SCIENZA E RICERCA
Ricerca agricola: dobbiamo fare più attenzione ai piccoli agricoltori
Foto: Ceres2030
Tanta ricerca per nulla. O quasi. Ovviamente è un'affermazione provocatoria, ma solo fino a un certo punto. La stragrande maggioranza degli articoli scientifici, e quindi della ricerca scientifica, che trattano di agricoltura, innovazione e miglioramento delle pratiche colturali, di gestione del suolo, di uso della genetica e delle biotech green e via dicendo, sono molto poco utili alla stragrande maggioranza degli agricoltori del mondo. Che avrebbero sì bisogno di innovazione, ma di una innovazione che nasce da una analisi accurata dei loro bisogni e della loro specifica situazione produttiva, ambientale, colturale e via dicendo.
A dirlo non è il fricchettone di turno contrario alla scienza o il nostalgico di una mitologica visione di natura spesso oggetto di derisione da parte di chi propone a spron battuto una idea di agricoltura sempre più industrializzata e iper tecnologica. Sono quasi 80 ricercatori ed esperti, provenienti da diverse università, centri di ricerca e organizzazioni della società civile di tutto il mondo, che hanno fatto una intensa revisione delle pubblicazioni scientifiche riguardanti il mondo dell’agricoltura con un focus particolare sulle questioni alimentari. Un metodo simile a quello dell’IPCC, dunque.
In questo caso, i ricercatori di diversi discipline sono riuniti in un consorzio chiamato Ceres2030, e hanno lavorato per anni facendo una raccolta e revisione di quanto prodotto dalla ricerca. Il report, così come i vari risultati delle review specifiche per ogni settore disciplinare con indicazioni precise e soluzioni possibili, sono stati pubblicati non solo sul sito dell’organizzazione ma anche sui giornali del gruppo Nature, riuniti sotto un editoriale uscito nei giorni scorsi dal titolo inequivocabile: «Ending hunger: science must stop neglecting smallholder farmers» («Porre fine alla fame: la scienza deve smetterla di trascurare i piccoli agricoltori»).
Produrre di più non basta
Molto meno noto dell’IPCC, ma non meno ambizioso, Ceres2030 lavora attorno a otto questioni prioritarie e mette in campo strumenti sofisticati di analisi automatizzata, in altre parole di intelligenza artificiale, per individuare le centinaia di migliaia di ricerche pubblicate in ambito agronomico, ambientale, geo-politico ed economico che forniscano dati, ipotesi di lavoro, soluzioni innovative e via dicendo per affrontare uno dei temi più pressanti e urgenti, quello della fame nel mondo. Una priorità assoluta, ovviamente, visto che sono poco meno di un miliardo le persone che ancora oggi non mangiano a sufficienza in tutto il pianeta. Ma un problema che non si risolve semplicemente producendo di più, purtroppo.
La domanda centrale del progetto Ceres2030 è dunque cosa si possa fare per mettere fine alla fame e le risposte stanno, almeno in prima battuta, in otto diverse aree di intervento che si rivelano efficaci sulla base di prove di evidenza raccolte attraverso una intensa e massiccia analisi della letteratura scientifica disponibile (riassunta nell’infografica con i link a ciascuna area).
Alla fine di una prima fase di raccolta di oltre 500mila pubblicazioni, i 78 ricercatori provenienti da 23 paesi e 53 organizzazioni diverse ne hanno selezionate circa 100mila e le hanno analizzate, un lavoro che ha richiesto tre anni per essere completato.
E come capiamo anche dal titolo dell’editoriale di Nature, una delle questioni centrali che il rapporto mette in grande evidenza, è che c’è una forte discrepanza tra la gran parte degli obiettivi delle ricerche intraprese dal mondo accademico e industriale globale e le vere necessità, nonché le più efficaci soluzioni per rispondere alle esigenze della grandissima parte degli agricoltori globali. In altre parole, molta parte delle ricerche guardano altrove.
Nell’editoriale leggiamo infatti che “The team was able to identify ten practical interventions that can help donors to tackle hunger, but these were drawn from only a tiny fraction of the literature. The Ceres2030 team members found that the overwhelming majority of the agricultural-research publications they assessed were unable to provide solutions, particularly to the challenges faced by smallholders farmers and their families”.
In altre parole, i ricercatori trovano che solo una minima parte delle pubblicazioni analizzate offra soluzioni e risposte concrete alle sfide che la gran parte dei piccoli agricoltori devono affrontare.
