SOCIETÀ

I robot sono tra noi. Ma sarà davvero un successo?

Inizia oggi a Pisa il Festival internazionale della robotica, con un centinaio di convegni, spettacoli e mostre incentrati sulle tecnologie dell'automazione e dell'intelligenza artificiale. L'Italia è all'ottavo posto nel mondo per numero di robot installati (7.700), con un tasso di crescita (+19%) molto elevato: come si legge in un recente studio dell'Ocse, un posto di lavoro su due è a rischio, in particolare in quelli meno qualificati dell’industria e delle costruzioni. Le cose, però, non sono così semplici: ci sono due visioni opposte delle tendenze dei prossimi anni.

Per alcuni economisti, come Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee del MIT, la prospettiva si può riassumere così: i robot diventano sempre più efficienti, offrendo significativi vantaggi quando si tratta di lavori di routine manuali, o lavori intellettuali semplici. Al contrario dei lavoratori, la cui performance collettiva non migliora significativamente nel tempo, i robot migliorano, rendendo sempre più probabile un loro impiego anche in aree considerate finora impermeabili alla loro penetrazione, dall’analisi di documenti legali alla cucina.

Non esiste alcuna barriera fondamentale per fermare la marcia dei robot nel mercato del lavoro: quasi ogni impiego, manuale o intellettuale, è a rischio in un’epoca di progressi esponenziali nel calcolo e nella robotica” scrive Illah Reza Nourbakhsh su Foreign Affairs.Un’opinione ancora più radicale l’aveva espressa nel 1983 il premio Nobel Wassily Leontief dicendo che “il ruolo degli esseri umani come principale fattore di produzione è destinato a diminuire nello stesso modo in cui il ruolo dei cavalli nella produzione agricola fu prima ridotto e poi eliminato dall’introduzione dei trattori”.

Per Daniela Rus, infine, non ci sono dubbi: “I robot hanno il potenziale per migliorare grandemente la qualità delle nostre vite a casa, al lavoro, nel divertimento. Robot su misura che operano a fianco della gente creeranno nuovi posti di lavoro, miglioreranno la qualità dei posti di lavoro esistenti e daranno alla gente più tempo per focalizzarsi su ciò che considerano interessante, importante ed eccitante”. 

Non c’è dubbio che, per quanto riguarda il concentrare la nostra attenzione sulle cose “interessanti ed eccitanti” le macchine abbiano fatto passi da gigante: per esempio, qualsiasi smart phone che costi più o meno 500 dollari, cioè circa un terzo del salario mensile netto di un operaio qualificato o di un insegnante, permette di guardare Netflix, di intervenire su Twitter e di pubblicare le foto della propria gattina su Facebook. Mentre scriviamo possiamo ascoltare Purple Rain di Prince e guardare il video di Beyoncé in omaggio ai Black Panthers. Questa macchina portatile, inoltre, ci dice dov’è la Coit Tower a San Francisco, e come arrivarci, oltre a mettere in ordine qualsiasi dato sulle elezioni grazie a Excel (poco pratico da visualizzare ma possibile). Il telefonino non solo permette di scrivere agli amici su WhatsApp ma consente anche di ottenere le previsioni del tempo a Port Barrow, Alaska, e di fare un sacco di altre cose, anche se per il momento non avvisa che è scaduto il latte in frigorifero, che i croccantini sono finiti, che in casa faceva troppo caldo e quindi ha spento il riscaldamento: tutto questo dovrebbe arrivare presto, sotto il nome di Internet of Things.

A queste meraviglie, ben più affascinanti delle calze di seta delle regine, non corrisponde però una vita di ozio e relax come immaginato da Keynes e Schumpeter per i lavoratori americani: al contrario si fatica sempre di più, mentre le impietose cifre degli istituti di statistica ci dicono che la produttività sta crescendo molto lentamente da più di 40 anni, fin dagli anni Settanta: il decennio di rapida trasformazione dell’economia 1995-2004 è stato un’eccezione, non la regola, e ormai quel che ha dato ha dato. 

