SOCIETÀ

Progettare la città dopo la pandemia

Muovendo dal concetto di città come sistema sociale globale e pertanto come realtà poliedrica e ricca di sfaccettature, nella sua dimensione spazio-temporale e ambientale, la città contemporanea appare in tutta la sua natura dinamica, e il suo essere città-flusso. Concepita come un accampamento sulle rive del tempo, attenta alla sua eredità storica, ma governata dal movimento, dalla trasformazione, dalla transitorietà. Nelle descrizioni dei sociologi, urbanisti, antropologi, etnologi ed economisti ricorrono termini come eterogeneità, frammento, discontinuità, disordine, caos (si vedano, ad esempio, fra gli altri, i lavori di Zygmunt Bauman, David Harvey, Allen J. Scott, Giandomenico Amendola e Guido Martinotti) e più recentemente di complessità (ad esempio: Bertuglia C.S. e Vaio F., Non linearità caos e complessità, 2003; Complessità e modelli, 2011; Il fenomeno urbano e la complessità, 2019, Bollati Boringhieri, Torino; Ceruti M. e Bellusci F., Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Sesto S. Giovanni, 2020).

Certamente le città sono soggette a un continuo processo di trasformazione. I centri delle città declinano oppure cambiano nella loro forma e nelle loro funzioni; sorgono nuovi business districts; immigrati di varia provenienza si raggruppano e si mescolano tra loro; gruppi etnici e razziali vengono segregati in ghetti e ‘slum’; si vengono a formare nuove enclave culturali, mentre quelle vecchie scompaiono. Le divisioni spaziali di per sé non sono nulla di nuovo, ma non sono affatto stabili nelle loro cause, nella loro apparenza, nella loro scala, nei loro effetti (Marcuse P. e Kempen van R., eds., Globalizing Cities. A new spatial order?, Blackwell, 2000).

Negli anni Ottanta appare ormai concluso il periodo delle grandi espansioni, delle previsioni di ampliamento territoriale della pianificazione urbana, dell’aumento demografico e della previsione delle città satelliti. Inizia il momento in cui la città comincia nuovamente a guardare al suo interno, cercando spazi fisici dimenticati da riutilizzare, riqualificare e trasformare. 

Dagli anni Novanta importanti cambiamenti di ordine geopolitico, tecnologico e sociale hanno ridefinito il ruolo della città europea che non può più essere letta come “spazio chiuso”, inscritto in ambiti nazionali “bloccati”. In questo periodo l’incremento della libera circolazione delle persone e delle merci ha fatto registrare un aumento esponenziale degli scambi, un trend in continua crescita; la città cerca, così, la sua collocazione all’interno di una nuova geografia, quella dell’Unione Europea. 

Negli ultimi anni si porta a calibrare ulteriormente il punto di osservazione, ponendo diverse e più complesse questioni che anticipano o sostituiscono del tutto il disegno della città, il suo progetto.

Ma lo spostamento del piano delle indagini e della ricerca dei nuovi sistemi di relazioni e modelli di organizzazione sociale in grado di ridefinire la struttura delle città (così come quella degli Stati e delle regioni), toccando «tutti i rami dell’organizzazione sociale, dalla produzione al marketing, dal tempo libero alla politica, per estendersi fino a nuove forme di controllo e sorveglianza» (Castells M., Galassia internet, Feltrinelli 2002), non mette in crisi la centralità dello spazio nel sistema città.

Attorno allo spazio, da intendersi come luogo, si formano le identità collettive. Lo spazio urbano diventa un caleidoscopio ove decifrare le tendenze e gli scenari nuovi o post che convivono, con intensità e modalità variabili, con la città “moderno-tradizionale”.

La progettazione dello spazio urbano non può fare a meno di partire dall’uomo che lo frequenterà e che riconoscerà in esso un ruolo autorevole e rappresentativo. L’uomo, dunque, deve tornare al centro della questione urbana perché detentore della capacità di trasformare il luogo in identità.

Il sistema urbano con i suoi luoghi, ha via via visto accrescere, da un lato, la tendenza a una dilatazione della città in un territorio più ampio e complesso, favorita anche dall’efficienza delle connessioni fisiche o virtuali, e, dall’altro, l’uso di approcci bottom-up con processi di progettazione partecipata in grado di coinvolgere attivamente i vari attori e i portatori di interesse in contesti locali, puntuali e specifici. 