“ La maggioranza delle pubblicazioni di ricerca in ambito agricolo valutate non sono in grado di fornire soluzioni, in particolare alle sfide affrontate dai piccoli agricoltori e dalle loro famiglie Ceres2030 Team
Il problema della fame cronica
Ending hunger: what would it cost? Un video prodotto dall’International Food Policy Research Institute (IFPRI) e dall’International Institute for Sustainable Development (IISD).
Sono troppi quelli che hanno fame nel mondo
Il problema della fame nel mondo non è nato oggi. Ma nemmeno secoli fa. Se ne è iniziato a parlare negli anni ‘70 del Novecento ed è da subito risultato chiaro che fosse il risultato di diversi fattori che si intrecciano: la crescita demografica, l’incapacità di produrre e distribuire abbastanza cibo, le questioni climatiche, senz’altro più urgenti negli ultimi 20 anni e che hanno già causato perdite immense di raccolti ma anche di terre coltivabili. Ci sono fattori meno noti e discussi apertamente che derivano direttamente dall’esperienza coloniale, come il tema dell’accesso alla terra: in molti paesi del Sud del mondo i colonizzatori hanno requisito ed espropriato la gran parte delle terre alle popolazioni autoctoneindigene e nemmeno la costruzione di stati indipendenti negli ultimi 50-60 anni ha rimesso a posto le cose per cui oggi ci sono milioni di contadini che non hanno diritto di proprietà sulle terre su cui vivono da sempre.
Alla fine, oggi ci sono più di 700 milioni di persone che sono affamate, letteralmente, e cioè che vivono in una situazione di grave carenza alimentare. Come vediamo dal grafico qui sotto, i dati FAO danno anche indicazione di quante sono le persone che sono comunque in una situazione di insicurezza e quelle che sono malnutrite. Tutte diverse situazioni accomunate da un elemento di fondo: poco meno di un terzo della popolazione mondiale non ha di che mangiare regolarmente e bene o non sa se potrà fare anche in futuro.
Come non è difficile immaginare, le persone a rischio malnutrizione o fame nel mondo non sono distribuite in modo omogeneo: ci sono aree del pianeta in cui questo problema è assai più acuto, come vediamo dal grafico qui sotto.
Ciò non toglie che i numeri siano importanti persino nei cosiddetti paesi ad alto reddito medio, a testimonianza della disuguaglianza socio-economica sempre più marcata in tutte le regioni del mondo.
Un altro modo di guardare al problema è quello dell’adeguatezza o meno della quantità di calorie ingerite, e quindi di approvvigionamento energetico. I dati della media 2017-29 mostrano chiaramente che sono ancora i paesi del Sud del mondo quelli dove si mangia, in media, troppo poco.
I grandi protagonisti della produzione di cibo, i piccoli agricoltori e i family farmers
Per dare un’idea corretta della situazione, va sottolineato che i piccoli agricoltori e le aziende agricole di scala familiare non sono una sparuta minoranza, sono al contrario poco meno di mezzo miliardo al mondo su circa 570 milioni di agricoltori in totale. E sono loro quelli che producono l’80% del cibo disponibile al mondo. Questo dicono i dati della Food and Agriculture Organization (FAO) che, dopo averli per la prima volta finalmente riconosciuti a gran voce come i veri protagonisti della produzione alimentare globale nel 2014 nell’annuale The State of Food and Agriculture, ha lanciato lo scorso anno la Decade del family farming stilando un vero e proprio Global Action Plan con l’idea di promuovere 7 pillars, 7 azioni-chiave per riportare i piccoli agricoltori al centro dell’attenzione dove è corretto che stiano quando parliamo di agricoltura.
Video della FAO sul Famili Farming
L’impatto dell’agricoltura sul clima
Un tema centrale alla questione della produzione agricola è anche il suo impatto sul clima e quindi sulla crisi ecologica che stiamo vivendo. Il rapporto speciale 2019 IPCC and Land use ha stimato nel 23% il peso delle emissioni del comparto agricolo sul totale.
Parte di questo peso deriva dalla attività agricola vera e propria, una parte consistente dall’allevamento, un’altra parte dalla distribuzione su larga scala tipica dell’agricoltura di stampo industriale e infine una parte consistente anche dallo spreco. Se lo spreco alimentare fosse un paese, diceva un documento dell’ISPRA sull’argomento, sarebbe il terzo emettitore al mondo.