Molti tecno-ottimisti sottolineano che internet ha permesso la nascita della sharing economy, cioè di piattaforme di condivisione di servizi come Uber (auto con guidatore) e Airbnb (ospitalità in appartamenti). Come osservava nel 2015 Tom Goodwin, “Uber, la più grande ditta di taxi del mondo, non possiede alcun veicolo. Facebook, il più popolare proprietario di media del mondo non crea alcun contenuto. Alibaba, l’impresa commerciale più ricca del mondo, non ha magazzino. E Airbnb, il più grande fornitore di sistemazioni alberghiere, non possiede alcun edificio”. Le piattaforme sono pure operazioni di intermediazione, in cui si mettono al lavoro i proprietari di veicoli o di case esistenti, nel loro tempo libero (che diventa tempo di lavoro grazie agli smart phones). Questi nuovi servizi si sono effettivamente diffusi assai velocemente, ma il loro impatto sull’economia globale è ancora incerto.

A studiare più a fondo il paradosso di un’economia che sembra in grado di realizzare ogni nostro desiderio ma che in realtà cresce con fatica ci sono molti altri esperti, che potremmo definire tecno-pessimisti: per esempio già nel 2015 Barry Eichengreen aveva pubblicato un paper dove analizzava la crescita zero della produttività totale dei fattori (TFP) a livello mondiale. Nel 2016, la Federal Reserve aveva reso noti i dati sull’andamento della produttività dei lavoratori negli Stati Uniti: tra il 2010 e il 2015 l’aumento medio annuo era stato di appena lo 0,6%. Sempre nel 2016 tre economisti americani, David Byrne, John Fernald e Marshall Reinsdorf, in un paper della Brookings Institution intitolato significativamente Does the United States have a productivity slowdown or a measurement problem?avevano affrontato il problema. 

Per ottenere risultati più solidi, Byrne e i suoi colleghi avevano studiato non l’economia nel suo complesso ma i vari settori, perché ovviamente ci sono aree nelle quali i progressi sono spettacolari e altre in cui l’innovazione è difficile o impossibile. Mentre ottenere la sequenza del genoma di un essere umano costava 1 milione di dollari ancora nel 2008, nel 2015 la cifra richiesta era solo 1.000 dollari. Al contrario, nei servizi alla persona un aumento della produttività è molto difficile da ottenere: un’ora di massaggio rimane un’ora di massaggio (la massaggiatrice può farsi pubblicità su Facebook ma non può operare su due clienti contemporaneamente).

Alcuni settori sono stati profondamente trasformati (si pensi solo all’estrazione di petrolio e gas attraverso il fracking, ai voli low cost o alla pubblicità online) ma i tre economisti sono arrivati alla conclusione che l’effetto internet, cioè le modifiche dell’organizzazione del lavoro che permettevano guadagni di produttività, si sono concentrate nel decennio 1995-2004. Da allora occorre registrare una sostanziale stagnazione, che non è dovuta allo scoppio della crisi, avvenuto nel 2008.

Com’è possibile? Una spiegazione del mistero avanzata da molti è che le cifre nude e crude della produttività (il rapporto fra ore lavorate e output) non riflettono i miglioramenti qualitativi delle merci e il loro calo di prezzo. In altre parole, il fatto che oggi uno smart phone costi 5-600 euro, cioè quasi esattamente il prezzo di una Lettera 22 nel 1950, non significa che i due prodotti siano equivalenti: la storica macchina da scrivere disegnata da Marcello Nizzoli scriveva benissimo ma non faceva foto, né trasmetteva musica, né si collegava con il mondo intero.

Nel paper della Brookings venivano studiati vari aspetti di questa possibile sottovalutazione della qualità guardando alle serie storiche dei prezzi dei computer e accessori, concludendo che sì, un piccolo miglioramento nel benessere dei consumatori c’è stato. Tuttavia, questo non compensal’effetto negativo sui salari e sull’occupazione dovuto alla mancata crescita della produttività generale perché ciò che fanno i consumatori con le merci che acquisiscono avviene fuori del mercato.

Che il signor Brown usi la sua auto per andare al mare, oppure al cinema con la ragazza, o per aiutare un amico nel trasloco non ha alcun rapporto con la capacità dell’economia di produrre più auto nello stesso tempo e con lo stesso numero di operai, che è la definizione di un aumento di produttività. Quando Henry Ford mise a punto la prima catena di montaggio, nel 1913, riuscì a produrre 189.000 veicoli (le famose “Ford T”). Nel 1916 la produzione fu di 585.00 auto, nel 1921 di 1.000.000 e nel 1923 di 2.000.000. Nel giro di dieci anni la produzione era aumentata di quasi 11 volte.

