Identificare e catturare inquinanti presenti nell’aria e nell’acqua o rilasciare farmaci in modo controllato sono solo due delle grandi sfide che richiedono lo studio e la ricerca di materiali innovativi: un aiuto nella preparazione di questi nuovi materiali proviene dalle capsule proteiche artificiali. In biologia, le capsule proteiche svolgono funzioni essenziali in diversi processi, tra cui il trasporto e l’immagazzinamento di sostanze.
Un team internazionale di ricercatori delle Università di Padova e Hong-Kong, con la collaborazione di università statunitensi (Duke, Northwestern, South Florida, California Institute of Technology) e cinesi (Tianjin, Anhui, Zhejiang), ha scoperto un nuovo materiale con caratteristiche simili alle capsule biologiche: lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature, è stato coordinato da Sir James Fraser Stoddart, premio Nobel per la chimica nel 2016 venuto a mancare il 30 dicembre 2024.
Le capsule biologiche sono dei poliedri supramolecolari, cioè subunità proteiche che si auto-assemblano attraverso numerosi legami deboli per creare delle strutture ben definite e simmetriche. Gli scienziati hanno provato a lungo a replicare queste strutture naturali e dopo molti tentativi sono riusciti a preparare poliedri supramolecolari artificiali e produrre capsule con caratteristiche simili a quelle biologiche che possano immagazzinare sostanze e rilasciarle in modo intelligente e controllato. Abbiamo approfondito la ricerca con Luka Ðorđević, autore della ricerca e docente al dipartimento di Scienze chimiche dell’Università di Padova.
Professore, dove possiamo trovare le capsule proteiche? Perché è importante studiarle e riuscire a produrle artificialmente?
Le capsule proteiche si trovano soprattutto in natura, in quasi tutti gli esseri viventi e non. La ferritina, per esempio, è una capsula proteica contenente ferro che si trova in diverse forme in tutti gli esseri viventi: dai batteri alle alghe, dalle piante agli animali. Nell’uomo si trova dentro le cellule di quasi tutti i tessuti e anche nel sangue. Vista la loro complessità strutturale, però, è difficile trovare e produrre le capsule proteiche al di fuori di entità biologiche.
Restando sull’esempio della ferritina, questa capsula può rilasciare il ferro quando ce n’è poco, evitando quindi una carenza, oppure immagazzinarlo quando ce n’è troppo, evitando un sovraccarico e accumulo tossico nei tessuti. Studiare come queste capsule si producono e riuscire a replicare questo processo in maniera sintetica ci permette non solo di progettare le capsule, ma anche il materiale (o le molecole) che potrebbero esservi immagazzinate all’interno.
La scoperta del processo che porta dal riconoscimento delle molecole alla preparazione di capsule artificiali ha reso possibile lo studio di due caratteristiche fondamentali di questi nuovi materiali, che trovano una similitudine con le proprietà delle capsule biologiche: le proprietà dinamiche e la capacità di incapsulare altre sostanze.
Perché queste caratteristiche sono così importanti e a cosa servono?
Sono importanti perché aiutano a regolare alcuni processi biologici e perché sono doti essenziali per lo sviluppo di una classe di sistemi altamente “intelligenti”, dal momento che consentono una cattura e un rilascio controllato delle sostanze utilizzando la luce come stimolo.
Le proprietà dinamiche delle capsule proteiche si riferiscono al comportamento e alle interazioni delle proteine in movimento o in risposta ai cambiamenti e consentono sia di catturare che di rilasciare le sostanze dentro la capsula. Non solo: è essenziale poter rilasciare le sostanze in un secondo momento, dunque in maniera controllata, sia per una questione di ri-utilizzo (che ci permetterebbe di utilizzare le capsule molteplici volte), sia per eventuali applicazioni future in ambito medico e farmaceutico (per esempio il rilascio di farmaci).
In generale, le proprietà dinamiche delle capsule proteiche sono essenziali per comprendere come queste molecole possano essere utilizzate in diverse applicazioni, dalle nanotecnologie, alla medicina, alla biotecnologia.
Per quanto riguarda lo sviluppo di materiali intelligenti – che è anche il tema centrale del mio progetto ERC Starting Grants –, l’idea è di preparare materiali – in questo caso specifico, le capsule – che si adattino alla loro funzionalità (cattura o rilascio delle sostanze) a seconda delle condizioni in cui si trovano. Le capsule che abbiamo riportato in questo lavoro rispondono alla luce ma in futuro si possono modificare gli stimoli a cui rispondono. L’idea è di catturare delle sostanze dentro la capsula durante il buio e rilasciarle semplicemente irradiando le capsule artificiali: tra le numerose applicazioni possibili c’è, ad esempio, la purificazione dell’aria o dell’acqua attraverso l’immagazzinamento di idrocarburi.
Per la preparazione di questo nuovo materiale è stato fondamentale sfruttare delle molecole chirali. La chiralità è una proprietà di oggetti che sono immagini speculari l’uno dell’altro ma non sono sovrapponibili, come le nostre mani destra e sinistra. Questa proprietà è universale in natura e si manifesta ovunque, dal DNA alle proteine. Nel nostro studio abbiamo osservato come delle molecole chirali possano riconoscersi e auto-assemblarsi in capsule sintetiche dalle dimensioni di solo un paio di nanometri. La geometria di un materiale ne influenza le proprietà e quindi le sue possibili applicazioni: questo nuovo poliedro sintetico è interessante perché riproduce la geometria del cubo simo (snub cube), uno dei 15 poliedri archimedei con 60 spigoli, 24 vertici e 38 facce. Inoltre, anche il cubo simo è chirale e quindi si presenta in due forme speculari.
Questo nuovo materiale è facilmente replicabile? Quanto sarà applicabile e utilizzabile “sul mercato” per eventuali usi futuri?
La dimensione della capsula determina ciò che questa riesce a immagazzinare: creare poliedri da oggetti macroscopici risulta molto facile, ma produrne di dimensioni nanoscopiche è estremamente complicato. Il nostro studio dimostra che le dimensioni di un paio di nanometri sono sufficienti per consentire di immagazzinare idrocarburi come il benzene e il cicloesano, inquinanti di aria e acqua.
Per rispondere alla domanda, sì, la molecola è facilmente replicabile, infatti siamo riusciti a riprodurre sia la molecola che la capsula in tre continenti diversi (America, Europa e Asia), ma ci potrebbe essere un problema di scalabilità: spetterà ai chimici che mettono a punto i processi per ottenere un composto su larga scala cercare il modo di produrre la nanocapsula in grandi quantità.
Il nostro è un punto di partenza: aver capito come produrre artificialmente queste capsule ci permetterà in futuro di progettare molecole più semplici e su larga scala.