Cranio di Homo heidelbergensis. Foto: Ryan Somma/Flickr
Che la storia evolutiva della nostra specie non sia stata lineare è ormai un fatto ampiamente dimostrato dalle analisi paleoantropologiche – morfologiche, ecologiche, genetiche e archeologiche – del nostro passato più antico. Molto, però, rimane ancora da scoprire delle svolte evolutive che hanno portato, nel tempo, all’emergere della specie Homo sapiens. Secondo una ricerca pubblicata su Science e firmata da un gruppo di ricercatori cinesi e italiani, sarebbe possibile identificare almeno un momento di profonda crisi nella storia ancestrale che precede l’origine della nostra specie.
In base all’analisi genetica di un ampio campione (raccolto da una coorte di più di 3.000 individui) di DNA umano contemporaneo, realizzata grazie a un nuovo metodo bioinformatico denominato FitCoal, i ricercatori hanno ricostruito quella che sembra essere una profonda strozzatura demografica, risalente a circa 930.000 anni fa, che avrebbe portato a una significativa riduzione della diversità del patrimonio genetico delle specie da cui, centinaia di millenni dopo, sarebbe emerso H. sapiens. Secondo i dati elaborati dagli studiosi, la popolazione umana ancestrale che subì questa drastica riduzione della propria diversità genetica si sarebbe avvicinata all’estinzione: per più di centomila anni, infatti, la popolazione attiva dal punto di vista riproduttivo non avrebbe superato i 1280 individui. La ragione – o una delle ragioni – di questo drammatico evento dovrebbe essere ricercata nel repentino cambiamento climatico verificatosi proprio in quel periodo, caratterizzato da un raffreddamento dell’emisfero boreale, con un rapido avanzamento dei ghiacciai e una diminuzione del livello dei mari, e un inaridimento nelle regioni tropicali.
L'intervista completa a Giorgio Manzi. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar
Giorgio Manzi, docente di paleoantropologia all’università La Sapienza di Roma e coautore della ricerca, spiega che «questo collo di bottiglia genetico e demografico ha a che fare con il successivo destino di quella popolazione, da cui noi deriviamo». Non bisogna dimenticare – specifica il paleoantropologo – che per lungo tempo vi fu una coesistenza tra diverse specie umane, le quali misero in campo risposte diverse di fronte alle stesse sfide ambientali. «Alcune di queste specie si estinsero in quel periodo: riteniamo che questo sia stato il destino di Homo antecessor, una specie che era presente in Europa. Altre, invece, superarono quella strettoia climatica e sopravvissero anche successivamente, pur non avendo lasciato discendenza. Potrebbe essere il caso di un’altra specie umana estinta, nota come Homo naledi, presente in Sudafrica fino a 300.000 anni dal presente. Questo suggerisce che anche questa specie abbia superato la crisi climatica (a differenza di H. antecessor in Europa) pur non lasciando discendenza, e non avendo dunque influito sulle nostre origini».
La specie su cui sarebbero visibili le conseguenze della riduzione genetica e demografica di cui si parla nell’articolo è, con ogni probabilità, Homo heidelbergensis. «Si trattava di una specie ampiamente distribuita in Africa e poi anche in Eurasia – spiega Manzi – tanto da dare origine a tre “discendenti”: uno siamo noi, Homo Sapiens, originati successivamente in Africa; un altro è il ben noto H. neanderthalensis, originatosi in Europa; il terzo sono i cosiddetti Denisova, un gruppo umano per il quale non è ancora stata proposta una denominazione tassonomica e che conosciamo soprattutto dal punto di vista genetico». Secondo gli autori, H. heidelbergensis sarebbe comparso circa 800.000 anni fa, proprio in corrispondenza del periodo di asperità climatica. Questo è un altro elemento interessante che sembra emergere dai dati genetici presentati nella ricerca: «L’aver superato questa ‘strettoia’ potrebbe aver contribuito a modificare, in alcune popolazioni preesistenti (probabilmente di una specie che chiamiamo H. ergaster), determinate caratteristiche che avrebbero poi reso la nuova specie umana (cioè H. heidelbergensis) più capace di altre di affrontare le sfide ambientali, fornendole le risorse biologiche e probabilmente anche comportamentali per diffondersi geograficamente in Africa e poi in Eurasia».
Secondo Giorgio Manzi, questo evento di speciazione, che si colloca in un periodo di apparente crisi demografica per le popolazioni umane ancestrali, potrebbe essere spiegato alla luce della teoria macroevolutiva degli equilibri punteggiati, sviluppata dai paleontologi Stephen J. Gould e Niles Eldredge negli anni Settanta del Novecento. «È proprio durante il lungo periodo di frammentazione delle specie umane, allora esistenti in piccoli gruppi (probabilmente composti da 20-30 individui), che, di fronte alle difficili condizioni ambientali, pur protetti in qualche rifugio ecologico, potrebbero essersi sviluppate le condizioni genetiche per cui si sarebbe verificato un fenomeno di speciazione», afferma il paleoantropologo.
Lo studio pubblicato su Science contiene senza dubbio diversi elementi di novità, ma soprattutto offre una nuova cornice interpretativa per comprendere i dati relativi a quell’epoca. Il metodo di analisi genetica FitCoal appare promettente. Come ha dichiarato a Il Bo Live Olga Rickards, paleoantropologa dell’università Tor Vergata di Roma, non coinvolta nella ricerca, «si auspica che il FitCoal venga applicato anche ai dati genomici di popolazioni del passato, non solo di H. sapiens ma anche di Neanderthal e di Denisova, e – si spera – di altri nostri antenati di cui al momento non abbiamo a disposizione dati molecolari, per confermare e chiarire le dinamiche e la portata degli eventuali fenomeni di collo di bottiglia messi in evidenza dal lavoro di Hu e collaboratori».
Le direzioni di ricerca che questo lavoro apre sono diverse. In particolare – e questa è anche una delle principali critiche mosse allo studio – le conclusioni elaborate sulla base dell’analisi genetica dovranno essere validate anche alla luce di conoscenze di altro tipo, come i dati archeologici e le prove fossili a disposizione (non numerose, ma comunque esistenti per quel periodo), risalenti all’epoca in cui il collo di bottiglia si sarebbe verificato.
Al di là dei dubbi che ancora rimangono, questa ricerca, come la maggior parte delle ricerche paleoantropologiche più recenti, rappresenta un’ulteriore prova del fatto che la storia evolutiva della nostra specie non possa essere rappresentata come un percorso lineare, in cui un susseguirsi di specie sempre più derivate ha infine portato all’emergere di H. sapiens. «Questo lavoro conferma, al contrario, che la storia dell’evoluzione umana è caratterizzata da strozzature, riaperture, divaricazioni e separazioni evolutive», aggiunge Manzi. «Si è trattato di una storia complessa, con periodi in cui si verificarono eventi macroevolutivi – quasi dei ‘salti quantici’ (per usare una metafora) da una specie preesistente a una nuova, con periodi di coesistenza tra la specie madre e i gruppi che da essa si sono separati, in alcuni casi con fenomeni di ibridazione. È importante imparare a identificare e riconoscere l’importanza di questi momenti chiave, di grande cambiamento, che si possono rivelare estremamente generativi dal punto di vista evolutivo».