SCIENZA E RICERCA

Scoperta una nuova variante di HIV: è più virulenta ma i farmaci rimangono efficaci

Negli ultimi due anni abbiamo spesso parlato di varianti in relazione all'andamento della pandemia da SARS-CoV-2. Sappiamo però che la capacità di mutare accomuna tutti i virus ed è un processo che avviene ad ogni replicazione: per questo motivo quanto più un virus conosce un'ampia diffusione tanto più aumentano le probabilità che si modifichi (sebbene spesso questo non implichi l'insorgenza di caratteristiche significativamente diverse in termini di maggiore patogenicità o trasmissibilità). Già dopo qualche mese dallo scoppio della pandemia si era però capito che SARS-CoV-2 (nonostante la sua ampia circolazione) tende ad essere molto più stabile di altri virus a RNA: la sua velocità di mutazione è 100 volte inferiore a quella di HIV.

HIV è in effetti uno dei virus più instabili di cui si abbia conoscenza e proprio l'elevata tendenza a sviluppare mutazioni è una delle ragioni che finora ha impedito la messa a punto di un vaccino efficace contro un'infezione che, nei 40 anni trascorsi dalla sua scoperta, ha causato circa 33 milioni di morti nel mondo.

Nei giorni scorsi un team di ricerca internazionale, guidato dall'università di Oxford, è arrivato all'individuazione di una nuova variante di HIV, molto più virulenta rispetto a quelle finora note, che è stata scoperta grazie al lavoro effettuato nell'ambito del progetto BEEHIVE, iniziativa nata nel 2014 per monitorare il genoma di HIV e la sua evoluzione attraverso analisi su alcune coorti di pazienti. Più nel dettaglio si tratta di una variante del sottotipo B, denominata VB (virulent subtype B), ed è stata inizialmente identificata in 17 persone che avevano mostrato una progressione verso la malattia insolitamente rapida. Dato che 15 di loro provenivano dai Paesi Bassi (gli altri due casi erano in Svizzera e in Belgio), i ricercatori hanno analizzato i dati di una coorte di oltre 6.700 persone positive ad HIV della stessa nazionalità. Questo ha condotto alla scoperta di altri 92 individui infetti dalla nuova variante, portando il totale a 109.

Dai test sui campioni di sangue è emerso che rispetto alle persone infette da altri ceppi di HIV, quelle positive alla nuova variante avevano una quantità di virus oltre 5 volte superiore e le loro cellule CD4 del sistema immunitario, un parametro molto significativo perché è legato all'avanzamento della malattia, si erano ridotte quasi due volte più velocemente. I ricercatori hanno stimato che, senza trattamento, le persone infette da questa variante rischiano di sviluppare l'AIDS entro 2-3 anni dalla diagnosi, rispetto ai 6-7 anni per quelle infette da altri ceppi di HIV. Bisogna però precisare che fortunatamente la nuova variante, che sarebbe in realtà nata negli anni '90 e si sarebbe diffusa rapidamente nei primi anni 2000, può essere tenuta sotto controllo in modo efficace dai farmaci anti-retrovirali con cui la lotta ad HIV è arrivata a un vero punto di svolta

Lo studio è stato di recente pubblicato sulla rivista Science e come ha sottolineato il professor Christophe Fraser, autore senior della ricerca, i risultati di questo lavoro ribadiscono anche l'importanza di garantire il più ampio accesso possibile a test regolari per la diagnosi precoce. In caso di positività l'avvio tempestivo delle terapie anti-retrovirali disponibili "limita la quantità di tempo in cui l'HIV può danneggiare il sistema immunitario di un individuo e mettere a repentaglio la sua salute. Inoltre garantisce che l'HIV venga soppresso il più rapidamente possibile, impedendo la trasmissione ad altre persone". E davanti a una variante in grado di piegare in tempi brevi il sistema immunitario i farmaci devono essere assunti al più presto. 

L'emergere di una forma più virulenta di HIV è "un motivo per rimanere vigili", ma non è una crisi di salute pubblica", ha affermato in un commento su Nature Joel Wertheim, biologo evoluzionista ed epidemiologo molecolare dell'università della California, confermando l'efficacia dei farmaci esistenti. E molti esperti, tra cui Stefano Vella docente di Salute globale all'università Cattolica di Roma e neo presidente della nuova Commissione nazionale Aids del Ministero della Salute, hanno osservato che la scoperta della variante VB sfata il mito che i virus diventino più buoni col tempo.

