SOCIETÀ

Saraceno: “I costi della pandemia sui poveri e i bambini”

Chiara Saraceno, a lungo docente presso l’università di Torino, è una delle più importanti sociologhe italiane: in particolare sono considerati fondamentali i suoi studi su famiglia, infanzia, povertà e politiche sociali. A lei innanzitutto chiediamo come l’emergenza Coronavirus sta cambiando noi e la società in cui viviamo.

“Riformulerei la domanda – risponde la studiosa –: un conto è come stanno cambiano le abitudini, un altro è quanto l’emergenza ci renda persone diverse. Su quest’ultimo punto credo che alla fine ciascuno di noi reagisca sulla base di ciò che è già: non sono così ottimista sul fatto che il virus ci renda migliori. Se da una parte sembra esserci più solidarietà, dall’altra c’è anche chi si improvvisa poliziotto. Le abitudini invece cambieranno sicuramente, l’uscita sarà lunga e ci vorranno molte cautele”.

Intanto la società come sta reagendo?

“Ci sarà anche meno inquinamento, ma sicuramente stanno aumentando le disuguaglianze. Non è vero che il virus ci ha resi tutti uguali: in qualche modo anzi ha ampliato e reso più visibili le disparità. C’è chi ha la casa grande e chi ce l’ha piccola, chi ha risorse e chi no, chi riesce a seguire figli e chi non ce la fa, chi ha perso il lavoro e chi può lavorare da casa. Inoltre, anche se non abbiamo ancora dati certi, la povertà è aumentata ancora. E la caduta del Pil non ha gli stessi effetti per tutti: magari in termini assoluti perde di più chi ha investimenti in borsa, ma chi perde lo stipendio vede minacciata la sua stessa sopravvivenza. Sono aumentate famiglie che non riescono nemmeno a fare la spesa per mangiare, e ai comuni non sono stati abbastanza soldi per far fronte all’emergenza. ‘Restate a casa’ non ha voluto dire la stessa cosa per tutti”.

Chiara Saraceno nel 2019 a Padova per il Festival della salute globale

Che strategia adottare per ridurre al minimo i traumi, soprattutto per i più deboli?

“Anche qui i problemi sono tanti e diversi. C’è ad esempio la questione della didattica a distanza: oggi non ha senso dire che è obbligatoria: è troppo tardi, anche perché molte scuole non sono ancora attrezzate e le insegnanti pronte. In secondo luogo non puoi fare diktat senza pensare che ci sono paesi dove la banda larga non arriva nemmeno, e moltissime famiglie che non hanno le risorse per fruirne: non hanno il wi-fi, oppure hanno un solo smartphone per quattro persone. È vero che le scuole hanno alcuni fondi per fornire del materiale, ma spesso non bastano. Spesso poi si dice che oggi i ragazzi sono abituati al digitale: un conto però è avere il telefonino, altro essere preparati alla didattica on line. La questione insomma è di una complessità impressionante e finora non è stata affrontata adeguatamente”.

C’è chi si è mosso in tempo?

“Ad esempio il terzo settore; chi lavorava con i ragazzi svantaggiati si è reso ben conto dei problemi ed è stato tra i primi a darsi da fare: anche facendo consulenza informatica, regalando giga e chiavette. Tutte iniziative spontanee, perché a livello nazionale un piano non c’è ancora”.

In generale per l’infanzia cosa è stato fatto?

“Poco o nulla. Si parla solo di chiusura e di riapertura della scuola, ma non di cosa fare nel frattempo. Nulla è stato pensato per i bambini e i ragazzi: anche adesso che si parla di una progressiva riduzione del lockdown. Sono d’accordo con quanto ha sostenuto la ministra per la famiglia Bonetti: se stanno pensando a come riaprire fabbriche vorrei che si pensasse anche a come 'riaprire' i bambini, le nostre famiglie. Certo i nostri figli e nipoti dovranno abituarsi – come in Cina e a Taiwan – a portare la mascherina, a non baciarsi e abbracciarsi. Soprattutto per i più piccini sarà complicato: sempre meglio però di restare chiusi in casa per sempre, o perlomeno fino a quando non saremo tutti vaccinati. E anche gli anziani hanno bisogno di uscire”.

Le famiglie sono state chiuse in casa ed è stata buttata via la chiave. Secondo il modello italiano per cui devono essere sempre loro a far fronte alle emergenze Chiara Saraceno

Chi è più svantaggiato in questa situazione?

“Pensi alle famiglie in cui c’è violenza o disagio: sono state completamente abbandonate, con donne e bambini chiusi in casa con i loro aggressori o con genitori gravemente inadeguati. Non è stato minimamente pensato a come assisterle. Si può assumere babysitter, ma pare che sia impossibile permettere a un educatore di visitare una famiglia in difficoltà in condizioni di sicurezza. Si è pensato solo – e meno male che almeno a quello in qualche modo si è pensato – al lavoro, ma non ai nuclei familiari. Questi sono stati chiusi in casa ed è stata buttata via la chiave, secondo il modello italiano per cui deve essere sempre la famiglia a far fronte alle emergenze”.

Come dovrebbe articolarsi secondo lei il ritorno alla normalità?

“Bisogna subito in qualche modo far fronte all’emergenza scolastica: mettersi pancia a terra con scuole e associazioni, investire e progettare. Qui stiamo perdendo una fascia temporale importante per tutta una generazione: certe esperienze se non si fanno a una certa età poi non si recuperano. Poi appunto cominciare a pensare a quali condizioni si esce, tenendo presenti i problemi di conciliazione famiglia-lavoro. In Germania prima di chiudere le scuole hanno cercato di capire i problemi delle famiglie: non hanno prima chiuso tutto per poi dire ‘chi può lavori a distanza’. In Svizzera e in Inghilterra i figli di chi lavorava nei servizi di pubblica utilità, come gli operatori sanitari, potevano continuare ad andare negli istituti. Si è insomma provveduto per chi non aveva altre soluzioni. Ci sono poi i diritti dei bambini, anche ad avere forme di socialità controllata: magari a gruppetti, utilizzando gli edifici scolastici, i parchi e le strutture sportive. I bambini hanno bisogno anche di altro, oltre ai genitori: la famiglia, anche la più amorosa, da sola non basta”.

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