Un assunto su cui sociologi urbani e geografi sembrano concordare è la progressiva rottura del tradizionale vincolo di dipendenza centro-periferia e la sua sostituzione col nesso globale-locale (Perulli P., a cura di, Globale/locale, il contributo delle scienze sociali, Franco Angeli, 1993-2001).

In questo caso è indubbio che il tema delle connessioni (fisiche e non) e della mobilità, entra a far parte del gioco divenendo partner essenziale nel “funzionamento” della città nella sua complessità. Il delicato equilibrio città-territorio si misura con questioni come mobilità, trasporti, connessioni, velocità, scambio di informazioni, in una dialettica tra spazio e tempo.

La pandemia

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2020 (il DPCM che istituisce il primo lockdown su tutto il territorio nazionale è del 9 marzo), tutto assieme, il telaio dai sottilissimi fili sul quale si poggia la città e le sue trasformazioni, progettate o non, è saltato all’improvviso. Lo spazio urbano, le connessioni, e fin anche la dimensione abitativa, sono implosi come un castello di carta al primo incauto movimento del giocatore. A causa della pandemia da Covid-19 è stato introdotto prima lo stato di emergenza (31 gennaio) e poi, attraverso diversi decreti del presidente del Consiglio, sono state dettate nuove regole di organizzazione e comportamento sociale con drammatici ed imperativi approcci top-down.

Una pandemia è una affaire da mettere in conto, da contemplare nella nostra sfavillante ed ipertecnologica contemporaneità? Con il senno di poi abbiamo scoperto che un piano pandemico l’Italia, come ogni paese europeo, doveva averlo pronto, e anzi tenerlo continuamente aggiornato secondo protocolli internazionali. Da alcuni anni si fanno tentativi di simulazione di eventi di vario genere che possano portare a mutamenti repentini e catastrofici, così da mettere nelle condizioni la popolazione di poter reagire a simili sciagure nel più breve tempo possibile, ristabilendo una qualche forma di normalità. Gli stress test diventano, così, parte dell’analisi della pianificazione anche dei processi urbani, divenendo dati sui quali innestare variabili del sistema ed affinare strategie di progettazione. 

La città, il luogo dell’abitare, del lavoro e della produzione, nella sua capacità adattiva, dunque, deve essere in grado di far fronte all’ipotesi che si verifichino vari mutamenti inattesi, compreso le catastrofi naturali: dai terremoti alle eruzioni vulcaniche, alle problematiche idrogeologiche, alle pandemie, appunto. 

Alcuni anni fa, nelle facoltà di Architettura, si studiavano i moduli abitativi per le emergenze. Naturalmente questi dovevano essere di piccole dimensioni perché facilmente trasportabili, con un certo grado di flessibilità dal punto di vista funzionale e dotati di ogni elemento capace di permettere all’individuo di recuperare immediatamente la dimensione domestica, la casa.

All’indomani del terremoto dell’Aquila, del 6 aprile del 2009, lo Stato italiano si concentrò nella realizzazione di una new town che potesse funzionare nell’attesa della ricostruzione della città consolidata, completamente distrutta dal sisma. Seppur con slogan e neologismi inediti, tale situazione non è stata molto diversa da quanto avvenuto nel passato.

In qualche caso la ricostruzione è stata vista, alla lunga, come un’opportunità. Quella di rendere migliore la città toccata da qualche evento catastrofico, ammodernandola, rendendo più efficiente il sistema delle connessioni, la gestione dei flussi e della mobilità, migliorando la qualità della parte costruita e razionalizzando le diverse funzioni.

Spazio collettivo vs. spazio individuale

Covid-19, invece, il giorno dopo il 9 marzo 2020, ha fatto sentire tutti in una sorta di trappola i cui confini erano tutti da scoprire. 

