SCIENZA E RICERCA
Microelettronica, solo se super-lubrificata

Esistono elevate probabilità che stiate leggendo questo articolo dallo schermo di uno smartphone. Comodamente sdraiati sul divano o in autobus in attesa di arrivare a destinazione. Che siate supini o seduti, il vostro cellulare sarà sempre in grado di capire in che posizione si trova e orientare lo schermo di conseguenza. Merito dell’accelerometro, un sensore di posizione. Fin qui tutto nella norma se non fosse che in futuro, complice la tendenza a rendere sempre più piccoli questi dispositivi, tali sistemi potrebbero non funzionare più. E molti settori oltre alla sensoristica in generale, dalla meccanica alla microelettronica, potrebbero andare incontro a difficoltà. Una possibile soluzione al problema tuttavia sembrerebbe arrivare dalla fisica, in particolare dallo studio di un gruppo di scienziati italiani, pubblicato recentemente su Nature Nanotechnology. Ricerca a cui hanno partecipato l’università di Padova, la Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa), l'università di Modena e Reggio Emilia, l'Istituto nanoscienze centro S3 del Cnr di Modena e il centro Democritos del Cnr di Trieste.
In sostanza il problema in questo campo nasce dalla forza di attrito che si genera tra gli elementi in movimento del sistema (i componenti del sensore di posizione dello smartphone, per continuare con l’esempio). Infatti tanto più i corpi diventano piccoli, tanto maggiore è l’attrito che si viene a creare tra di essi. “Ciò significa – spiega Giampaolo Mistura, docente del dipartimento di fisica e astronomia “G. Galilei” di Padova e membro del gruppo di ricerca – che se io miniaturizzo dispositivi che possiedono parti in movimento, il contributo della forza d’attrito rispetto alle forze presenti diventa sempre più importante”. E le tecniche di riduzione dell’attrito finora utilizzate con ottimi risultati su macroscala, come i lubrificanti, non sono più efficaci quando gli oggetti hanno le dimensioni di qualche decina di nanometri, perché il liquido non riesce a scorrere tra le parti (per intenderci sulle dimensioni, un nanometro è un millesimo di micrometro che a sua volta è un milionesimo di metro).
Ora invece gli studiosi hanno dimostrato che è possibile variare la capacità di scivolamento anche di corpi molto piccoli, passando da una condizione di fortissimo attrito a una di “superlubricità”, cioè di estremo scorrimento, senza ricorrere a lubrificanti. L’esperimento è stato condotto utilizzando atomi di xeno (un gas nobile) aggregati tra loro e depositati su una superficie di rame. Immaginate delle zattere formate da tante palline da tennis (gli atomi) che galleggiano su un lago. A temperature poco sopra lo zero lo spazio che intercorre tra un atomo di xeno e l’altro (tra una pallina da tennis e l’altra) è diverso da quello che separa invece gli atomi della superficie di rame (incommensurabilità delle superfici) e dunque gli agglomerati scivolano senza attrito. Un po’ come zattere su un lago ghiacciato. Se invece si aggiungono atomi di xeno, le dimensioni delle zattere aumentano al punto da ricoprire quasi tutta la superficie del rame (del nostro lago per continuare con la metafora). Aumentando poi la temperatura, gli atomi di xeno di quella che è diventata come una unica grande zattera si dilatano e attorno ai 50 gradi kelvin diventano commensurati con la superficie di rame. In questo modo l’attrito aumenta.
“Ecco dunque – osserva Mistura – che mantenendo incommensurate le due superfici in contatto, pur senza usare lubrificanti, si riuscirebbe a superare il problema dell’attrito che nasce dalla sempre maggiore miniaturizzazione degli elementi in dispositivi come gli accelerometri degli smartphone”. Ma non solo, perché gli ambiti che prevedono l’utilizzo di microelementi in movimento tra loro sono svariati. E Mistura in questo senso propone anche delle possibili soluzioni: “Si potrebbero realizzare dei nanocontatti incommensurati a temperatura ambiente, scegliendo opportunamente le due superfici a contatto. Utilizzando per esempio grafite, argento o oro”.
Fin dai tempi più antichi l’uomo ha dovuto imparare a controllare o, in certi casi, a sfruttare a proprio vantaggio il fenomeno dell’attrito. Si pensi a quando iniziò ad accendere un fuoco sfregando tra loro due pietre o a quando inventò la ruota per spostare oggetti pesanti. Ma si pensi anche, nella vita di ogni giorno, a un’automobile che frena sull’asfalto o a una slitta sulla neve. Verrebbe da pensare che, ormai, tutto sia noto di questo fenomeno fisico. Leonardo da Vinci già nel XVI secolo fu il primo a occuparsene su scala macroscopica, formulando quei principi che furono poi ripresi da Guillaume Amontons nel secolo successivo e da Charles-Augustin de Coulomb nel Settecento. “Eppure – sottolinea Mistura – quando si parla di scale molto piccole, di oggetti della dimensione di nanometri, non tutto è stato ancora osservato perché solo negli ultimi 10-20 anni sono state sviluppate tecniche sensibili al punto tale da permettere di studiare fenomeni di questo tipo”. E le ricadute, come si è visto, sono molto importanti.
Monica Panetto