Tra le soluzioni indicate dalle FAO e dall’IPCC nel loro rapporto speciale c’era una maggiore attenzione alle pratiche di agroecologia. Coltivazioni meno intensive, e sistemi di produzione e consumo locale, hanno il pregio di ridurre il grande consumo di combustibili fossili. Certo, produrre di più come sarà necessario, visto l’aumento previsto della popolazione, non può passare dall’utilizzare più terra coltivabile di quanto già non facciamo, altrimenti perderemmo ancora più foresta e quindi l’impronta ecologica dell’agricoltura diventa insostenibile. Si tratta dunque di trovare il giusto mix di soluzioni sostenibili, tra produzioni intensive realizzate con tecnologie a impatto più ridotto e sistemi di produzione locale che puntano sulla diversità, la gestione agro-ecologia e tecnologie meno sofisticate ma più adatte alla realtà della stragrande maggioranza degli agricoltori del mondo. Che non sono tipicamente industriali.
Identikit dei piccoli agricoltori
I dati, usati dalla FAO nel 2014 e poi pubblicati nel 2016 anche dai tre economisti FAO che li avevano raccolti e analizzati, Sarah K. Lowder, Jakob Skoet e Terri Raney, sulla rivista scientifica World Development, parlano chiaro anche se non sono semplici da interpretare data la complessità e diversità dei sistemi agricoli mondiali. Nella stragrande maggioranza dei casi sono le piccole aziende e le aziende familiari a produrre il cibo che la popolazione mondiale mangia, per quanto ci siano immense variazioni da regione a regione. Solo in Nord e in Sud America le piccole aziende si fermano all’80% del totale, mentre nel resto del mondo rappresentano oltre il 90% del totale dei produttori agricoli.
Ma piccoli agricoltori e aziende familiari non sono due concetti sempre sovrapponibili. Il parametro centrale, che aiuta a stimare il loro peso nella produzione alimentare è in realtà quanta terra effettivamente coltivano rispetto alle grandi aziende. Come vediamo nel grafico sottostante, il totale delle aziende agricole nel mondo è stimato in circa 570 milioni. Di queste, 500 milioni sono aziende a conduzione familiare e 475 sono aziende piccole e piccolissime, con una superficie attorno o inferiore ai 2 ettari. In definitiva, un po’ meno del 90% delle aziende sono a conduzione familiare e poco più dell’80% circa sono gestite da piccoli agricoltori. Dunque sì, in molti casi l’azienda a conduzione familiare è anche piccola, ma non è sempre così, e la differenza tra paese e paese in questo senso è enorme.
La dimensione della terra
D’altro canto, il dato che rimane centrale è che quell’84% di piccoli produttori coltiva in totale solo il 12% della terra coltivata. Ciò rende difficile capire se siano effettivamente loro a produrre l’80% del cibo mondiale. L’insieme delle aziende familiari coltiva però il 75% delle terre agricole. E quindi in mezzo a un mare magnum di piccoli e piccolissimi agricoltori, ci sono evidentemente anche aziende familiari che producono su grandi estensioni. Sono dunque loro i responsabili della produzione alimentare mondiale?
Rispondere a questa domanda non è così facile, in realtà. Non ci aiuta stare sulla dimensione globale ed è necessario scendere a quella regionale. Lowder e i suoi colleghi sostengono infatti che le analisi effettuate in diversi paesi dimostrano che è plausibile che la coltivazione diretta di piccoli appezzamenti possa avere una resa più elevato per ettaro, rispetto a una grande azienda molto estesa. Ma le differenze sono enormi a seconda delle realtà locali. E quello che è considerata una piccola estensione di terra in una regione del mondo può invece sembrare molto grande da un’altra parte.
D’altronde questo è vero anche molto vicino a casa nostra. La dimensione media di una azienda italiana è piuttosto bassa, sotto gli otto ettari. Il censimento dell’agricoltura del 2010 ci dice che in Italia ci sono oggi circa 1,6 milioni di aziende agricole, un numero in netta diminuzione rispetto alle decadi precedenti, alle spese delle aziende più piccole. Meno aziende, un po’ più grandi. Le aziende del nord, in totale circa la metà di quelle del Sud, hanno una dimensione media più importante, attorno ai 15 ettari, contro i 5 ettari di quelle meridionali. Ma, soprattutto, le aziende agricole del Nord producono oltre il 50 per cento del valore agricolo nazionale. Basta però andare al di là delle Alpi e le dimensioni delle aziende italiane sembrano minuscole rispetto alla media di quelle francesi, che si attestano sui 30 ettari per azienda. E così capita di intervistare un piccolo agricoltore familiare francese che ci spiega che la sua azienda, di 70 ettari, dà da mangiare a due famiglie, per un totale di 4 persone, mentre aziende molto più piccole in Italia sostengono numeri di persone ben più elevati.
