SOCIETÀ

La rabbia francese e un problema endemico mai risolto

Quel che più spaventa nell’ennesima esplosione di violenza nelle banlieues francesi è l’assenza di una “chiave”, di una qualsiasi visione politica che possa tracciare un percorso per arrivare (forse) un giorno a superare socialmente, civilmente, economicamente, quello che a tutti gli effetti si sta rivelando un problema endemico: la ghettizzazione di un’enorme porzione di popolazione (ormai francese di passaporto, ma di origine straniera, spesso africana), il razzismo esplicito delle forze di polizia, l’umiliazione degli esclusi, le disuguaglianze, l’insostenibile pressione della rabbia repressa di chi è stato, per decenni, “parcheggiato lì”, in un’integrazione mai realmente e compiutamente realizzata. Fenomeno di certo aggravato dall’attuale crisi economica, dalla disoccupazione dilagante e da un radicato sentimento di rancore nei confronti delle istituzioni. L’ultimo innesco è stato un episodio di pura e immotivata violenza da parte di un agente di polizia: un ragazzo di 17 anni, Nahel Merzouk, di origine algerina, ucciso a Nanterre, a ovest di Parigi, il 27 giugno scorso durante un controllo, con un colpo di pistola sparato dritto al cuore. Dicono, gli agenti, che si era rifiutato di mostrare i documenti. Ma gli stessi poliziotti avevano sostenuto in una prima versione che il ragazzo avesse tentato di investirli con la sua Mercedes gialla, sostenendo di essere stati “costretti” a sparare, per legittima difesa. Tutto falso: il ragazzo si era fermato all’alt. Gli agenti gli hanno puntato una pistola contro e, dopo averlo minacciato e colpito con il calcio della pistola, hanno sparato (perché ancora non è chiaro). A riportare a galla, quantomeno, la verità dei fatti è stato un video postato poche ore dopo sui social. Due settimane prima, un altro giovane di origine africana era stato ucciso dalla polizia in circostanze simili, ad Angoulême, ma in quell’occasione non c’era un cellulare a filmare la scena. Secondo lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, «la polizia non avrebbe mai sparato a bruciapelo in quel modo in un quartiere borghese». Il quotidiano algerino in lingua araba El Khabar ha commentato così: «La Francia si rifiuta di riconoscere i propri errori, ancora una volta. E continua a emarginare generazioni di immigrati».

Il contagio delle devastazioni

La reazione della popolazione, alimentata dai social, è stata furibonda, nonostante il poliziotto responsabile per la morte di Nahel (attualmente è in stato di fermo per omicidio volontario) abbia chiesto “perdono” alla famiglia del ragazzo: barricate, auto e cassonetti incendiati, saccheggi, scontri violentissimi con le forze dell’ordine non soltanto a Parigi, ma un po’ ovunque, dal nord al sud della Francia (Metz, Rennes, Nizza, Marsiglia, Lione, Roubaix, Lille, Tolosa: in tutto 553 Comuni hanno subìto danni), perfino oltre i confini, con disordini a Losanna, in Svizzera, e nella capitale belga Bruxelles. Gli arresti nell’ultima settimana sono stati oltre 3.600, e tra loro anche ragazzini di 12-13 anni (l’età media degli arrestati è 17 anni). Oltre 800 gli edifici danneggiati tra commissariati, scuole, municipi, negozi, migliaia di automobili e bus dati alle fiamme. Soltanto nell’Ile de France, la regione di Parigi, sono stati stimati 20 milioni di euro di danni ai trasporti pubblici: con il conto dei danni complessivi che potrebbe superare il miliardo di euro. La situazione, lentamente, sta tornando sotto controllo (la magistratura sta anche indagando sulla morte di un uomo, colpito da un proiettile a Marsiglia). Ma non è certo la prima volta che gli abitanti delle banlieue si rivoltano. Il caso più eclatante nel 2005, quando due ragazzi, Zyed Benna e Bouna Traorè, rimasero folgorati all’interno di una cabina elettrica mentre tentavano di sfuggire a un controllo di alcuni agenti di polizia. In quel caso fu la città di Clichy-sous-Bois, un sobborgo a est di Parigi, la prima a far esplodere le proteste, che durarono tre settimane.

