CULTURA

Pezzi da museo. Il caso di argiria e le cere anatomiche del vaiolo

Continua il viaggio attraverso i musei dell’università di Padova e i loro reperti, attraverso le immagini che evocano e le storie che raccontano. Oggi è la volta del museo Morgagni – sezione di Anatomia patologica, fondato all’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento da Lodovico Brunetti.  

Il museo comprende reperti con patologie che interessano l’apparato cardiovascolare, il sistema nervoso, l’apparato respiratorio e quello scheletrico, malformazioni del fegato e dell’apparato urinario. Oltre alla sezione dedicata alle malformazioni fetali e alla teratologia: si tratta complessivamente di oltre 1300 esemplari anatomo-patologici. Tra questi ce n’è uno che racconta una storia singolare – e per certi versi ammonitrice –, accaduta ormai due secoli or sono, di cui ci parla Giovanni Magno, conservatore del museo.

Riprese e montaggio di Elisa Speronello

Si tratta di un particolare caso di argiria, una intossicazione da argento in un giovane agricoltore trentenne di Vicenza che nell’Ottocento decise di curare in maniera alternativa non tradizionale una forma di sifilide che gli era stata diagnosticata, senza sapere che il metallo gli si sarebbe depositato sulla pelle in maniera irreversibile. L’argento, in passato, era infatti utilizzato come medicinale alternativo per le sue proprietà antibatteriche e per il fatto di essere un metallo cosiddetto nobile, dunque associato a proprietà benefiche che oggi sono scientificamente non comprovate.

Insoddisfatto delle cure che aveva ricevuto all’ospedale di Padova, il giovane riuscì a procurarsi argento caustico, la cosiddetta “pietra infernale”, che si otteneva dalla fusione delle monete d’argento, spesso ricche anche di metalli pesanti e in particolare di piombo. Assunse la sostanza con monomaniacale insistenza per oltre 20 anni, accelerando in questo modo il processo di trasformazione dei tessuti che nel tempo divennero di una colorazione grigio-bluastra.

Nel 1862, l’agricoltore fu rivisto nella clinica medica di Padova, dove fu dichiarato guarito dalla sifilide, ma con l’“aspetto di una statua di grafite”. I medici tentarono di riportare la cute a una colorazione normale, ma il paziente non volle continuare le cure anche per il dolore che gli procuravano. Il giovane morì il 17 novembre 1873 e l’autopsia condotta da Lodovico Brunetti confermò la diagnosi di argiria.

Brunetti conservò la testa del cadavere per il museo, tassidermizzandola per mantenere il colore della pelle che ancora oggi si può osservare. Questo ha consentito a un gruppo di studiosi padovani di eseguire studi paleopatologici e storici sul reperto, oltre che indagini morfologiche e istopatologiche, per confermare la diagnosi effettuata nel XIX secolo. “Questo caso di argiria rappresenta un tipico esempio di come un paziente possa arrecarsi danno se non segue i consigli del medico – scrivono gli autori nell’articolo pubblicato su Virchows Archiv –. Infatti, il giovane convinto di poter guarire da solo dalla sifilide con la pietra infernale, è incorso nella dipendenza dai composti dell’argento. Questa dipendenza dai benefici percepiti dai pazienti è una caratteristica comune nei casi di argiria”.

Riprese e montaggio di Elisa Speronello

Se per le ragioni illustrate il reperto sopra descritto risulta di particolare attualità, lo sono altrettanto i quattro modelli in cera tridimensionali raffiguranti varie forme di vaiolo, che ci riportano agli anni in cui fu introdotta in Italia la vaccinazione contro la malattia.  

Il primo passo fu compiuto in Inghilterra ad opera di Edward Jenner il quale notò che gli allevatori che entravano in contatto con il pus del vaiolo vaccino, una malattia che colpiva le mammelle delle vacche, non contraevano la forma umana della patologia. Da qui l’idea che l’inoculazione del vaiolo bovino potesse rendere immuni alla patologia.

Protagonista della prima campagna di vaccinazione nel nostro Paese, a qualche anno di distanza dalla scoperta del medico inglese, fu Luigi Sacco (1769-1863) che riuscì a trovare una fonte di pus vaccinale in un gruppo di mucche vicino a Varese: grazie a esso riuscì a vaccinare più di 500.000 persone, rifornendo tutta l’Italia e anche alcuni Paesi del Medio Oriente.

Proprio per permettere ai medici e a tutti gli operatori sanitari di identificare le pustole di vaiolo bovino più adatte da cui estrarre la linfa attiva per la vaccinazione, Sacco nel 1807 propose di creare dei modelli in cera di pustole di vaiolo nell’uomo, nella mucca, nella pecora e nel cavallo. Riteneva infatti che questo potesse essere uno strumento efficace per dare spiegazioni in maniera rapida, in un momento in cui c’era l’urgenza di combattere la patologia.

Le cere anatomiche furono volute, infatti, ancor prima della pubblicazione della sua opera maggiore edita nel 1809, Trattato di vaccinazione, con osservazioni sul giavardo e sul vajuolo pecorino, segno che i modelli ebbero la precedenza sul libro, perché considerati in grado di insegnare la vaccinazione grazie alla loro tridimensionalità a prescindere dalla descrizione testuale.

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