SOCIETÀ

La scienza: il bene comune della società

Viviamo in tempi in cui la scienza e la tecnologia sono tra i principali motori della nostra società, chiamata per l'appunto società della conoscenza. E proprio per il loro ruolo chiave, scienza e tecnologia dovrebbero essere, in linea di principio, accessibili a tutti, dovrebbero essere un vero e proprio bene comune. Ma stanno così le cose?

In effetti se guardiamo alla storia del XX secolo possiamo vedere che soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la scienza e la tecnologia sono diventate il motore dello sviluppo, sia in termini economici sia sociali. Questo chiaramente ha spalancato una questione: chi ne trae davvero beneficio? La scienza e la tecnologia sviluppano ciò che gli innovatori hanno in mente e in questo senso si prendono questa responsabilità. Lo storico della scienza Thomas Hugh una volta ha detto una cosa interessantissima: gli sviluppatori di una tecnologia non inventano semplicemente una tecnologia, devono anche inventarsi la società che andrà avanti con quella tecnologia. E quindi la domanda è: a chi viene fatto del male quando si fa innovazione e sviluppo della conoscenza?

Intervista a Ulrike Felt, sociologa della scienza dell'università di Vienna. Riprese e montaggio di Tommaso Rocchi.

Ogni nuova conoscenza e tecnologia contiene un'idea di società e della direzione in cui dovrebbe svilupparsi Ulrike Felt

Se pensiamo che l'innovazione debba essere un bene comune, dobbiamo chiederci chi ne beneficia e chi si prende i rischi. Prendiamo per esempio le centrali nucleari e l'incidente che è accaduto in Giappone: le persone che ne hanno tratto benefici non sono necessariamente quelle che hanno dovuto convivere con i rischi. Dobbiamo porci queste domande perché ogni nuova conoscenza e tecnologia contiene un'idea di società e della direzione in cui dovrebbe svilupparsi. Dobbiamo riflettere attentamente su queste tematiche per poter rivendicare legittimamente che lo stiamo facendo per il bene comune. Oggi probabilmente abbiamo solo la pretesa che questo sia per il bene comune e ci aspettiamo che la gente ci creda e accolga tutto ciò che viene fatto. A questo dobbiamo lavorare: chi parla in nome della società e come dobbiamo accogliere questo tipo di innovazioni? Tenendo bene a mente che non si tratta di avere o non avere innovazione, ma di che tipo di innovazione vogliamo e per il bene di chi.

Quindi definire il ruolo della scienza nella società è solo uno dei due lati della medaglia. Dobbiamo anche definire il ruolo della società nella produzione di conoscenza scientifica. Come possiamo avere un buon pubblico che possa essere coinvolto in decisioni che riguardano la scienza?

Dobbiamo pensare a come la conoscenza scientifica e l'innovazione tecnologica vengono attualmente prodotte oggi. Le università ad esempio sono organizzare con piccoli gruppi di indicatori che ne verificano la qualità; ma in questa qualità andrebbe inclusa la loro capacità di integrare il punto di vista della società. E in effetti c'è una spinta verso l'integrazione di questo genere di aspettative e valori.

Ciò che conta per uno scienziato sono ancora le pubblicazioni prestigiose, i finanziamenti, la reputazione internazionale Ulrike Felt

Si è parlato negli ultimi anni di questa partecipazione, di forme più inclusive di innovazione, forme di apertura. Ma il punto è come possiamo riuscire a farla diventare una pratica sostenibile all'interno del sistema che genera conoscenza e innovazione? Fin'ora non siamo stati molto bravi. Perché ciò che conta per uno scienziato sono ancora le pubblicazioni prestigiose, i finanziamenti, la reputazione internazionale, mentre fare public engagement non è ancora annoverato tra i prerequisiti per diventare un buono scienziato. Questa è la nostra sfida, per le università, per i ricercatori e per le istituzioni di ricerca. Ma è anche una sfida per le persone, per trovare nuovi modi per rendersi partecipi del processo scientifico e tecnologico. E questo non è immediato, occorre tempo, e risorse mentali da spendere, capacità di rendersi partecipi, non per tutti è facile. Servono probabilmente diversi livelli di coinvolgimento della società, delle persone e delle loro capacità.

L'Europa sta dando sempre più attenzione a queste politiche per il public engagement. Lo scopo probabilmente è quello di costruire un ponte, una relazione reciproca tra scienza e società. A che punto siamo oggi e che cosa può fare l'università per costruire questo ponte?

I decisori politici europei a partire dagli anni 2000 hanno iniziato a sottolineare sempre di più la necessità di coinvolgere sempre di più diversi tipi di pubblico, come Ong o gruppi di pazienti, nel processo di produzione della conoscenza. Ma in rapporto alla quantità di soldi che viene allocata alla ricerca e all'innovazione questo resta ancora un elemento del tutto marginale. Se guardiamo alle iniziative principali, le più grandi non spendono davvero molta attenzione su cosa le loro innovazioni possano significare per la società. Quindi credo il ragionamento sia corretto in linea di principio, la realizzazione è ancora in uno stadio molto arretrato. E questo porta a interrogarci sulle istituzioni, perché tutti i discorsi sull'eccellenza spesso fanno fatica a venire conciliati con l'argomento della partecipazione. L'engagement necessariamente significa dedicar tempo a co-immaginare il mondo, quando il tempo è una delle risorse più scarse che abbiamo nel mondo accademico. I giovani ricercatori in particolare investono il loro tempo maggiormente negli ambiti che sono rilevanti per la loro carriera. Qui la responsabilità è delle istituzioni che con le loro politiche allevano i ricercatori delle generazioni a venire a diventare cittadini consapevoli del genere di implicazioni che il loro lavoro potrà avere.

Quali sono le strategie più efficaci per le università e per le istituzioni nel realizzare il public engagement e una comunicazione efficiente con la società?

Le strategie più efficaci sono quelle che riescono a tenere un approccio a più livelli perché hai bisogno di rivolgerti a pubblici diversi perché la società non è un “altro” omogeneo. Credo anche che la società cominci già dentro le istituzioni, comincia con i nostri studenti, si estende alle loro famiglie, e arriva a spazi pubblici più ampi.

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