SOCIETÀ

Regioni: la maturità arriva a cinquant’anni?

Il 7 giugno le Regioni a statuto ordinario compiono cinquant’anni. Istituzioni relativamente giovani, se rapportate ai mille anni di storia dei Comuni o ai quasi centosessanta dello Stato nazionale.

La celebrazione della ricorrenza – occasione di riflessioni e bilanci – avviene in un momento in cui, come mai prima nella loro storia, le Regioni, o meglio i loro presidenti (smettiamola di chiamarli governatori), si sono ritrovati al centro della scena e proiettati su un palcoscenico nazionale, chiamati a decidere, assieme al Governo, della vita e del futuro di milioni di persone e delle loro attività.

La gestione sanitaria della pandemia e il rapporto con lo Stato sono stati oggetto di uno stress test senza precedenti, che ha mostrato luci (la leale collaborazione, pur fra tensioni e protagonismi, si può dire abbia retto) e ombre (l’eccesso di paternalistica personalizzazione e lo svuotamento degli organi legislativi). Una vera e propria prova di maturità sia per questi enti che per la cultura autonomistica.

Per la prima volta la Conferenza Stato-Regioni ha funzionato come una sorta di seconda Camera, riportando entro binari fisiologici la dialettica e l’approccio spesso competitivo interpretato da alcuni presidenti. Anche se di scarso rilievo sostanziale, questi mesi rischiano di lasciare però, agli occhi dell’opinione pubblica, alcune ferite simboliche, prodotte dalla babele delle parole e da alcune stravaganti pretese di improbabili patenti di immunità o di chiusure dei “confini” regionali.

La gestione sanitaria della pandemia e il rapporto con lo Stato sono stati oggetto di uno stress test senza precedenti

Nel complesso si può dire, grazie a una buona dose di pragmatismo e a una collaudata integrazione degli apparati burocratici statali e regionali, che il sistema abbia retto, anche a dispetto delle vestali dei poteri centrali e del loro ruolo salvifico, con le Regioni chiamate in questa fase emergenziale a un’inedita funzione di contrappeso al potere dei Dpcm e al temporaneo affievolimento delle prerogative parlamentari.

Semmai c’è bisogno di una riflessione, tanto più in vista delle prossime elezioni regionali, su come questa vicenda abbia cambiato la forma e la sostanza di queste istituzioni, con le assemblee legislative e le stesse giunte ridotte a funzioni ancillari rispetto ai presidenti, solitari titolari di poteri “ordinatori” privi di contrappesi.

Anche se la vicenda Covid-19 influenzerà i giudizi e le conseguenti valutazioni sugli eventuali correttivi da introdurre, ragionare sui primi cinquant’anni, su che cosa sono state le Regioni nella storia d’Italia, sulle prove offerte e le occasioni mancate, diventa utile per cercare di cogliere le nuove traiettorie a cui queste saranno chiamate.

La stagione degli anni ’70-’80 è stata quella in cui un nuovo ceto politico e amministrativo si trovò a fare i conti con la necessità di dare forma e rappresentanza a comunità territoriali fino ad allora interpretabili come mere “espressioni geografiche”. Probabilmente fu la stagione più ricca di suggestioni, in cui fu avvertita forte la necessità, a partire dalle preesistenti culture federaliste, di costruire una nuova soggettività necessaria per rispondere alle domande sociali ed economiche emergenti nei territori.

Con il lockdown le Regioni sono state chiamate a un’inedita funzione di contrappeso al potere dei Dpcm e al temporaneo affievolimento delle prerogative parlamentari

Sono questi gli anni in cui, in particolare nel Veneto, accanto all’affermazione autonomistica che introduceva nello Statuto – caso unico in Italia – la nozione di “autogoverno del popolo veneto”, si avviava la grande stagione della programmazione: da quella dello sviluppo a quella territoriale, passando per quella dei trasporti. Anni in cui furono buttate le basi di quelle che sarebbero state: la formazione professionale, le politiche del lavoro e, soprattutto dopo la riforma del 1978, le politiche della salute. È utile ricordare, tanto più alla luce delle recenti vicende, che in materia di salute gli indirizzi generali e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni vennero posti in capo allo Stato, mentre alle Regioni furono attribuite le competenze in materia di organizzazione e di gestione. Questo produsse, in virtù delle diverse sensibilità, dotazioni di capitale sociale, cultura della sussidiarietà e culture di autogoverno, modelli che fornirono, anche nella gestione della pandemia, esiti diversamente resilienti e performanti.

