CULTURA

Sepúlveda, il più amato dagli italiani

A venticinque anni dalla pubblicazione del primo romanzo, Luis Sepúlveda è certamente uno degli scrittori «più amati dagli italiani», con una lunga scia di libri di grande successo e ben otto milioni di copie vendute soltanto nel nostro paese. E proprio il suo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore è stato il libro scelto dai cittadini e dagli studenti di Padova per la prossima edizione di One book one city, che vedrà quel romanzo al centro di numerose iniziative curate dall’Università e dal Comune di Padova nel corso del 2019

In questi giorni, Sepúlveda è in Italia per presentare il suo nuovo libro, la più recente delle sue favole, intitolata Storia di una balena raccontata da lei stessa stessa (oggi, 21 novembre 2018, l’autore è ospite de La Fiera delle Parole alle 18.30 all’interno del Palazzo della Ragione di Padova, Ndr). Al centro della storia, stavolta, c’è un grande capodoglio. Un bambino lafkenche, una tribù mapuche del Sud del Cile, il cui nome significa «Gente del mare», raccoglie una conchiglia su una spiaggia, e da quella conchiglia si leva una voce, carica di memorie e di saggezza. È la voce della balena bianca, l’animale mitico che per decenni ha presidiato le acque che separano la costa dall’isola di Mocha, sacra ai nativi. Dalla storia di Mocha Dick, un capodoglio che a metà dell’Ottocento aveva distrutto una nave baleniera, la Essex, Herman Melville aveva tratto ispirazione per il suo Moby Dick. Sepúlveda, adesso, inverte la prospettiva: mentre Melville raccontava delle balene dal punto di vista degli uomini, qui sono gli uomini a essere osservati dal punto di vista delle balene. Una cosa che solo una favola può fare. E nelle favole gli animali servono a mettere noi uomini davanti a uno specchio, a vederci per come siamo davvero. Da dove è partito lo scrittore cileno per raccontare questa storia e per trovare la «voce» della sua balena?

«Il romanzo di Melville per me è stato quasi iniziatico come lettore, e gli ho reso più volte omaggio, ma il protagonista del suo libro è il capitano Achab, mentre il capodoglio è in fondo secondario. Io invece volevo capire perché quel grande capodoglio aveva attaccato la Essex, mentre di solito i grandi mammiferi marini sono pacifici e non attaccano gli uomini. Sono riuscito a farlo mettendomi nei panni di un bambino lafkenche, un popolo originario che ha un rapporto stretto, ancestrale con il mare. Poi ho cercato la voce per raccontare la storia. Ho sentito che io, come autore, dovevo restarne fuori, dovevo soltanto ascoltare la balena che raccontava le proprie vicende e la malvagità a cui a volte può arrivare l’essere umano.»

In questo libro mescoli favola, storia (quella di Mocha Dick) e leggende, quelle della cultura lafkenche…

«Per me era fondamentale raccontare l’antica cultura dei lafkenche. Una parte dei miei antenati è mapuche e da ragazzo andavo in vacanza dai miei parenti indigeni. Due volte alla settimana arrivava un vecchio che raccontava le storie di quel popolo e tutti lo ascoltavano con profonda attenzione. Mi ha sempre colpito la leggenda che racconta come i lafkenche morti vengano portati da quattro balene all’isola di Mocha, in attesa che muoia l’ultimo di quel popolo. A quel punto, dice la leggenda, tutti insieme, guidati dalle balene, intraprenderanno il viaggio verso l’ultimo luogo, nell’estremo Occidente, dove le loro sofferenze finiranno per sempre. E l’ho incorporata nel libro. Perché è straordinario il modo in cui quelle leggende, sia pure attraverso la tradizione orale, rendano quel popolo consapevole della propria storia».

Nel tuo libro sono in gioco due concezioni del rapporto fra uomini e animali, fra uomini e natura: da un lato il mondo mapuche, per il quale l’uomo è parte della natura, dall’altro il nostro, quello occidentale, in cui l’uomo si sente padrone della natura e si limita, incoscientemente, a sfruttarla. E infatti ancora oggi i mapuche sono in prima linea contro gli scempi ambientali della loro terra.