Ci sono diverse zone del mondo dove la terra si sta concentrando in sempre meno mani e altri dove questo non avviene. Nei paesi a basso reddito, soprattutto in Asia, le aziende si sono per così dire rimpicciolite tra il 1960 e il 2000. Un trend analogo si è visto in America Latina, ma dal 1990 in poi le dimensioni hanno ripreso a salire, per fusione e accorpamento di molte aziende. Nei paesi ad alto reddito, la dimensione media delle aziende è andata aumentando dalla fine del XX secolo. C’è anche una forte pressione, per esempio nel nostro paese, da parte delle aziende più estese e delle grandi corporations ad aumentare la dimensione aziendale per ottimizzare i processi produttivi. Ma nei paesi a basso reddito, come in molti paesi dell’Asia orientale e del Sud (esclusa la Cina per la quale mancano molti dati) e nell’Africa subsahariana circa il 70-80% dei piccoli agricoltori possiedono meno di 2 ettari di terra ma gestiscono complessivamente il 30-40% delle terre coltivate. In questi casi, dunque, dire che sono i piccoli agricoltori a produrre la maggior parte del cibo, perlomeno quello consumato a livello locale e regionale, è probabilmente molto corretto.
Al di là di questi distinguo, quello che è chiaro leggendo i risultati del rapporto Ceres2030 è che troppo spesso la ricerca scientifica agronomica, fatta soprattutto nelle Università e nei centri di ricerca dei paesi ad alto reddito o comunque in quelli dove l’agricoltura è da tempo improntata a una modalità di produzione industriale, non lavori su dati, soluzioni e innovazioni utili a questa enorme quantità di piccoli agricoltori di stampo familiare e quindi, in ultima analisi, sia poco utile per risolvere il problema della fame.
Nei paesi a basso reddito dove la fame è un problema più pressante sono dal 60 all’80% le persone che vivono e lavorano nelle zone rurali. Eppure, dice Nature, «the Ceres2030 researchers found that the overwhelming majority of studies they assessed — more than 95% — were not relevant to the needs of smallholders and their families» (“i ricercatori di Ceres2030 hanno scoperto che la stragrande maggioranza degli studi valutati - oltre il 95% - non era pertinente rispetto alle esigenze dei piccoli proprietari e delle loro famiglie”). Ovvero: più del 95% degli studi non è rilevante o utile per questi agricoltori.
Molti studi, per esempio, si concentrano su una singola innovazione testata in laboratorio, come l’efficacia di un pesticida o di una nuova varietà. Non cercano di migliorare pratiche esistenti analizzandone l’efficacia e modificandone di conseguenza alcuni passaggi chiave. Ma, soprattutto, c’è una grande assenza degli agricoltori nella gran parte della ricerca agronomica prodotta e pubblicata.
“ La gran parte degli studi è stata fatta dai soli ricercatori senza alcuna partecipazione degli agricoltori” Ceres2030 Team
Come mai questa distanza? Secondo gli autori del rapporto questo è dovuto principalmente a un cambiamento delle priorità nei finanziamenti della ricerca agricola. Intanto i finanziamenti oggi arrivano molto di più dal settore privato, con oltre il 50% proveniente proprio dalle aziende dell’agri-business.
Poi, per dirla brutalmente, la ricerca che si focalizza sui piccoli agricoltori non è considerata abbastanza cool, non spinge le carriere accademiche, è vista come meno innovativa, di frontiera, meno accattivante. E quindi le Università che puntano a finanziamenti consistenti e a programmi di ricerca strategica sono poco interessate alla piccola scala, soprattutto alla luce del fatto che i sistemi di valutazione della ricerca prendono sempre più in considerazione anche la capacità di attrarre finanziamenti, come è il caso per esempio anche in Italia. Le innovazioni cosiddette frugali, che talora sono anche a basso costo, finiscono con l’essere penalizzate in questo quadro generale.
Infine, sostiene ancora l’editoriale di Nature, c’è una responsabilità anche degli editori delle riviste scientifiche che tendono a privilegiare e prediligere ricerche considerate più innovative e affascinanti sul piano della tecnologia e dello sviluppo scientifico rispetto a quelle che cercano di risolvere problemi molto concreti anche di piccola scala.
Non è che tutto debba essere di piccola scala, conclude l’editoriale di Nature, ma per raggiungere l’obiettivo tanto ambizioso degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio di mettere fine alla fame è davvero necessario aumentare di un ordine di grandezza la ricerca e il coinvolgimento dei piccoli agricoltori e delle loro famiglie. «I loro bisogni - e quindi la strada per mettere fine alla fame - sono stati negletti troppo a lungo.»