La stagione 1990-2001 fu quella in cui si avvertirono forti le spinte all’attribuzione di maggiori poteri dallo Stato alle Regioni, anche a seguito delle istanze di rivendicazionismo radicale che in quegli anni arrivarono a perseguire processi separatisti. La Padania e il simulacro di Parlamento del nord ricordano ancora oggi le tensioni di quella stagione. Furono gli anni in cui, accanto al trasferimento di competenze verso le Regioni attuato dai decreti Bassanini, prese forma la Conferenza Stato-Regioni quale sede di mediazione e armonizzazione delle politiche in un clima di leale collaborazione. Fu in questa fase che, analogamente all’elezione diretta dei sindaci, venne introdotta l’elezione diretta dei presidenti, su cui sarebbe necessario riflettere per gli effetti che ha prodotto sul ruolo delle assemblee legislative e dunque sui processi democratici.

La modifica del Titolo V della Costituzione del 2001 segna la terza fase nella vita delle Regioni, con l’attribuzione di competenze concorrenti con lo Stato. Una stagione contrassegnata da conflitti spesso generati da un riparto che ha finito per attribuire funzioni che per definizione apparterrebbero allo Stato centrale, quali – solo per citarne alcune – le grandi reti di trasporto e di navigazione, i porti e aeroporti civili, la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia. Questa stagione, in particolare gli ultimi quattro anni, è anche quella della bocciatura delle riforme costituzionali che si proponevano di rimettere ordine nel riparto di competenze (2016), e della cosiddetta “autonomia differenziata”.

Il passaggio all'autonomia differenziata diventerà un banco di prova per misurare le diverse capacità delle classi dirigenti regionali di far crescere i propri territori

Si tratta di un processo che ha visto quali iniziali protagoniste proprio le tre Regioni che più di altre sono state investite dalla pandemia: Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia. Pur non essendo la discussione ancora approdata a un esito definitivo – al di là dell’accordo preliminare sottoscritto con il governo Gentiloni – si può dire che nel corso degli ultimi quattro anni il confronto abbia portato a un cambiamento di prospettiva, sia da parte dello Stato che delle Regioni.

Il caso Veneto è in questo senso emblematico. Nonostante l’iniziale approccio dal vago sapore indipendentista (vanno ricordati a questo proposito le originarie proposte referendarie bocciate dalla Consulta, oltre ai continui riferimenti alla Catalogna e al suo referendum svoltosi in quegli stessi giorni, nell’ottobre 2017), il confronto è rientrato all’interno di una cornice nazionale che riconosce a tutti i cittadini della Repubblica gli stessi diritti civili e sociali e le medesime prestazioni. In questo senso le competenze trasferibili, su cui si concentra la discussione, rimandano a ciò che le Regioni possono gestire e organizzare meglio dello Stato, e le richieste avanzate ai sensi dell’articolo 116 Cost. in materia di sanità, a dimostrazione dell’utilità di questa discussione, sono state anticipatrici di ciò che è avvenuto in piena pandemia. Anche i riferimenti ai “residui fiscali” da trattenere, utili per una certa narrazione politica, sono via via scomparsi, assomigliando, nel contesto europeo di queste settimane, alle inaccettabili pretese dei cosiddetti “Paesi tirchi”, o frugali, rispetto ai Paesi del sud Europa.

Il passaggio dall’uniformità alla differenziazione, e il conseguente esercizio della responsabilità, diventerà dunque un banco di prova per misurare le diverse capacità delle classi dirigenti regionali di far crescere i propri territori.

Questa ricostruzione, necessariamente per titoli, rimanda alla fisionomia delle Regioni nel prossimo futuro e al loro rapporto con lo Stato. Sono questioni che ci riguardano tutti, tanto più in vista delle future elezioni, perché la ripresa dopo il lockdown avrà bisogno del massimo di sinergia fra le diverse istituzioni, Comuni compresi, verso cui tutte le Regioni hanno mostrato limiti rilevanti.

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