SCIENZA E RICERCA

La curva della felicità

Alcuni la chiamano “crisi di mezz’età”. Per loro è il nadir della vita. Un momento in cui, tra i 40 e i 42 anni, la felicità o, comunque, la soddisfazione sono al minimo. 

Loro sono Terence Cheng, Nick Powdthavee e Andrew Oswald, tre economisti che hanno pubblicato di recente su The Economic Journal i risultati di un lungo lavoro di ricerca che ha impegnato per alcuni decenni 50.000 persone in tre diversi paesi: Gran Bretagna, Germania e Australia. A tutte queste persone è stato chiesto, più volte nel corso degli anni, di rispondere a un semplice domanda: siete soddisfatti della vostra vita? Si poteva scegliere tra dieci diversi gradi di soddisfazione. Ciascuno ha risposto in diverse stagioni della sua vicenda umana. E il risultato è (sembra) inequivocabile. Il grado di benessere individuale ha, generalmente, una forma a U: è massima in gioventù, scende a un minimo in età adulta, tra 40 e 42 anni in media, per poi risalire piuttosto decisamente fino a 70 anni. 

Questa forma a U della soddisfazione di vita è universale, sostengono Terence Cheng, Nick Powdthavee e Andrew Oswald. Anche se dai loro dati emerge che la curva è più marcata in Gran Bretagna e in Australia e meno in Germania. Segno che, nella determinazione della percezione del benessere, entrano in gioco molti fattori, sociali e culturali.

Ma andiamo con ordine. Il problema della percezione di benessere o, se volete, della soddisfazione di vita – saremmo più cauti nel parlare di felicità – è da tempo al centro dell’interesse di politici, sociologi ed economisti a causa delle ovvie ricadute che ha sulla produttività del lavoro, dell’integrazione sociale e della definizione delle migliori politiche di welfare. Non a caso, di recente, del problema si è interessata la commissione internazionale di 22 membri istituita nel 2008 dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy e di cui facevano parte illustri economisti come Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi. Qualche mese dopo la commissione pubblicò un rapporto intitolato Il Pil, il benessere e le politiche, in cui si dimostrava che la ricchezza di una nazione, misurata dal Prodotto interno lordo (il Pil) non coincide affatto (non sempre almeno) con la sensazione di benessere dei suoi cittadini. Il Pil non è una misura della felicità, sintetizzarono i giornali.

Ma se la ricchezza non fa la felicità, come ammonivano le nostre sagge (e povere) nonne, cosa determina la soddisfazione di vita? I fattori, naturalmente, sono tanti. Tra loro c’è, altrettanto naturalmente, la vicenda oggettiva e soggettiva di ogni singolo individuo. Ma conta anche il grado di integrazione di una società. E, al netto di tutte queste variabili, pare che conti anche l’età. A parità di tutte le altre condizioni, ciascuno di noi è diversamente soddisfatto della sua vita a secondo se sia giovane, adulto o anziano.

Già, ma qual è la correlazione tra l’età e la soddisfazione? Neppure questa domanda è nuova. Anzi, esiste una vasta letteratura prodotta negli ultimi decenni da economisti e scienziati sociali che hanno individuato una correlazione a U: la soddisfazione sembra avere un massimo in gioventù e in età più anziana e un minimo verso la mezza età, tra 40 e 45 anni. Questa correlazione sembra essere universale. È stata rilevata in dodici paesi dell’Unione Europea con una ricerca di Rafael Di Tella e altri i cui risultati sono stati pubblicati nel 2003 con un articolo dal titolo ambizioso: The Macroeconomics of Happiness. Più di recente una qualche forma a U della percezione del benessere in funzione dell’età è stata rilevata tra le grandi scimmie antropomorfe da un gruppo di biologi guidati da Alexander Weiss, che nel 2012 hanno pubblicato sui Proceedings of National Academy of Science (PNAS) degli Stati Uniti con un titolo esplicito: Evidence for a midlife crisis in great apes consistent with the U-shape in human well-being. Sembrerebbe, dunque, che l’universalità della “crisi di mezz’età” abbia basi biologiche ed evolutive.

E tuttavia non tutti concordano. Ci sono varie ricerche sociali (relative alla specie umana) che non rilevano affatto questo andamento. E ce n’è una, in particolare, condotta negli Stati Uniti che rileva sì una forma a U, ma rovesciata. In altri termini nella mezza età gli uomini conoscono non il minimo ma il massimo della soddisfazione.

Insomma, grande è la confusione sotto il cielo. E questa confusione hanno cercato di diradare Terence Cheng, Nick Powdthavee e Andrew Oswald. Quest’ultimo è noto per essere tra i più grandi esperti al mondo di percezione del benessere. La loro ricerca, durata anni, sembra essere scientificamente ben fondata. Perché ha misurato l’evoluzione della percezione del benessere di una persona nel corso della sua vita. Certo, riguarda tre paesi ricchi di cultura occidentale. E, dunque, bisogna essere quanto meno cauti nell’estendere la forma a U della percezione del benessere a tutti i paesi di ogni latitudine e cultura.  

La ricerca non spiega (non era sua intenzione farlo) perché le persone tra 40 e 42 anni sono, in genere, meno soddisfatte delle persone più giovani o più anziane. Anche se esclude che sia l’onore di educare i figli, che in genere per genitori di quella età sono adolescenti o stanno entrando nell’adolescenza, a deprimerli. L’andamento è del tutto analogo tra chi ha e chi non ha figli. 

Nella maggiore insoddisfazione dei quarantenni ci sono, probabilmente, motivazioni psicologiche e altre sociali. In fondo sono persone che sono o si aspettano di essere nel pieno della carriera di lavoro. E, dunque, in una condizione di forte stress.

Sia come sia, il lavoro di Terence Cheng, Nick Powdthavee e Andrew Oswald sembra consigliare tre tipi di politiche. Una che renda possibile la conservazione dello stato di benessere in età giovanile e, dunque, che dia ai giovani la possibilità di entrare nel mondo del lavoro, con soddisfazione appunto. Un’altra che conservi, con un buon sistema di welfare, la condizione di benessere delle persone più anziane, dando loro certezza sul lavoro e sulle pensioni. Ovvero su una tranquilla vecchiaia. E, infine, occorrono politiche in grado di appiattire la U, facendo crescere il grado di soddisfazione nel corso della “mezza età”. Il fatto che la U sia più piatta in Germania, paese che fra i tre ha un welfare state più solido e dove le disuguaglianze sociali sono minori, è un buon indicatore. 

Pietro Greco

 

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