SCIENZA E RICERCA

Quanto vale la costante di struttura fine?

Hanno misurato α, la costante di struttura fine, con una precisione mai prima raggiunta: l’errore può essere al massimo di 81 parti su mille miliardi (81 ppt). In pratica con un possibile errore sull’ultima di undici cifre decimali. L’impresa è riuscita al gruppo francese di Saïda Guellati-Khélifa e il risultato è stato pubblicato il 2 dicembre scorso sulla rivista Nature. La precisione di questa misura

La notizia potrebbe apparire abbastanza tecnica per i non addetti al lavoro. Ma la costante di struttura fine ha un ruolo fondamentale in fisica. E la precisione con cui viene misurata costituisce, sosteneva già sette anni fa, Gerald Gabrielse: The Standard Model’s Greatest Triumph, il più grande trionfo del Modello Standard. E poiché il Modello Standard propone la descrizione migliore che la fisica, al momento, ci offre del mondo a livello microscopico, questa misura rappresenta il “più grande trionfo” sperimentale di questa teoria. Che tuttavia sappiamo essere incompleta.

Ma diciamo subito cos’è α, la costante di struttura fine, sia pure molto schematicamente. Essa è la «forza dell’interazione elettromagnetica tra la luce e particelle cariche elementari, come l’elettrone e il muone», spiegano Saïda Guellati-Khélifa nell’abstract del loro articolo. È una costante universale con un valore calcolato finora di 137,03599920611 con un errore appunto di 81 parti sulle ultime due cifre decimali.

Una misura così accurata ha implicazioni notevoli. Per esempio conferma al di là di ogni dubbio che l’elettrone è una particella elementare, ovvero non è composta da alcunché, a differenza, per esempio, di protoni e neutroni che sono composti da quark. Non è certo cosa da poco questa conferma.

Tanto più che lei, questa precisissima misura, pone dei vincoli alla ricerca di cosa fa dolere il dente del pur affermatissimo Modello Standard. Il quale, concordano tutti i fisici teorici, perché non spiega alcuni fatti mica da poco: la massa del neutrino, che il Modello vorrebbe nulla e invece è stati sperimentalmente dimostrato non lo è; l’esistenza misurata di una “materia oscura”; l’esistenza misurata di una “energia oscura; l’asimmetria tra materia e antimateria nell’universo. La nuova misura della costante fine ci aiuta a capire un po’ meglio dove dobbiamo cercare. 

E, magari, ci aiuta a capire il significato profondo di α, una costante adimensionale. Una caratteristica quest’ultima che lascia perplessi molti fisici: i quali sono sempre scontenti quando si trovano difronte a numeri senza dimensioni che appaiono nei loro modelli. Ma lo sono ancor di più nel caso di un numero – 137,035999206(11) +/- 81 e generalmente abbreviato a 137 – che si propone come una costante fondamentale. Che significato profondo ha questo numero? 

Non lo sappiamo, Forse la nuova misura di questa costante ci aiuterà a scoprirlo. Per ora diciamo che la costante di struttura fine ha destato l’attenzione di tutti i più grandi fisici che si sono interessati di quantistica. A introdurla, α, fu Arnold Sommerfeld nel 1916 quando “corresse” il modello di atomo proposto da Niels Bohr tra anni prima. Il modello– che fa del danese il terzo padre fondatore della fisica quantistica – era simile a un sistema planetario, con gli elettroni che orbitano intorno a un sole (il nucleo), ma con orbite definite (quantizzate). Era efficace per spiegare i fenomeni noti, ma non abbastanza. C’erano delle discrepanze che il tedesco Sommerfeld riuscì almeno in parte a superare introducendo gli effetti relativistici del moto degli elettroni. Esce così il “numero magico” o il “numero di Dio”, che diceva scherzando Richard Feynman. Che, smettendo di scherzare, poi aggiungeva: questo è il genere di numero che ogni fisico dovrebbe tenere scritto sulla sua lavagna. Per tre motivi più che mai attuali: non sappiamo da dove venga; non abbiamo una teoria che lo possa spiegare; senza di esso il mondo così come la conosciamo, non potrebbe esistere.

Se è in gioco la realtà stessa del mondo, si capisce bene come molti fisici siano stati ossessionati dal quel numero privo di dimensioni: 137. Tra tutti il più ossessionato è stato certamente un altro dei grandi fisici teorici protagonisti dell’epopea della meccanica quantistica: Wolfgang Pauli. Voleva venire a capo dell’enigma. Che invece lo inseguì fino all’ultimo. 

Nel dicembre 1958 Pauli è ricoverato nell’ospedale di Zurigo, città dove insegna. Per quanto strano possa sembrare l’iperrigoroso fisico tedesco concedesse qualcosa alla superstizione (anche gli scienziati sono umani). Pochi giorni prima della morte di Pauli, l’assistente, Charles Enz, si reca al suo capezzale. Lo accoglie Pauli: 

         «Hai visto, il numero della mia stanza?».     

         «No», risponde Enz.

         «È il 137».

         «E allora?», chiede il premuroso assistente.

         «Non uscirò mai vivo da qui».

Ovviamente il povero numero non ha avuto alcun ruolo nella morte di Pauli, avvenuta qualche giorno dopo la conversazione. Ma in qualche modo possiamo dire che il numero trattiene la teoria fisica in una stanza da cui ancora non si riesce a uscire. La misura di Saïda Guellati-Khélifa e colleghi lascia intravedere tuttavia un ulteriore spiraglio verso il way out. Ammesso che l’uscita ci sia. In alcune teorie – come quella cosiddetta delle stringhe – la costante di struttura fine non è davvero costante. Ma questo colpo di scienza manca, almeno per ora, di conferma sperimentale. Ed è anche così che il numero cerca di sfuggire ai fisici che da oltre un secolo gli danno la caccia.

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