SOCIETÀ

Se “Adolescence” tocca l’anima il merito non è (solo) suo

Com’era prevedibile, dopo le smentite si inizia a parlare di un seguito di Adolescence, la miniserie Netflix uscita a metà marzo che, in poche settimane, è salita al terzo posto tra le serie in inglese più viste di sempre sulla piattaforma di Los Gatos. La storia del teenager omicida Jamie Miller, ad oggi, ha totalizzato oltre 136 milioni di views, una misura che vorrebbe essere indicativa del numero complessivo di utenze che hanno scaricato interamente l'opera: la realtà è diversa, ma non c’è dubbio che il successo della serie (visualizzata ad oggi per 522,5 milioni di ore) sia planetario, e il fatto che un prodotto di qualità notevole rivaleggi con lavori di bassa macelleria ottimamente confezionati alla Squid Game è già un elemento di riflessione.

Ma Adolescence è molto più che una serie tv. In poche settimane di presenza su Netflix, la produzione angloamericana scritta da Jack Thorne e Stephen Graham e diretta da Philip Barantini è divenuta un caso mondiale: i quattro episodi, oltre a recensioni di livello quasi imbarazzante (il Guardian lo ha definito il lavoro televisivo “più vicino alla perfezione da decenni”) hanno suscitato un dibattito che ha trovato copertura amplissima ovunque, e i critici hanno ceduto la mano a psicologi, sociologi, medici, insegnanti, pedagogisti. Siamo di fronte a uno dei rari casi in cui, nella selva del caos social e dei titoli che assediano quotidianamente il menu degli utenti-spettatori, un’opera riesce ancora a farsi largo e stimolare intellettuali, professionisti e opinion maker a trarne spunto per discussioni culturali e di attualità. È lecito, quindi, chiedersi perché questo sia avvenuto, e come abbia fatto questa miniserie a incidere così profondamente sulla discussione pubblica (un solo esempio: nel Regno Unito, il premier Keir Starmer ha incontrato autori e produttori di Adolescence e ne ha promosso la visione in tutte le scuole superiori della nazione). Si tratta di un capolavoro senza pari, come sostiene il Guardian? È l’opera definitiva sulle problematiche e le sofferenze dei giovanissimi di oggi? Proviamo, dopo che la valanga di giudizi in fotocopia ha iniziato a esaurire il suo impeto, ed è terminata la corsa a dire la propria da parte di chiunque si sentisse competente, a valutare Adolescence senza preconcetti.

Se dovessimo giudicare Adolescence dal suo incipit, concluderemmo che è un prodotto di ottima fattura analogo a moltissimi altri. La serie (quattro puntate) si apre con la sequenza del blitz dei poliziotti in casa di Jamie per arrestarlo. 17 minuti avvincenti, diretti benissimo, e però visti un milione di volte: a partire dal prologo, con gli agenti Luke e Misha che all’alba, chiusi in macchina, si scambiano confidenze, malinconie e malumori nei secondi che precedono l’intervento. Non mancano concessioni trash al puro genere poliziottesco (una sonora eruttazione di Luke che provoca il disgusto di Misha) e accenni mélo (il difficile rapporto tra l’agente Luke e il figlio, costellato di silenzi e incomprensioni). Segue il blitz, in cui un numero imprecisato di agenti speciali in assetto di guerra assalta una tipica casetta inglese per scovare e assicurare alla giustizia il minorenne indagato: scena d’azione impeccabile, che echeggia tutti i topos del genere (il contrasto tra la quiete modesta del quartiere piccoloborghese e la sproporzionata violenza dell’azione, il terrore dei familiari incolpevoli di Jamie, l’incredulità, le urla, le proteste angosciate, la concitazione delle formule di rito enunciate all’arrestato sui suoi diritti), fino alla materiale chiusura di Jamie nel furgone blindato, la cui corsa è accompagnata, all’esterno, dalle grida disperate di Eddie, il padre di Jamie, nel tentativo di rassicurarlo. 

Sappiamo bene quanto i primi minuti di una serie tv possano decidere le sorti commerciali dell’intera opera: in questo senso Adolescence va sul sicuro, spacciandosi per ciò che non è (un thriller giudiziario con largo spazio all’azione) pur di catturare un pubblico indifferenziato, attratto dalla drammaticità e dal ritmo della scena d’apertura; a favorirli, il celebrato ricorso alla tecnica del piano sequenza “integrale”, carattere estetico dominante dell’intera serie (ognuno dei quattro episodi è un’unica sequenza priva di stacchi) e di grandiosa efficacia nel creare partecipazione emotiva e visiva nello spettatore. Una volta agganciato il grande pubblico, la serie può liberarsi dagli archetipi obbligati, e dispiegare la sua struttura: quattro episodi monotematici, che seguono la vicenda principale (l’accusa contro il giovanissimo Jamie, imputato di aver accoltellato a morte Katie, una compagna di classe, getta nel dolore la famiglia piccoloborghese di lui e svela il vuoto esistenziale della sua generazione).

