
Un'illustrazione artistica di una possibile futura base marziana. Foto: NASA
Camminiamo e siamo circondati da piante, erba ed alberi. Al mercato, senza nemmeno pensarci, acquistiamo quotidianamente le verdure che ci servono per mangiare: un chilogrammo di pomodori, due o tre etti di insalata, melanzane, peperoni ecc. Chi più ne ha, ne metta: la varietà di frutta e ortaggi non è poca.
Ci sono ambienti, però, in cui tutto questo non è possibile, perlomeno non per come lo immaginiamo sulla Terra. Il cortocircuito è chiaro: e dove altro si dovrebbero avviare coltivazioni di piante? Nello spazio e, poi, a catena, sulle future basi lunari e (un giorno) marziane.
Può sembrare fantascienza, ma l’agricoltura spaziale non solo viene studiata da anni, ma è passo fondamentale per il sostentamento degli equipaggi a bordo di basi e navi spaziali e di colonie su altri pianeti e satelliti.
Qui è necessario un primo avvertimento: cancellare dalla memoria tutte (o quasi) le immagini viste in film ambientati nello spazio. Nonostante i progressi della scienza, è importante – al momento – dimenticarsi di scene con astronavi ricche di piantagioni, aree verdi e simili. Alcune pellicole – quelle più aderenti al presente e alle attuali risorse scientifiche – hanno immaginato con una certa coerenza come sarà fare gli agricoltori nello spazio, ma la maggior parte della fiction è andata decisamente molto in là con la fantasia.
Il trailer di "The Martian", film del 2015 con la regia di Ridley Scott
Per iniziare questo viaggio è meglio rispondere subito alla domanda fondamentale: sì, è possibile fare agricoltura nello spazio, anche se in modo diverso da quanto siamo abituati a vedere nelle nostre campagne. La domanda successiva potrebbe essere: perché farlo? Da anni, ormai, è cominciata la seconda corsa allo spazio e ci sono tutti i presupposti per cui questa si trasformi in quella che sarà la prima presenza fissa della specie umana oltre all’atmosfera terrestre. E allora, oltre ai razzi per raggiungere la Luna e Marte e ai moduli abitativi, servirà anche aver assolto a un compito fondamentale: riuscire a trovare un modo sicuro per procurare cibo a sufficienza agli abitanti dello spazio.
E la ricerca scientifica questo metodo sicuro lo sta sperimentando già da molti anni. Per addentrarci meglio in questo mondo, ci viene in aiuto un agile volume, scritto da Stefania De Pascale ed edito da Aboca: Piantare patate su Marte.
Agile non significa poco profondo. De Pascale, professoressa di Orticoltura e Floricoltura nel dipartimento di Agraria della Federico II di Napoli, riesce – in poco meno di 200 pagine – a raccontare lo status quo della ricerca scientifica nella “spazio coltura”, aggiungendo tocchi di colore nerd con divagazione sulla fantascienza e ricordi attinti dal suo più che ventennale lavoro in questo campo.
È questione di (micro)gravità e tanto altro
Per comprendere l’agricoltura spaziale, bisogna partire dalla Terra. Come noi umane, anche le piante sono nate con caratteristiche plasmate sulla presenza della gravità. Come spiega De Pascale, “la distribuzione degli organismi vegetali sulla Terra è il risultato di un complesso processo evolutivo legato alle esigenze di adattamento all’ambiente terrestre”. Le piante che noi conosciamo per l’agricoltura sono dette “superiori” e si sono sviluppate molto più in ritardo rispetto a quelle nate in ambienti acquiferi. Senza entrare troppo nei dettagli, la gravità ha un ruolo molto importante per le piante: permette, per esempio, lo sviluppo delle radici in verticale verso il basso. Nello spazio tutto questo non può avvenire e le piante risponderebbero a stimoli di crescita diversi e probabilmente poco produttivi per una carenza di nutrienti. E non c’è solo questo aspetto: il pianeta Terra offre a tutte le specie che ci vivono un cappello protettivo. È l’atmosfera, in grado di schermare molte delle radiazioni nocive che invece si muovono liberamente nello spazio. Coltivare una pianta, che si trattasse di una stazione, di una nave spaziale o del suolo marziani, significherebbe dover tenere conto non solo della microgravità, ma anche della risposta a radiazioni ionizzanti che inducono gravi danni agli organismi viventi. Solo da queste premesse, è facile comprendere come la ricerca su questo campo sia molto ampia e comprenda esperimenti a terra, così come in condizioni di microgravità.
Dalle alghe alle “macchine da insalata”
Fin dall’inizio dell’esplorazione spaziale, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, iniziarono anche i primi test di produzione agricola nello spazio. Si trattava di prove su alghe o altre piccole piante. Il vero salto di qualità, al di là delle esperienze pioneristiche, si ha con la costruzione della Stazione spaziale internazionale. Lì, a partire dal 2014 la NASA ha avviato il progetto Veggie con lo scopo di fornire alimenti freschi agli e alle astronaute a bordo. Sono stati così sviluppate le salad machines: apparecchi appositamente progettati per testare la coltivazione di piante a foglia larga, come – appunto – l’insalata o altri tipi di piante, come quelle aromatiche. Come detto, in assenza di gravità ci sono due questioni da risolvere: come irrigare le piante e come fornire loro i nutrienti necessari. Per l’acqua, il sistema studiato prevedeva di far muovere il liquido attraverso un materiale poroso per “capillarità”, sfruttando la tensione superficiale dell’acqua e facendola assorbire alle piante direttamente da queste spugne o simili.
Veggie ed esperimenti successivi, ancora più avanzati, ricorda De Pascale, permettono di rispondere già a una prima domanda: è possibile coltivare nello spazio. Ma, da qui a sostentare coloni spaziali su una navicella o su un altro pianeta, sono necessari molti altri passaggi.

Esperimenti di coltivazioni di piante a foglia larga sulla Stazione spaziale internazionale. Foto: NASA
I sistemi produttivi del futuro
Fino ad ora abbiamo parlato di esperimenti per comprendere e migliorare le nostre capacità di agricoltori spaziali tra insalate, alghe, pomodori e altri ortaggi. Sulla ISS, però, non sono questi ortaggi a sostentare l’intera dieta degli astronauti. La nostra stazione orbitante riceve, infatti, regolari approvvigionamenti di cibo e acqua dalla Terra. Nonostante gli altissimi costi, questo è possibile per la distanza, relativamente piccola, tra il pianeta e l’ISS stessa. Immaginiamo di dover fare la stessa cosa per la Luna e, successivamente per i lunghi viaggi fino a Marte: sarebbe impossibile pensare di alimentare un equipaggio con solo scorte alimentari provenienti dalla Terra sia per il peso, sia per lo spazio di stoccaggio necessario da tenere in considerazione e, infine, per le quantità. A questo aspetto, si deve aggiungere la tecnologia in grado di creare sistemi di coltivazione autosufficienti e funzionanti, per esempio, su Marte.
Le parole chiave sono riciclo, bio-rigenerazione e auto-sostenibilità. Già sulla ISS ci sono sistemi di riciclo per riutilizzare l’acqua e l’aria, ma lo step, per missioni a lungo termine, è decisamente più grande. La ricerca propone di creare degli ecosistemi artificiali, chiamati sistemi bio-rigenerativi di supporto alla vita o anche sistemi ecologici controllati di supporto alla vita. Mimando quanto accade sulla Terra, questi ambienti sono pensati come un sistema chiuso in cui le piante non sono considerate come “mere produttrici di cibo” ma hanno un ruolo fondamentale nella gestione di un ciclo che prevede la produzione di acqua e aria e il relativo riciclo, lo smaltimento dei rifiuti e il loro riutilizzo in un’ottica circolare. Sono diversi i team di ricerca, divisi tra le agenzie spaziali più importanti (NASA ed ESA tra tutte) al lavoro su queste tecnologie, fondamentali per poter arrivare a un auto-sostentamento prolungato nello spazio.

La Stazione spaziale internazionale. Foto: Nasa
Qualità, quantità e prospettive
Intanto c’è da fare una premessa, come sottolinea De Pascale: parlare di cibo nello spazio potrebbe sembrare offensivo se paragonato alle milioni di persone sulla Terra che soffrono di malnutrizione. Ma, sottolinea l’autrice del libro, come spesso accade, rami di ricerca di questo tipo possono avere ricadute importanti anche sulla produzione agroalimentare sul nostro pianeta ed è questo l’auspicio.
Tornando alle piante, una volta risolti i problemi tecnici, rimane da ragionare su quali specie portare in viaggio nella profondità dello spazio. Ci sono vari aspetti da tenere in considerazione: nutrizionali, di sostenibilità, di crescita e di adattabilità tra gli altri. Rispetto ai valori nutrizionali, si dovranno prediligere colture che possano variare l’apporto dei carboidrati e delle proteine per rendere più varia possibile la dieta degli astronauti. Fino ad ora, sulla ISS soprattutto sono stati coltivate con successo lattughe, pomodori, cereali, cavoli, barbabietole e ravanelli. La sfida è quella di produrre ortaggi freschi in quantità e qualità da garantire una reale integrazione nella dieta delle persone, di riuscire a far crescere specie più dispendiose, in termini energetici, di ortaggi a foglia, quali cereali o patate e piante che, come già detto, possano essere utilizzate nei processi bio-rigenerativi di risorse chiave come aria e acqua.
Un primo e vero banco di prova potrebbe avverarsi con il lancio di Artemis III. La missione della NASA prevede l’ambizioso obiettivo di riportare, per la prima volta dal secolo scorso, l’essere umano sulla Luna. A meno di modifiche, il razzo Orion porterà a bordo LEAF (Lunar Effects in Agricultural Flora): suo il compito di osservare gli effetti su fotosintesi, crescita e risposta alle radiazioni delle piante sul nostro satellite. Quando? Il lancio era previsto, inizialmente, per il 2026 ma il programma è già slittato parecchie volte: attualmente, il via libera è fissato alla metà del 2027. In mezzo, si contano – comunque – tantissimi altri esperimenti svolti non solo nello spazio ma in condizioni proibitive in luoghi estremi del nostro pianeta (come l’Antartide).
Stefania De Pascale chiude con alcune considerazioni molto interessanti: una di queste – già citata in precedenza – è la possibilità concreta che gli studi sull’agricoltura spaziale possano avere ricadute molto positive anche sul modo in cui coltiviamo sulla Terra. D’altra parte, non sarebbe la prima né l’ultima volta che esperimenti pensati per le attività fuori dalla nostra atmosfera finiscano poi per essere adottati nella nostra vita quotidiana.
Secondariamente, se dovessimo immaginare da qui a (forse) breve la vita umana in basi lontane e in altri pianeti, si dovrebbe supporre che i primi abitanti non sarebbero propriamente solo degli astronauti ma degli “astro-agronomi”, vista la grande importanza che le piante avranno nella nostra futura vita nello spazio.