La pandemia non ha sfiorato le abitazioni che sono rimaste integre, così come le viabilità, i trasporti, i parchi pubblici, il lungomare e il lungofiume, i posti iconici della città, i grattacieli degli uffici, i padiglioni delle fiere. Tutto è rimasto intatto, ma impossibile da raggiungere

A quel punto ogni essere umano ha realizzato di essere costretto a vivere chiuso nelle proprie abitazioni. Sembra un paradosso. Le case si sono rivelate quasi sempre piccole, insalubri e insicure, prive di spazi accessori o di luoghi aperti di pertinenza. L’organizzazione dell’abitazione progettata per evitare lo spreco di spazio in condizioni normali di vita della famiglia, non permette di disporre della necessaria autonomia funzionale per una permanenza lunga e forzosa.

È risultato evidente che lo spazio abitabile, nel corso degli anni, è stato via via estroflesso fuori dalla abitazione. Allo spazio pubblico è stato dato il compito di assorbire e “collettivizzare” funzioni private, rendendo così possibile che l’abitazione divenisse sempre più piccola ed essenziale. 

Nelle città il progettista di edifici a vendere è stato da tempo abituato a fare i conti con i minimi edilizi possibili: 28 mq per un monolocale per una persona, 38 mq per due persone, stanze da letto doppie di 14 mq precisi e camerette da 9 o 10 mq a volte sistemate in sottotetti non abitabili, e così via. La possibilità di acquistare case piccole per viverci in maniera transitoria utilizzandole poi, magari, per affittarle a studenti universitari o lavoratori in trasferta, è stata la proposta più consigliata da qualsiasi agenzia immobiliare a chi avesse voglia di investire nel mattone o per una famiglia appena nata. Un mercato redditizio e senza possibilità di crisi.

L’idea che la casa possa essere solo un appoggio, la necessità di trascorrere la giornata fuori dalla propria abitazione tra mezzi pubblici, luoghi del lavoro e del divertimento ha concesso a chiunque di abbassare la guardia su molti aspetti della qualità della propria dimora e sul benessere abitativo. 

Il giorno dopo il primo lockdown ci siamo trovati tutti di fronte al fatto compiuto. Sappiamo tutti com’è andata, la dimensione e le caratteristiche delle abitazioni, specialmente nelle città, non hanno di certo aiutato a vivere bene la permanenza forzata.

Anche la mobilità “corta” all’interno dello stesso edificio è andata in crisi. L’ascensore è diventato un posto pericoloso al pari di qualunque locale pubblico affollato. 

Struttura in acciaio, ascensore, aria condizionata e luce al neon hanno costituito i presupposti per la realizzazione e il funzionamento dei grattacieli (Koolhaas R., Mau B., S,M,L,XL, The Monacelli Press, New York, 1995). Ludwig Mies van der Rohe realizza il Seagram Building a New York con Philip Johnson nel 1958. Un pulito ed essenziale parallelepipedo in acciaio e vetro, alto 156,9 metri, appena arretrato rispetto al filo stradale così da creare un rapporto con la città attraverso una piccola piazza di poco sopraelevata. Less is more.

Il grattacielo, che per tutto il XIX e il XX secolo ha partecipato alla creazione della nuova immagine della città (innescando una gara tra metropoli che, per molti aspetti, ricorda quella tra le città medioevali alle prese con la costruzione delle loro cattedrali gotiche) si è rivelato essere vulnerabile più di qualsiasi altra cosa al virus: la variabile impazzita che le simulazioni e le procedure di sicurezza non erano state in grado di prevedere. 

L’ascensore e l’aria condizionata sono stati, nel 2020, tra i principali motivi per i quali è stato necessario imporre la chiusura agli uffici e obbligare al lavoro da casa gli impiegati che vi si recavano quotidianamente affollando gli open space

Per le stesse ragioni i grattacieli orizzontali e mobili delle metropolitane si sono dovuti fermare inesorabilmente. 

Appare evidente che a crollare non è stato concretamente l’edificio, ma il mito dello skyline di New York, Shanghai, Dubai, Londra, Francoforte e così via.

L’individuo, imbottigliato nella propria abitazione, ha dovuto, secondo un ciclo continuo e inarrestabile, compiere tutte le attività che fino a quel momento spalmava in un territorio ampio e funzionalmente differenziato, riducendosi a muoversi in poche stanze e adoperando il medesimo tavolo e la stessa sedia per svariate attività.