Abbiamo chiesto a Sara Richter, professoressa di Medicina molecolare dell'università di Padova e tra le massime esperte mondiale degli studi su HIV, di approfondire quali aspetti vengono presi in considerazione nel monitoraggio di HIV e come è cambiato finora nel tempo questo virus caratterizzato da una così elevata capacità di mutare.

L'intervista completa alla professoressa Sara Richter sulla nuova variante di HIV, recentemente individuata. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Per determinare le varianti di HIV - introduce la professoressa Sara Richter, docente del dipartimento di Medicina molecolare dell'università di Padova - si misurano la quantità di virus che viene prodotta nel sangue del paziente e la deplezione, cioè la diminuzione di cellule CD4 positive. Queste ultime sono infatti le principali cellule bersaglio di HIV e diminuiscono gradualmente al progredire dell’infezione. Sono le cellule del sistema immunitario che ci proteggono dal virus stesso e nelle prime fasi dell’infezione si instaura una lotta tra il virus e queste cellule immunitarie: il patogeno si replica sfruttandole e uccidendole, dall’altra parte le cellule non infette tengono a bada il virus e ne impediscono la replicazione incontrollata. Poi quando questo equilibrio si sposta a favore del virus e arriviamo al di sotto di un certo valore soglia di quantità di cellule CD4 positive, si è più esposti all’aggressione da parte di altri agenti infettivi e anche alle trasformazioni tumorali. Ci si avvia così allo stadio clinico di AIDS conclamato".

"Il terzo aspetto che si analizza nel monitoraggio delle varianti è come il genoma del virus cambia nel tempo e anche nella popolazione. Una delle caratteristiche principali di HIV è che muta in modo estremamente veloce e quindi si va a sequenziare il suo genoma per controllare quante e quali mutazioni siano presenti".

E' proprio raccogliendo i dati di questi tre parametri in un gran numero di pazienti che si è scoperta l’esistenza di una variante più aggressiva. "I ricercatori hanno visto che alcuni pazienti avevano una maggiore quantità di virus nel sangue, fino a tre volte e mezzo in più, e che la diminuzione delle cellule CD4 positive era più veloce. Se un paziente contagiato da un ceppo normale di HIV in assenza di trattamento con i farmaci sviluppa l’AIDS in 6-7 anni, pazienti infettati da questa variante più aggressiva sviluppano la malattia in 2-3 anni", spiega la professoressa Richter.

La variante VB presenta molte mutazioni dato che i cambiamenti nel genoma riguardano quasi 300 aminoacidi. "Da un lato questo aspetto non ha permesso di risalire alla mutazione o alle mutazioni direttamente responsabili dell’aumentata virulenza. Dall’altro lato però ha permesso di datare meglio l’insorgenza di questa variante. I ricercatori sono andati a raccogliere i campioni disponibili più vecchi tra i pazienti diagnosticati con questa variante e sono riusciti appunto a comprendere che è nata negli anni ’90", osserva Richter.

I ricercatori sottolineano che la variante è emersa da una mutazione e non da una ricombinazione e che l'aumento della virulenza è attribuibile al ceppo virale stesso e non da eventuali caratteristiche peculiari, demografiche e di comportamento, riscontrabili nelle 109 persone infette. 

Come già detto la maggiore aggressività della variante si manifesta in assenza di trattamento ma dopo l'inizio delle terapie gli individui con la variante VB hanno mostrato un recupero del sistema immunitario e una sopravvivenza simili agli individui positivi agli altri ceppi. "La terapia contro HIV è normalmente costituita da una combinazione di farmaci che hanno diversi bersagli sul virus. In questo modo ci si assicura la più bassa probabilità che insorgano nuove particelle virali che abbiano mutazioni contemporaneamente in tutti i bersagli e che quindi siano resistenti a questi farmaci. Questa strategia funziona molto bene. La terapia è efficace anche contro questa variante più aggressiva: è stata registrata solo una minima resistenza ad un farmaco. Il problema semmai potrebbe essere che questi pazienti producono molto più virus nel sangue e quindi il numero di farmaci usato nel cocktail potrebbe non essere più ottimale e questi pazienti potrebbero sviluppare virus resistente ai farmaci più velocemente. I dati che abbiamo fino a questo momento non ci consentono però ancora di stabilire se questo rischio esista", approfondisce la professoressa del dipartimento di Medicina molecolare dell'università di Padova.