Il presidente Macron, che dopo le rivolte per l’approvazione forzata della riforma delle pensioni si trova a fronteggiare una nuova emergenza sociale, è stato perentorio nel chiedere al governo di «continuare a fare di tutto per ripristinare l’ordine». Vale a dire, aumentare il livello della repressione (schierando oltre 40mila agenti). Che se può anche essere comprensibile di fronte a un’emergenza, lo è molto meno quando si tratta di legittimare il sopruso della forza, e della divisa, come “metodo” nel normale svolgimento dell’attività di servizio. Nel febbraio 2017, in Francia (presidente era ancora François Hollande), è stata approvata la legge attualmente in vigore che regola l’utilizzo delle armi degli agenti di polizia. E che autorizza gli agenti, oltre a sparare per i casi di legittima difesa, ad aprire il fuoco qualora gli occupanti di un’auto “siano nelle condizioni di provocare, nella loro fuga, minacce all’integrità fisica, alla loro vita o a quella degli altri”. Una discrezionalità che molti continuano a giudicare eccessiva. Soltanto nel 2022, tredici persone sono state uccise dagli agenti della polizia stradale francese dopo essersi rifiutati di “obbedire” ai loro ordini.

Polizia sotto accusa

La polizia francese è senza dubbio una parte del problema. Sebastian Roché, sociologo, docente all’Università Sciences-Po di Grenoble, specialista in questioni di polizia e sicurezza, già lo scorso anno sosteneva: «Negli ultimi vent’anni, la polizia francese è quella che ha ucciso più cittadini in Europa. In Germania, c'è stata una sola sparatoria mortale in dieci anni (per il rifiuto di obbedire agli ordini) rispetto alle 16 in Francia in un anno e mezzo: praticamente un morto al mese». Oggi, dopo l’omicidio di Nahel, Roché sostiene che non ci sono analogie con il movimento di protesta per le pensioni: «Penso che in questo caso abbiamo più a che fare con la discriminazione della polizia e sui controlli di identità, che in Francia si concentrano principalmente sui gruppi etnici minoritari. È un problema endemico che troviamo in tutte le città, e non solo nella "banlieue" parigina. Abbiamo studiato per 15 anni, sia a Parigi che a Lione, Marsiglia, Lille, Strasburgo, e abbiamo visto che c’è questa evidente discriminazione in tutti questi centri urbani». Un argomento talmente “urgente” che perfino l’Onu si è sentita in dovere di chiedere alla Francia di affrontare «seriamente i gravi problemi di razzismo e discriminazione sociale all’interno delle forze dell’ordine». Un altro sociologo, Jacques de Maillard, professore di scienze politiche all’Università di Versailles-Saint-Quentin e direttore del Centro di ricerca sociologica sul diritto e le istituzioni penali (CESDIP), ritiene invece che «il costante deterioramento del rapporto polizia-popolazione è dovuto alla mancanza di evoluzione delle politiche di polizia dagli anni 2000”: «La cultura della forza poliziesca – sintetizza de Maillard - si basa sulla frustrazione». E sull’episodio specifico di Nanterre: «Le immagini sono scioccanti. Non vediamo la minaccia che il rifiuto di “conformarsi” agli ordini della polizia potrebbe rappresentare. Ciò che colpisce è che il rapporto post-intervento della polizia nasconde la realtà. Se provate, queste falsificazioni scritte costituiscono una deviazione da non sottovalutare in quanto riflettono la preoccupazione di proteggersi a dispetto delle norme di diritto».