Uscire sul balcone e cantare l’inno italiano ogni giorno alla stessa ora, se, da un lato, poteva costituire il tentativo della comunità di reagire positivamente all’impossibilità di avere relazioni sociali tradizionali (così è stato generalmente descritto il fenomeno), dall’altro, in realtà, potrebbe aver rappresentato il tentativo collettivo e inconsapevole di elaborare un rito universalmente riconosciuto, al quale aggrapparsi per esorcizzare la paura: un nuovo “vitello d’oro” da adorare tutti assieme nel momento in cui il popolo è rimasto senza una direzione certa da seguire. 

Con quest’ottica trattenersi qualche minuto sul balcone potrebbe aver avuto a che fare con qualcosa di ancestrale: uscire e rimanere davanti all’ingresso della propria grotta per vedere cosa succede fuori, per fare la conta. 

Quante delle persone che uscivano sul balcone conoscevano chi era affacciato dall’altra parte della strada? Cosa avevano in comune con quanti erano nella palazzina accanto? È avvenuta una relazione concreta tra questi individui? Cosa è accaduto dopo la fine del lockdown tra chi ha suonato la tromba e chi ha applaudito o appeso striscioni alla ringhiera?

La città despazializzata, ha costretto l’individuo a non poter condividere il momento del “balcone” con un componente del proprio gruppo sociale liberamente scelto. 

Lo spazio collettivo ha perso importanza in un solo momento, abitare in una grande città o in un quartiere esclusivo non ha rappresentato più, di colpo, un valore aggiunto, uno status symbol, rendendo ingiustificabile la quotazione immobiliare di ogni metro quadro di abitazione nelle stime pre-pandemia. 

Neppure il sistema sanitario ha retto meglio nei posti in cui l’individuo si sentiva più protetto da un’indubbia maggiore efficienza e organizzazione di ospedali e strutture mediche. Una livella su cui Totò avrebbe trovato di che argomentare.

A un tratto gli standard urbanistici sono divenuti misurabili non più in unità di superficie, ma in GigaByte di velocità di connessione. La piazzetta sotto casa o il circolo culturale sono stati risucchiati nello schermo di un computer rimanendo fisicamente invisibili, come la strada per raggiungerli. È saltata la possibilità di fruire di strade, marciapiedi e piazzette come luoghi di frizione in grado di creare relazione (un riferimento scontato ma utile è il piano di ampliamento di Barcellona realizzato da Cerdà nella seconda metà dell’Ottocento).

Gli strumenti per incontrarsi a distanza hanno, da una parte, aiutato a mantenere rapporti umani e lavorativi, dall’altra parte hanno costretto, anche chi fino a quel momento era stato attento custode della propria intimità domestica, a svelare quale fosse la propria condizione abitativa. Le videoconferenze si sono intrufolate di soppiatto nelle case come un voyeur ai giardinetti. Nessuno aveva previsto, nella propria abitazione, la possibilità di disporre di un angolo telegenico.

La pandemia ha certamente messo in risalto i punti deboli dello spazio collettivo (divenuto, in un solo colpo ingovernabile e reso inutilizzabile, come scuole e uffici pubblici), restituendo allo spazio privato dell’abitazione un ruolo che si pensava fosse stato superato dalla modernità e dai progressi della progettazione urbana.

La storia ci insegna?

Una linea di pensiero sentita di frequente e in qualche modo confortante è quella che da questa situazione l’umanità uscirà più forte e più consapevole. L’idea diffusa è che impareremo ad avere più rispetto del nostro mondo e maggiore cura di noi stessi, finanche un uso più attento e consapevole del nostro tempo, scegliendo delle attività maggiormente qualificanti ed edificanti per la nostra persona. Questa posizione, seppur auspicabile, è stata già smentita nei fatti durante il periodo estivo, quando la diminuzione dei contagi ha dato il via libera a qualunque tipo di attività usualmente praticata nel periodo pre-covid, con una frenesia da ultimo dell’anno.

