione del virus, come sottolineano le disposizioni Ispra. Quando mangia un cinghiale infetto da peste suina non si infetta perché probabilmente il virus non sopravvive al passaggio nel tratto intestinale. Da uno studio condotto in Polonia è infatti emerso che nelle feci del lupi che avevano mangiato cinghiali infetti da peste suina il virus non c’è più. I predatori principali come il lupo vanno coccolati, bisogna trovare le soluzioni per una convivenza con la zootecnia e non cercare come soluzione quella degli abbattimenti. Quando si regolano le popolazioni che fanno parte di una comunità agire su una preda è più facile che agire su un predatore ma abbattere i predatori è un’operazione pericolosa perché sono manopole che è difficile toccare e ci sono tante altre soluzioni che possono essere adottate prima di parlare di abbattimenti di lupi. Sono soluzioni che riguardano la nostra capacità di interagire con questi animali, l’educazione ambientale, e non la propagazione di una visione del lupo come animale che terrorizza", conclude Fulgione.

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