SCIENZA E RICERCA

Quando ricordare ferisce: il ruolo della memoria nel PTSD

Cosa succede nella nostra mente quando un ricordo traumatico torna, improvviso, a tormentarci? Perché alcune persone riescono a superare esperienze drammatiche mentre altre ne restano prigioniere per anni? Una nuova teoria proposta da alcuni ricercatori e ricercatrici dell’Università di Washington (USA) prova a rispondere a queste domande cambiando prospettiva sul disturbo da stress post-traumatico (PTSD).

Il PTSD è una condizione psicologica che può svilupparsi dopo aver vissuto o assistito a un evento traumatico. Si manifesta con ricordi intrusivi, incubi, ansia ed evitamento di tutto ciò che ricorda il trauma, interferendo con la vita quotidiana. Negli studi su questo disturbo molta attenzione è stata posta sulla codifica iniziale nella memoria, ma i processi di recupero dei ricordi successivi all’evento traumatico sono probabilmente altrettanto importanti, se non di più. E capire come funzionano potrebbe facilitare la resilienza, il recupero naturale e terapeutico delle persone che soffrono di questo disturbo.

Nel recente articolo pubblicato su Behaviour Research and Therapy, il gruppo di ricerca statunitense propone un nuovo modello, chiamato Dynamic Social Retrieval Theory (DSRT), che interpreta il PTSD come il risultato di un processo di riattivazione della memoria di tipo dinamico e sociale. Non sarebbe quindi soltanto l’evento traumatico in sé a determinare la sofferenza, ma il modo in cui i ricordi di quell’evento sono continuamente rievocati, modificati e consolidati nel tempo — attraverso pensieri, conversazioni, immagini, interazioni sociali e culturali.

Meglio ricordare o dimenticare?

“Un ricordo non è come una polaroid: la metti in un cassetto e poi vai a riprenderla” ci spiega Andrea Stocco professore di neuroscienze all’Università di Washington e coautore del paper. “L’idea intuitiva di come funziona la memoria intrusiva del PTSD è che queste polaroid continuano a venire fuori dal cassetto anche se non vogliamo aprirlo, ma non è così: i ricordi si formano e poi si trasformano, non vengono mai solo pescati dal cassetto, sono rivissuti dal cervello e per questo continuamente modificati”.

E c’è anche un altro elemento da considerare, ovvero il ricambio cellulare dei nostri neuroni, secondo Stocco: “chi ha un’esperienza traumatica vent’anni fa, la ricorda ancora benissimo dopo due decenni, ma nel suo cervello non c’è più un solo neurone che originariamente aveva codificato il ricordo che invece è ancora lì”. Infatti, dopo 20 anni i circuiti della memoria sono “completamente diversi, perché nel frattempo alcune cose sono state dimenticate, altre che non c’erano sono state inserite nella memoria. Questo è importante per capire non solo come funziona la memoria nel PTSD dopo diversi anni, ma anche la traiettoria del recupero terapeutico delle persone che ne soffrono”.

Nel modello DSRT proposto da Stocco e colleghi, ogni attivazione della memoria è un evento di retrieval cioè un recupero che cambia le connessioni neuronali e influenza ciò che ricordiamo in futuro. Il ricordo dell’evento traumatico, spiegano nell’articolo, non resta immobile nel cervello ma si riorganizza di continuo, a seconda del contesto emotivo e sociale in cui viene richiamato. Anche dimenticare, spesso visto come una perdita, è in questa prospettiva una funzione adattiva: un modo per il cervello usa di ridurre la competizione fra ricordi e proteggere la salute mentale.

Un altro aspetto centrale che emerge dalle ricerche è il ruolo della dimensione sociale. Infatti, le persone con PTSD possono essere esposte a eventi di recupero dei ricordi traumatici, che assumono molte forme, da conversazioni con amici e persone care, interazioni sui social media, richiamo intenzionale, pensieri spontanei, rivissuti con o senza stimoli ed evitamento dei promemoria traumatici. È anche per questo che le esperienze con una forte componente interpersonale, come violenze o guerre, tendono a lasciare segni più profondi.