Ma come è cambiato finora nel tempo il virus HIV e cosa ci dice l'insorgenza di questa variante in termini evolutivi, ragionando non solo sulle mutazioni casuali ma anche sul ruolo delle pressioni selettive? "Fino ad oggi a fronte di una grande percentuale di mutazioni nel genoma non sono stati ravvisati cambiamenti importanti nella virulenza e nell’infettività, cioè nella capacità di trasmissione tra diversi individui. Questi sono di fatto i due parametri che ci interessano. Sembra quindi che HIV abbia raggiunto l’equilibio perfetto tra infettività e virulenza. Questo meccanismo vale per tutti i virus:  se l’infettività è troppo bassa non c’è efficiente trasmissione tra gli individui e quindi il virus in una popolazione avrà difficoltà a sopravvivere. D’altra parte se la virulenza è troppo alta l’individuo infetto starà troppo male e non sarà in grado di trasmettere bene il patogeno. Questa caratteristica differenzia quanto accaduto con il virus della SARS e l’attuale pandemia da SARS-CoV-2", osserva Richter.

"Tornando ad HIV questo equilibrio potrebbe essere stato destabilizzato dal largo uso della terapia antivirale perché con i farmaci il virus si trasmette meno. La nuova variante più virulenta potrebbe quindi essere una risposta del virus a questa situazione ambientale che lo porta a produrre più particelle nel singolo individuo in modo da aumentare la trasmissibilità. Forse non è un caso che questa variante più aggressiva sia emersa proprio in Paesi dove si fa ampio uso di terapia anti-retrovirale. Questo non vuol dire che non si devono usare questi farmaci. Al contrario, bisogna monitorarsi di più soprattutto se si adottano comportamenti a rischio e in caso di contagio iniziare la terapia anti-retrovirale il prima possibile", aggiunge la docente.

Gli autori dello studio ritengono comunque improbabile che la comparsa di questa variante sia una risposta del virus ai farmaci in quanto si stima che sia apparsa prima dello sviluppo dei trattamenti combinati con cui si è cominciato a contenere il progredire dell'infezione. 

La ricerca continua intanto a portare avanti la lotta ad HIV e ci sono molte aspettative rispetto alla possibilità si riesca a sviluppare un vaccino grazie a quelle stesse tecnologie a mRNA che abbiamo conosciuto con la pandemia da SARS-CoV-2. Poche settimane fa Moderna ha annunciato l'avvio di uno studio di Fase 1 che coinvolge 56 volontari adulti, sani e HIV negativi, in quattro sedi degli Stati Uniti. Questo approccio sarà combinato con quello che mira a sfruttare le ultime conoscenze in tema di anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro.

"Il problema di HIV, come abbiamo già sottolineato, è la sua grande capacità di mutare e questa è la ragione per la quale finora non si è riusciti a sviluppare dei vaccini efficaci. Adesso abbiamo a disposizione due nuovi tipi di tecnologie che potrebbero effettivamente fare la differenza. Da un lato su alcuni pazienti infetti da HIV sono stati individuati degli anticorpi migliori, definiti a largo spettro. Questi anticorpi sono meno sensibili alle variazioni del virus e quindi sono in grado di proteggere meglio davanti alla grande variabilità del virus che circola. Un approccio è quello di stimolare la produzione di questi anticorpi negli individui. L’anno scorso è stato portato a termine il primo trial clinico di questo tipo e si è ottenuta una risposta nel 97% delle persone. Sono quindi dati molto promettenti", spiega la professoressa Richter.

"Dall’altro lato c’è la tecnologia dei vaccini a mRNA, qualla che abbiamo conosciuto perché è stata introdotta con il vaccino anti Covid. Questa tecnologia permette di produrre un immunogeno, una proteina del virus contro cui vengono sviluppati gli anticorpi, in modo sicuro perché non è presente il virus completo. Non c’è quindi possibilità che avvenga per sbaglio un’infezione causata dal vaccino. E questa tecnica ha anche il vantaggio di poter essere sviluppata in modo molto più veloce. Nel trial iniziato in questi giorni si combinano queste due tecnologie: vaccino a mRNA con produzione di una proteina virale che funziona da immunogeno per stimolare la produzione di anticorpi ad ampio spettro. L’aspetto più complicato è la quantità di richiami che sono previsti. In trial di fase preclinica, su animali, in un anno sono stati fatti fino a 10 richiami e si è visto che i booster sono un aspetto fondamentale per stimolare il sistema immunitario nel modo più opportuno. Il trial sull'uomo è in Fase 1 e arruola individui sani con l’obiettivo di verificare che ci sia stimolazione di questi anticorpi contro il virus. In un secondo momento, se questo trial produrrà i risultati attesi, si procederà con i test su pazienti. Sicuramente le aspettative sono elevate e questo tipo di tecnologia combinata potrebbe rivelarsi vincente anche per lo sviluppo di vaccini contro altri virus. E’ quello che tutti noi speriamo", conclude Richter.

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