«I mapuche sono stati l’unico popolo indigeno che non si è mai arreso ai conquistatori spagnoli, i quali hanno dovuto siglare con loro un trattato di pace. Poi, al momento dell’indipendenza, il Cile e l’Argentina hanno iniziato una vera e propria politica di sterminio, ripartendo la terra fra i coloni europei senza badare ai diritti di chi ci abitava da secoli. E i mapuche hanno sempre offerto una grande resistenza, mentre i governi cileni hanno risposto con l’indifferenza o, più spesso, con una forte repressione. Oggi nel territorio mapuche è stata imposta una specie di legge antiterrorismo, per cui ogni manifestazione di dissenso viene brutalmente repressa. La cosa curiosa è che lo stato cileno non è più il proprietario di quelle terre vastissime, che sono state consegnate a imprese multinazionali per lo sfruttamento dei boschi e del mare. Il Cile è l’unico paese che ha privatizzato il mare e l’acqua dei fiumi, dei laghi e dei ghiacciai. Cinquemila chilometri di costa sono proprietà di sette aziende multinazionali. Questa popolazione del Sud del mondo non ha diritto alla terra, all’acqua, al mare. E così i mapuche continuano la loro resistenza, nella maggior parte dei casi assolutamente pacifica. Sono in prima linea contro lo scempio ambientale provocato dalle compagnie cartiere che devastano i boschi nativi e dalla costruzione di invasi per la produzione di energia idroelettrica, con l’allagamento di vasti territori. Ma la repressione non si ferma: pochi giorni fa è stato ucciso dalla polizia un giovane contadino che tornava semplicemente a casa sul suo trattore. Per fortuna, ci sono state moltissime manifestazioni di solidarietà in tutto il Cile».

Per i mapuche la rivendicazione dei propri diritti è strettamente legata alla preservazione dell’ambiente, un tema che è costantemente al centro dei tuoi libri.

«Perché abbiamo una dipendenza diretta dall’ambiente, che è ciò che rende possibile la nostra vita. Abbiamo pensato che il riconoscimento del valore della diversità fosse un dato acquisito, ma nel mondo capitalistico l’intromissione dei grandi interessi economici guidati soltanto dal lucro ci ha fatto fare molti passi indietro. La diversità è in pericolo. Pensate a Bolsonaro, il neopresidente brasiliano, il quale ha dichiarato senza alcuna vergogna che il suo scopo è farla finita con la diversità dell’Amazzonia, con la sua diversità etnica e biologica, per trasformare quel polmone naturale della Terra in un grande campo coltivato, condannando tutti i popoli locali all’estinzione e noi a subire ancora di più le conseguenze del cambiamento climatico. Per questo èfondamentale continuare a difendere la diversità, che rende possibile il miracolo della vita. E per questo, nella mia vita e nella mia letteratura, mi sento un attivista della difesa dell’ambiente».

Fra le tue balene c’è un grande senso di comunità, che abbraccia capodogli, balene azzurre, narvali, megattere… C’è, insomma un Noi, che però non è escludente, tant’è vero che include anche gli uomini, almeno alcuni uomini. Un altro concetto che ti è molto caro è quello del Noi, contrapposto all’individualismo che invece domina le nostre società.

«Il Noi è il senso della comunità, dell’appartenenza, della possibilità e della necessità di condividere. Io sono cresciuto in una cultura proletaria, in un quartiere proletario dove nessuno era mai solo, dove la solidarietà era grande. E questo dava una forza enorme. Oggi più che mai è importante il recupero di quel Noi, della solidarietà, del senso di interdipendenza fra gli uomini. Nessuna idea di futuro è possibile se si pensa soltanto dal punto di vista dell’individuo isolato. Il merito individuale certamente esiste, ma acquista un senso soltanto se e quando è al servizio della collettività. La pseudocultura che dice che l’individuo è la condizione naturale dell’essere umano condanna l’umanità all’apatia sociale, alla mancanza di fiducia nell’altro. Tutto ciò che l’umanità ha raggiunto è stato il prodotto di uno sforzo collettivo, e questo non si deve mai dimenticare».

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