I ministri Grillo e Bussetti
Si sono dimessi in quattro dal comitato che seleziona la rosa di candidati da proporre al ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Si tratta di nomi importanti. A iniziare da Lamberto Maffei, neuroscienziato e già presidente dell’Accademia dei Lincei: quella, per intenderci, fondata da Federico Cesi e frequentata da Galileo Galilei. Fino a ieri Maffei era il presidente del comitato.
Si è dimessa anche Fabiola Gianotti, la prima donna a dirigere il CERN di Ginevra, il più grande laboratorio di fisica delle alte energie del mondo. E come lei si è dimessa Lucia Votano, che è stata la prima donna a dirigere il più grande laboratorio sotterraneo di fisica, quello del Gran Sasso. Ha rinunciato, infine, al suo incarico anche Aldo Sandulli, preside di Giurisprudenza dell’università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
Il Comitato era composto da cinque persone. L’unico a non rimettere il mandato è stato Mauro Ferrari, che si è laureato in matematica a Padova, che si occupa di nanomedicina e ora dirige il Methodist Research Institute di Houston, in Texas. Ferrari ha dichiarato di essere in pieno accordo con le motivazioni dei colleghi, ma di non essersi dimesso per questioni tattiche. È meglio quando c’è da combattere restare in trincea.
Già, le motivazioni. I quattro dimissionari e il non dimissionario sostengono di aver ricevuto pressioni inaccettabili da parte di ambienti del MIUR riconducibili al suo titolare, il ministro Marco Bussetti. Pressioni che riguardano i criteri di selezione della rosa da proporre allo stesso ministro per la nomina del nuovo presidente dell’ASI. I cinque membri del comitato ritengono inaccettabile questa pressione politica.
Nella medesima giornata di ieri, 3 dicembre, un altro ministro, quello della salute, la signora Giulia Grillo, ha revocato i 30 componenti non di diritto del Consiglio Superiore di Sanita. È questo un organismo che coadiuva il ministro nella definizione della politica sanitaria. È costituito da membri di diritto, rappresentanti di istituzioni sanitarie, e da membri non di diritto, scelti dal ministro. I 30 questa volta dimissionati erano stati nominati all’incirca un anno fa. Molti tra loro fanno notare che la pratica della revoca è inedita e che, pur essendo nella legittima disponibilità del ministro, loro non sono stati né avvisati prima da Giulia Grillo né hanno avuto in sei mesi la possibilità di parlarle.
Il ministro ha diramato una nota nella quale sostiene il suo diritto a cambiare e ha assicurato che i membri non di diritto del prossimo Consiglio non saranno scientificamente meno autorevoli di quelli appena revocati.
Aggiungete a tutto ciò la polemica intorno alla revoca a Roberto Battiston del mandato di presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, sempre da parte di Marco Bussetti, e l’indicazione da parte del governo su proposta del ministro Giulia Bongiorno del nuovo presidente dell’ISTAT, l’istituto nazionale di statistica, nella persona di Gian Carlo Blangiardo, professore emerito di statistica, ma considerato e per questo contestato da molti perché troppo vicino alla Lega, e avrete il quadro di un conflitto non più latente tra larghi stati della comunità scientifica italiana e maggioranza di governo.
Non è il caso di entrare nel merito di ciascuna questione. Ma molti osservatori lamentano in questa serie di fatti un pericolo reale: l’erosione dell’autonomia della ricerca. Il tentativo della politica di imporsi sulla scienza.
Per puro caso, nei giorni scorsi la rivista Nature lamentava lo stesso rischio. E indicava alcuni paesi in cui l’autonomia della scienza è o potrebbe essere messa in discussione: dagli Stati Uniti all’Australia, dalla Turchia all’Ungheria, dalla Polonia alla stessa Italia. Secondo la rivista inglese c’è un tratto che accomuna questi paesi: sono tutti governati da movimenti e partiti della destra sovranista e populista.
Nature rileva che questi movimento sono in espansione in Europa e, dunque, ravvisa un concreto pericolo di perdita di autonomia della scienza nel nostro continente.
La rivista inglese ricorda che tre sono i pilastri della democrazia: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la libertà di stampa e, appunto, la libertà di ricerca. Se il terzo pilastro viene eroso non è solo la scienza a subirne le conseguenze, ma è la stessa democrazia.
Ora non c’è alcun dubbio che in Italia non ci sia un problema di fine della democrazia. Però è anche vero che se la percezione sempre più diffusa nella comunità scientifica nazionale e internazionale che nel nostro paese la politica – nella fattispecie la maggioranza di governo – tenti di mettere sotto tutela la scienza è un campanello d’allarme.
Farebbe bene il governo ad ascoltare questo campanello. E a evitare di assumere atteggiamenti che possono sembrare di sfida alla comunità scientifica. Perché non sarà in gioco la democrazia, ma lo sviluppo del paese sì. In tutti i paesi democratici avanzati le donne e gli uomini di scienza sono classe dirigente. Gli scienziati e le loro istituzioni sono consiglieri ascoltati nei ministeri. E producono con efficienza la nuova conoscenza scientifica necessaria a un paese solo se godono di piena autonomia.
Ad affermare tutto questo non sono e non sono stati fanatici oppositori del sistema occidentale. Lo ha scritto con determinazione al suo primo ministro cento anni fa Richard Burdon Haldane, un giurista e filosofo che era anche Segretario di Stato e capo del War Office di Sua Maestà Britannica. E lo ha affermato con determinazione nel 1945 Vannevar Bush, il consigliere scientifico del presidente americano Franklin Delano Roosevelt, quando nel giugno 1945 consegnò al nuovo inquilino della Casa Bianca, Harry Truman, un rapporto, Science, the Endless Frontier, che è considerato, non a torto, il manifesto non solo della nuova politica della ricerca degli Stati Uniti, ma il documento alla base della politica economica che ha consegnato al grande paese americano la leadership nel mondo e ne ha fatto la nazione più ricca della Terra.
Quasi mai le indicazioni di Haldane nel Regno Unito e quelle di Vannevar Bush negli Stati Uniti sono state contraddette. Almeno fino all’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump. Mentre ci sono stati esempi contrari in Unione Sovietica. Quando Stalin e Beria decisero che la politica venivano prima della scienza e diedero il loro autoritario appoggio alle idee contestate dalla comunità scientifica di Trofim Denisovič Lysenko, il granaio del mondo andò incontro ad alcuni drammatici decenni di carestia.