Se invece il signor Smith passa dieci volte più tempo davanti al computer di quanto ne passasse suo nonno davanti alla macchina da scrivere Olivetti, questo forse aumenta il suo “benessere” (cosa, in realtà, assai dubbia) ma non apre nuove possibilità di occupazione o aumenti di stipendio, che è quanto storicamente creavano i miglioramenti di produttività nell’industria: la catena di montaggio permise ad Henry Ford di raddoppiare i salari, portandoli di colpo a 5 dollari al giorno. 

Forse grazie a internet si possono fare ricerche che prima avrebbero richiesto molta fatica, o non sarebbero state possibili, e quindi i docenti universitari o i giornalisti possono scrivere articoli più completi e interessanti, ma dal punto di vista della ricerca il risultato è incerto e da quello del mercato editoriale l’effetto non è la vendita di dieci volte più copie, semmai il contrario. Inoltre, non è neppure sicuro che la disponibilità di una macchina multifunzione come il computer (dove si può chattare, twittare, e scattare selfiein orario di lavoro) sia un beneficio senza controindicazioni per la produttività dei colletti bianchi. Lo vediamo in Ours, un bel video di Taylor Swift, dove la cantante americana lavora svogliatamente a un desktop in deprimente ufficio di quella che sembra una compagnia di assicurazioni mentre sul suo schermo compaiono messaggi d’amore dei colleghi, video del fidanzato lontano e messaggi via Skype.

Quindi il mistero della quasi-stagnazione della produttività rimane? In realtà, non c’è nessun mistero: la produttività non aumenta perché non c’è bisogno che aumenti, i profitti arrivano lo stesso, per tre motivi. Storicamente, occorrevano rivoluzioni tecnologiche per aprire nuovi campi all’economia e ottenere profitti superiori a quelli dei concorrenti. Nei trasporti su strada gli imprenditori del settore non cercarono di migliorare la razza, o l’alimentazione dei cavalli, o di studiare un modello di carrozza più leggero e resistente: qualcuno inventò il motore a scoppio e da lì iniziò un’intera fase storica di crescita dell’economia.

Oggi le macchine per raccogliere i pomodori o l’uva esistono, ma costa meno impiegare braccianti assunti a giornata per il breve periodo del raccolto, in particolare se sono immigrati senza permesso di soggiorno. La stagnazione dei salari negli ultimi 50 anni ha reso più deboli gli incentivi all’uso di macchine e robot perché la forza lavoro è flessibile, abbondante e con sempre meno diritti: il salario minimo federale, negli Stati Uniti, ha toccato il massimo storico nel 1968 a $11,64 in dollari 2018, oggi è $7,25, ovvero il 38% in meno del livello raggiunto allora. Storicamente, l’automazione è stata anche una risposta alle lotte operaie, quelle lotte che oggi sono rare o prive di mordente.

A Pisa si parlerà parla molto di macchine che analizzano i documenti legali, di software (già esistenti) che indirizzano le sentenze, di robot che sostituiscono medici e infermieri. Tutto questo è tecnicamente possibile ma non è detto che sia economicamente vantaggioso o eticamente accettabile. Non c’è nulla di particolarmente difficile nel progettare un robot che distribuisca pillole ai pazienti nella corsia dell’ospedale, ma che farà di fronte al malato che rifiuta di prenderle? Allo straniero che non capisce le istruzioni? Alla vecchietta che vuole sapere a cosa servono? Al bambino che piange? In tutti i lavori di cura e assistenza i “clienti” preferiscono interagire con esseri umani in carne ed ossa, quindi i piccoli robot si troverebbero di fronte a uno svantaggio probabilmente incolmabile (senza contare che i bassi salari di infermieri e badanti rendono dubbia anche la loro economicità). 

Il trasferire il lavoro umano alle macchine non è sempre garanzia di successo, basti pensare alle casse automatiche dei supermercati, che il cliente medio detesta perché sono lente e assai poco user-friendly, tanto che quasi ovunque si è dovuto aggiungere del personale per aiutare le persone in difficoltà con la macchina. È possibile che nei prossimi anni si diffondano dei piccoli supermercati come Amazon Go a Seattle, dove non ci sono cassieri, né casse all’uscita: sensori e telecamere controllano ciò che mette nel carrello il cliente dotato di apposita app e poi gli addebitano l’equivalente sul suo conto Amazon. È meno sicuro che questa sia la strada che verrà adottata dalla grande distribuzione nel suo complesso.

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