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Dalla teoria alla pratica clinica

Anche se, come dice Andrea Stocco, “molti revisori dell’articolo erano scettici, perché sostenevano che stavamo sottovalutando il ruolo dello stress o che ci stavamo allontanando dalla base fisiologica dell’apprendimento per rinforzo”, le possibili implicazioni terapeutiche del nuovo modello proposto dal team dell’Università di Washington non mancano. Infatti inquadrare il PTSD come un disturbo della memoria apre nuove strade per intervenire sui processi di richiamo e consolidamento del ricordo.

Per spiegarci meglio il ricercatore cita anche un esperimento condotto da una sua studentessa: “abbiamo indotto in modo controllato piccoli ricordi traumatici in volontari sani, chiedendo loro di valutare l’intensità emotiva di immagini negative e violente. Dopo qualche giorno alcune persone dicevano di continuare a pensare per esempio all’immagine di un bambino con la deformazione al volto”. Insomma non si trattava di un trauma come subire un’aggressione, ma era sufficiente a produrre un piccolo effetto clinico.

La studentessa ha quindi applicato un modello di memoria usato nel loro laboratorio, basato sul cosiddetto effetto spacing, che normalmente indica quali intervalli di tempo massimizzano la memoria. “Abbiamo semplicemente invertito l’equazione”, racconta Stocco, “chiedendoci: qual è invece l’intervallo che minimizza la possibilità di ricordare queste immagini?”. Il risultato è stato controintuitivo: presentare gli stimoli tutti insieme, senza intervalli, riduce drasticamente gli effetti intrusivi. “Chi vedeva le immagini una dietro l’altra non riportavano quasi nessun ricordo intrusivo; chi che le vedeva distanziate aveva perfino incubi”.

Questo però è l’esatto contrario di quello che si fa in terapia per trattare il PTSD, come dice Stocco: “se una persona ha subito un trauma, si consiglia di prendersi un periodo di pausa, poi si inizia a fare delle sedute distanziate di una o due settimane e così via. Ma con queste spaziature stai facendo proprio quello che gli educatori ti dicono di fare quando studi: non studiare tutto di colpo, e in verità in questo caso è la cosa migliore, perché non vuoi ricordartelo”. E questa osservazione potrebbe avere implicazioni pratiche in situazioni dove l’esposizione al trauma è inevitabile, come per i vigili del fuoco o il personale militare.

Il trauma come processo, non solo come evento

In pratica, la nuova teoria proposta dal gruppo di ricerca dell’Università di Washington propone di interpretare un trauma non solo come “evento” ma anche come “processo”. Non sarebbe solo ciò che è accaduto a definire la nostra sofferenza, ma anche come e quando lo ricordiamo o lo raccontiamo. Ed è proprio in questa dinamica — fatta di ricordi che si accendono, si spengono e si ricompongono — che si gioca la possibilità di guarire.

Tenendo però bene a mente, conclude Stocco, che “il ricordo di un evento traumatico non è disfunzionale in sé, ha una funzione evolutiva: serve a ricordarci il pericolo e a evitarlo in futuro. Ma se continuiamo a riattivarla in modo incontrollato, può diventare patologica”. E questo sembra trovare conferma anche nei riscontri ricevuti dopo la pubblicazione del paper, la maggior parte dei quali sono stati di sostegno, “abbiamo ricevuto varie email di ricercatori e professionisti in ambito clinico che ci hanno detto di sentirsi molto confortati dai nostri studi”.

Le implicazioni cliniche dunque evidenziano l’importanza del recupero delle persone con PTSD nella vita quotidiana, tenendo conto delle interazioni sociali e dei messaggi culturali. Oltre che nella relazione terapeutica per modellare la natura a lungo termine del ricordo e aiutare chi sopravvive a un evento traumatico a prosperare.

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