La storia ci racconta che, in genere, l’uomo per sua natura tende a dimenticare presto le situazioni nefande. L’oblio seppellisce ogni catastrofe prima che le macerie vengano definitivamente smaltite. È stato così nella storia per i terremoti e per le epidemie, altrimenti non saremmo tornati a costruire L’Aquila negli anni ’60 e ’70 peggio di quanto si fosse fatto nel passato, dimenticando che la città era già stata rasa al suolo dal sisma del 1703, e ancor prima da quello del 1461 (per rimanere alla città abruzzese). In alcune aree del Paese che presentano tempi lunghi di ritorno per terremoti e alluvioni, le popolazioni locali negano addirittura che la propria possa essere un’area sismica o che ci possano essere rischi idrogeologici. Solo recentemente, nel 2003, dopo il terremoto di Molise e Puglia del 31 ottobre 2002, in Italia la normativa per le costruzioni in cemento armato ha sancito la necessità di considerare sismiche tutte le aree del paese, seppur con livelli diversi. Il fatto è che, di fronte al calcolo strutturale di un edificio in zona 3 o 4, si compiono delle scelte progettuali che dimenticano che la classificazione italiana è stata compiuta su base statistica con un tempo di ritorno di soli 50 anni. 

Spazio, tempo, Architettura

Il virus ha colpito innanzitutto le metropoli, le città globali. Ne parlavano già alcuni anni fa S. Harris Ali e Roger Keil a proposito della SARS (Global cities and the spread of infectious disease: the case of severe acute respiratory syndrome (SARS) in Toronto, Canada, Urban Studies, 43, 3, March 2006, pp. 491-509). Gli studiosi dell’Università di Toronto, affermavano che l’epidemia di sindrome respiratoria acuta grave (SARS) nella loro e in altre città nel 2003 «ha mostrato una maggiore sensibilità dei luoghi dell’economia globale ai rapidi cambiamenti portati dall’accelerazione delle relazioni sociali ed ecologiche. La diffusione del virus della SARS può essere stata una conseguenza prevedibile di questi processi». Gli studiosi hanno esaminato in che modo i processi di globalizzazione hanno influito sulla trasmissione e la risposta alla SARS nel contesto della rete delle città globali, dichiarando che «poco lavoro è stato fatto sul rapporto tra la formazione globale delle città e la diffusione delle malattie infettive». Ali e Keil, sostenendo che questa relazione può essere centrale per comprendere le intricate strutture capillari della rete globalizzata, cercavano di studiare come gli agenti patogeni interagiscano con fattori economici, politici e sociali: «Queste relazioni esistono sia nella rete che nelle stesse città globali, ponendo così nuovi problemi per la salute pubblica e sforzi epidemiologici per il contenimento e il monitoraggio delle malattie».

Dopo l’epidemia di colera che colpì Napoli nel 1884 a causa delle pessime condizioni igieniche sanitarie delle abitazioni e il loro eccessivo affollamento, fu promulgata lalegge n. 2892 del 1885, nota come Legge Napoli, con la quale si prevedevano espropri motivati dalla necessità di risanamento di ampie aree della città, con importanti piani di demolizioni e ricostruzioni. La città così com’era, chiaramente, non sembrava recuperabile.

Oggi ci si rende conto, ancora di più, che il modello di città realizzato da quasi un secolo a questa parte è estremamente fragile. Il grattacielo e la metropolitana non sono vulnerabili solo al Covid, ma a qualunque tipo di virus e a molte altre situazioni non prevedibili dalla progettazione urbanistica, dai modelli e dalle simulazioni. Tragiche e recenti vicende che tutti conosciamo lo hanno chiaramente dimostrato. 

Ma anche l’abitazione ha mostrato tutta la sua inadeguatezza a reagire a questo particolare momento, perché mutata nel tempo, rimpicciolita, resa essenziale e di fatto invivibile. 

In entrambi i casi – città e abitazione –, per quanto possa sembrare banale, la progettazione ha assunto nel tempo una direzione che l’ha portata a mettere al centro non l’uomo, ma un modello astratto.

Se il grattacielo, la nave da crociera, la mobilità di massa, il grande evento, vanno necessariamente e inequivocabilmente ripensati in una ottica di maggiore sicurezza rispetto a situazioni come quella che stiamo vivendo, anche l’abitazione, appare chiaro, deve essere in grado di assorbire al suo interno funzioni diverse rispetto a quelle del solo dormire, mangiare, della convivialità ridotta ad ospitare una sola famiglia di amici per il pranzo della domenica.