Ciascun episodio è incentrato su un tema: l’arresto e l’interrogatorio di Jamie; le indagini dei poliziotti nella scuola di Jamie; il colloquio tra Jamie e la psicologa forense; la famiglia di Jamie alla vigilia del processo. Non c’è dubbio che Adolescence crei un affresco di grande raffinatezza estetica e impatto emotivo su un tema attualissimo e di estrema delicatezza, il disagio esistenziale degli adolescenti schiacciati tra incomprensione degli adulti, bullismo, isolamento, social, sofferenze inespresse. L’ambientazione è in una periferia del nord dell’Inghilterra, base di un ceto popolare ma senza disagio economico (il padre ha una piccola impresa di lavori idraulici), e l’ambito familiare in apparenza è senza gravi problemi (i genitori Eddie e Manda e la sorella Lisa conducono una vita serena). Andando più in profondità ad analizzare l’intreccio, quali sono i tasti sensibili che la serie tocca? Ed è il caso di dire che il ritratto generazionale che ne esce è davvero di grande complessità psicologica e sociale? 

Scarnificando selvaggiamente la trama, i nodi essenziali che ne emergono sono in numero limitato. Dalle indagini emerge che Jamie aderisce al pensiero “incel”, proprio dei ragazzi che si sentono frustrati per l’impossibilità di avere una partner e reagiscono denigrando e svilendo il mondo femminile: una corrente che alimenta il flusso della “manosfera”, l’insieme delle risorse online provenienti da ambienti maschili misogini e antifemministi (in Adolescence viene citato un vero influencer misogino, Andrew Tate). Jamie, bullizzato dalla vittima per la sua condizione, sarebbe dunque il frutto della violenza insita in questa subcultura, che (non a caso) viene svelata a Luke, il poliziotto responsabile delle indagini, dal proprio figlio Adam, compagno di scuola di Jamie: gli adulti non possono comprendere né sanno comunicare (Adam spiega a Luke il lessico dei social, composto da icone e termini intellegibili solo dai ragazzi); e dunque solo tra coetanei è possibile lo scambio e la condivisione di valori (o disvalori).

I genitori di Jamie, né cattivi né insensibili, hanno però commesso lo sbaglio decisivo di sottovalutare la mancanza di comunicazione e i lunghi silenzi da parte del figlio. La violenza, tra gli adolescenti, cova ovunque: si può esprimere con i pugni sferrati dalla migliore amica della vittima a un compagno di Jamie, accomunato all’assassino nell’odio per la perdita dell’amica; oppure può esternarsi nel dileggio verso i familiari di Jamie (il furgone del padre viene deturpato con una scritta insultante, come se la colpa di Jamie ricadesse sul genitore). Connotazione essenziale: è una violenza inconsapevole, automatica, frutto della totale mancanza di empatia e consapevolezza di una generazione le cui relazioni sono forgiate dai social. Quanto alla scuola, viene dipinta come un girone d’inferno, in cui l’autorità non esiste, imperano il bullismo e le alleanze contrapposte tra ragazzi, e i migliori docenti appaiono disarmati di fronte a tanta aggressività. Infine, l’apparente assenza di correlazione tra il profilo morale dei genitori e quello dei figli: Adam, il figlio del poliziotto, è bullizzato e isolato quanto Jamie, ha un genitore che lo ama come Jamie, e come Jamie rifiuta di comunicare con il padre. Come dire che se uno dei ragazzi diverrà un criminale e l’altro no, si deve ben più al caso che al background sociofamiliare.

Questo insieme di temi viene illustrato nel corso dei quattro episodi con modalità differenti, talora ricorrendo alla violenza esplicita (la vendetta dell’amica di Katie, l'estrema aggressività verbale di Jamie durante il colloquio con la psicologa), talora con colloqui intessuti di silenzi pesantissimi, rimpianti, sensi di colpa, in cui la dinamica genitori-figli appare destinata sempre e comunque al fallimento, malgrado gli sforzi.

Possiamo quindi affermare, in sintesi, che i temi forti di Adolescence sono innovativi e rivelatori? È difficile sostenere che i pochi argomenti che abbiamo elencato non siano da tempo oggetto di riflessione e dibattito su tutti i principali media generalisti. Le molte testimonianze di disagio adolescenziale, dalle più tragiche alle più lievi, dagli omicidi al dileggio dei docenti, dal bullismo al malessere psicologico, costringono i media ad occuparsi costantemente della fragilità delle generazioni più giovani. Ma allora, se conveniamo che Adolescence non è la parola definitiva sui problemi degli adolescenti di oggi, ma semplicemente un’opera di ottimo livello, diretta e recitata in modo magnifico, scritta con efficacia e con tutte le astuzie che la rendono un lavoro di confine tra essai e grande intrattenimento; se tutto questo è vero, perché l’effetto sul dibattito pubblico è stato così dirompente? Ognuno può formulare le sue ipotesi. Potremmo pensare che in un’epoca in cui dominano i messaggi urlati e lo scontro tra fazioni a tutti i livelli (mondo digitale incluso), un messaggio toccante e spettacolare sulla sofferenza più crudele, quella di coloro che amiamo senza riuscire a salvarli, abbia inciso sulle coscienze più di tante notizie reali. Rimane un dubbio: se la Top 10 di Netflix si divide tra il sadismo di Squid Game e la pietà di Adolescence, significa che il pubblico mondiale è bipolare. O indifferente.

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