«Non è politica, non è religione: è rabbia sociale»

Ma l’argomento è troppo ampio e troppo profondo per essere liquidato come una semplice questione di ordine pubblico. Come ha scritto per Politico John Lichfield, ex corrispondente da Parigi per il quotidiano britannico The Independent: «Diffidate di coloro che offrono una spiegazione semplice delle rivolte che sono esplose nelle periferie multirazziali di tutta la Francia. Queste non sono, per la maggior parte, rivolte politiche – anche se sono influenzate dalla politica velenosamente divisa della Francia, e la infiammeranno pericolosamente. Non sono rivolte religiose. Molti dei giovanissimi rivoltosi possono avere un senso di identità musulmana assediata, ma sono guidati dalla rabbia piuttosto che dalla loro religione. Questa è un'insurrezione, non un’intifada». Certo è una sconfitta per la politica francese, che per decenni non è riuscita ad affrontare con criterio il problema delle sue periferie malate e degradate, con intere aree urbane in stato d’abbandono, senza servizi adeguati, scollegate e sconnesse con le città, con scuole spesso di scarsa qualità, con la delinquenza che riesce ad avere il sopravvento sulla “crescita” di quelle comunità sempre più chiuse, sempre più isolate. Un’esclusione che comincia fin dal nome di quelle periferie edificate verso la fine degli anni sessanta, per accogliere gli immigrati provenienti dalle ex colonie francesi. Il termine banlieu nasce dall’unione di due parole: “ban”, che vuol dire mettere al bando, e “lieu”, luogo. Luoghi messi al bando, separati, “altro” rispetto alle città. Risposte della politica? Zero. Nel 2018 ci aveva provato l’ex ministro Jean-Louis Borloo, presentando un ambizioso progetto di riqualificazione delle periferie, chiamato “Plan banlieues”, poi di fatto abbandonato da Macron. Rayan Freschi, ricercatore per l’organizzazione Cage, ha scritto in un articolo pubblicato dalla rivista Middle East Eye: « Le rivolte sono una forma di dissenso politico espresso da una generazione di musulmani e adolescenti non bianchi le cui vite sono considerate inferiori, anche economicamente, e prive di significato per lo stato francese».

Così resta la politica a dover gestire non soltanto l’emergenza di questi giorni (il presidente ha annunciato ieri sera una legge d’emergenza per la ricostruzione degli edifici danneggiati), ma una profondissima voragine sociale che contrasta bruscamente con il motto nazionale francese, quantomeno nella parte che riguarda l’Égalité. E con una sempre più diffusa “islamofobia”, la criminalizzazione dell’Islam e dei musulmani, che ha progressivamente conquistato il centro della scena politica (secondo gli autori del Rapporto europeo sull’islamofobia «l’anno 2022 è stato segnato dalla campagna presidenziale più islamofobica della storia della Francia»). Ma oltre alla repressione sistematica dei rivoltosi, non c’è traccia di quella “chiave” di cui si parlava all’inizio. Con la destra che continua a soffiare sul fuoco dell’intolleranza (a Lione manifestanti incappucciati hanno sfilato al grido di “Francia ai francesi” e “Tornate a casa vostra”: analoghe ronde ad Angers e Chambéry.). Con Macron, mai così impopolare, costretto a barcamenarsi tra una destra radicale (Eric Zemmour ha evocato una “guerra civile”), una Marine Le Pen che, lungimirante, usa toni appena più moderati mantenendo compatto il Rassemblement National e una sinistra sempre più divisa, con Jean-Luc Mélenchon sommerso dalle critiche per aver dichiarato a caldo: «Altro che calma, chiediamo giustizia». Interpellato dal sito Formiche.net, Gilles Gressani, docente di scienze politiche a Sciences-Po e direttore della rivista Le Grand Continent, ha commentato: «A un anno dai Giochi olimpici di Parigi, a due settimane dalla festa nazionale che avrebbe dovuto consacrare la fine di “cento giorni” di pacificazione dopo la crisi delle pensioni, per l’ennesima volta l’Eliseo si trova a dovere gestire un Paese sull’orlo di un incendio. Ma non ci sono molti pompieri all’orizzonte». In compenso la destra bussa forte, e con grandi aspettative, alle porte dell’Eliseo.

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