La questione è complessa perché riguarda la necessità di calibrare diversamente gli spazi (quelli interni, quelli esterni, le visuali, la qualità della luce, i materiali ecc.), rendendoli compatibili con una migliore e più sostenibile vita umana, e questo, naturalmente, incide sul costo degli immobili, sull’industria delle costruzioni, sulla rendita di posizione, sulla maniera con cui sono concepiti i trasporti, sulle dinamiche economiche. Senza contare che una progettazione troppo accurata e rigida, non prevedendo gradi di libertà del sistema, rischia di tenere nascosti altri bug pronti a esplodere improvvisamente, senza la possibilità di disporre di ammortizzatori adeguati.

I tentativi di reagire a una città che appare oggi meno sicura e più problematica, sono molteplici e vanno in diverse direzioni. Per esempio Eric Charmes, sociologo francese di base a Lione, afferma che la dimensione abitativa suburbana o rurale riacquista un interesse sempre più consistente che (a parte il rischio del consumo del suolo) con il sostegno della sempre più efficiente rete internet, tenderà a creare un nuovo tipo di pendolarità nei confronti della città deputata a rimanere un contenitore di eventi e alcune tipologie di servizi non localizzabili in periferia (Charmes E., La revanche des villages. Essai sur la France périurbane, Seuil, Parigi, 2019). Oppure si cercano meccanismi per i quali il quartiere possa riacquistare un ruolo centrale nelle relazioni, nel lavoro, nell’acquisto dei beni, nell’uso dei servizi (Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, «la città dei 15 minuti», 2020:). In ogni caso sembra che ci sia unanimità nell’affermare che la città e la dimensione dell’abitare vadano riviste in un’ottica di miglioramento della qualità della vita dell’individuo e della sostenibilità ambientale (Granata E., Biodivercity, Giunti, Firenze-Milano, 2019). 

Appare chiaro che la pandemia, tra le altre cose, abbia alzato il velo sulla crisi del rapporto tra spazio e tempo. A questo proposito sembra calzante citare il titolo di un bellissimo testo di qualche anno fa: Spazio, tempo e Architettura (Giedion S., Spazio, Tempo, Architettura, Hoepli, Milano, 1987).

Lo spazio e il tempo, negli ultimi anni, sono stati sempre più manipolati ad arte, compressi e adattati a dinamiche e logiche del mercato, dell’economia e della globalizzazione più che della vita umana. Lo spazio dell’abitare è stato trasferito fuori dalla casa, scambiando metri quadrati privati con superficie pubblica. Ma i primi non sostituiscono completamente l’altra, appartenendo a categorie diverse e complementari della vita dell’individuo.

Il tempo è stato parcellizzato e reinterpretato fino a farci perdere i riferimenti. Le ore di lavoro andrebbero valutate non al netto dei contratti collettivi nazionali, ma al lordo di una miriade di attività complementari ma ormai di routine, che seguono l’individuo in tutte le altre ore della giornata invadendo inesorabilmente ogni spazio vitale e recentemente, con le videoconferenze e lo smart working, anche gli scenari domestici.

Il tempo e lo spazio, come valori individuali e sociali, vanno recuperati e messi alla base di scelte che riguardano la città, ma che partono dall’uomo. Questa operazione ci obbliga a doverci confrontare con un’altra dimensione spaziale che è quella dello spazio mentale. E allora lo spazio e il tempo divengono indistinguibili.

«La felicità sta nel perimetro. Lo spazio chiuso. Il templum dei Romani, il témenos dei Greci. Il confine all’interno del quale il mondo può entrare solo in punta di piedi» (Rumiz P., il filo infinito, Feltrinelli, Milano, 2019). Nel nostro caso il perimetro deve intendersi non come uno spazio fisico, ma come un ambiente che l’uomo costruisce attorno a sé e per sé, e che riconosce come personale e identitario. Nel quale una permanenza forzata, anche durante una pandemia, diviene possibile perché compatibile con la vita, non con l’attesa.

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