Foto: Asac - La Biennale Di Venezia
“Perché non fare prima un film come questo?” chiede un giornalista in sala stampa dopo la proiezione di Seberg dell’australiano Benedict Andrews, presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia. Effettivamente il tema del controllo da parte delle autorità per salvaguardare la sicurezza a discapito della privacy del singolo non è nuovo, e la fantascienza ci flirtava da parecchio tempo. È anche vero che Seberg moriva esattamente il 30 agosto di quarant’anni fa, ed è difficile pensare che sia una coincidenza, quando nel cinema le uscite cercano sempre di legarsi il più possibile ai sentimenti del momento.
Sicuramente molti conoscevano già Jean Seberg, perché la sua interpretazione di Fino all’ultimo respiro di Godard, a fianco di Belmondo, lascia poco spazio all’avanzare dell’oblio. E poi, naturalmente, c’è la storia delle ustioni, di quando in Santa Giovanna ha interpretato Giovanna d’Arco rimettendoci la pelle, in senso letterale.
Pochi però conoscono il resto della storia, il suo coinvolgimento con i Black Panthers e soprattutto la persecuzione da parte dell’FBI che con lei ha superato di gran lunga il confine tra controllo passivo e ingerenza ingiustificabile. Per quanto il dibattito sia tutt’altro che risolto, al giorno d’oggi sembra in qualche modo tollerata la sorveglianza del singolo, in nome di un bisogno di sicurezza nato da paure più o meno giustificate, in particolare dopo la tragedia dell’11 settembre. Più difficili da accettare sono invece le ingerenze pratiche nella vita di qualcuno, specie se la decisione sulla sua pericolosità è presa in modo arbitrario da pochi individui di potere: la Seberg ha avuto un crollo dopo che gli agenti le hanno ucciso l’amatissimo cane, le hanno distrutto la vita privata e il matrimonio e l’hanno portata a tentare il suicidio durante una gravidanza, che si concluse con la morte della sua bambina dopo pochi giorni di vita.
Jean Seberg era una preda facile: quando si trattò di schierarsi a favore dei diritti civili, non ci pensò due volte, perché il suo cuore aveva la voce più alta del buon senso. Lo fece con una sorta di candore autodistruttivo, presentandosi in un quartiere nero con un auto di lusso: voleva dare una mano, perché era la cosa giusta da fare e perché ne sentiva quasi un bisogno viscerale. E sì, forse era anche un’incosciente, e sicuramente era fragile di nervi, ma il suo desiderio di cambiare il mondo può essere liquidato con la sua fragilità emotiva? Le persone che la circondavano le facevano inutilmente notare che si stava mettendo nei guai, persino un agente dell’FBI sceglie di metterla in guardia, ma lei continua per la sua strada, senza preoccuparsi delle conseguenze anche se poi, come prevedibile, ne viene travolta.
Di sicuro, alla Seberg non si può rimproverare di non averci provato, di essersi adagiata sui privilegi che la sua condizione di diva le aveva conferito come altri avrebbero fatto al suo posto e di non aver perseguito ciò che riteneva importante. Alla fine, sia nell’ambito della sorveglianza compulsiva che per quanto riguarda la vita di Seberg risuona la massima di Benjamin Franklin:
“ Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza