CULTURA

Sguardi d'artista sull'ebraicità declinata al femminile

Antonietta, lo sguardo all’insù, il ciuffo di capelli ribelli, la veste verde, suona il violino. Antonietta Raphaël ha trentatré anni quando si ritrae così. Il violino se l’era portato con sé a Londra e Parigi, e poi a Roma, assieme agli spartiti, una Menorah e un’edizione antica delle Metamorfosi di Ovidio. Lituana di nascita, arrivava in Italia anche con un importante bagaglio artistico che le permise prendere parte, unica donna, al sodalizio artistico di via Cavour: un gruppo di intellettuali, fra i quali Giuseppe Ungaretti, Enrico Falqui e Scipione,  che prende il nome dall’indirizzo al quale Antonietta e il marito, l’affermato pittore Mario Mafai, vivevano. Nelle sue tele s’intrecciano elementi di religione e sogno, leggende chassidiche, occhi allungati, tappeti etnici, spartiti e preghiere, sensualità e movimento obliquo. Il suo arrivo generò l’effetto di “una ragazza all’americana in una camera di educande”, raccontò divertito il giornalista Alberto Francini nel 1929, in occasione dell’esposizione alla Camerata degli Artisti. Dirompenti, la personalità e lo spirito artistico di Antonietta, riscattarono la marginalità che la società tradizionalmente riservava alle donne. Ebree per di più; quindi prima di tutto madri, mogli, figlie, regine della domesticità. 

Accanto ad Antonietta, accomunate da genere e identità religioso-culturale, ma anche da impeto artistico e quieto affrancamento dal pregiudizio, stanno le altre protagoniste della mostra Ebraicità al femminile: Alis Levi, Gabriella Oreffice, Adriana Pincherle, Paola Consolo, Lotte Frumi, Eva Fischer, Silvana Weiller. Otto donne ebree, artiste che attraversano il Novecento italiano, protagoniste dei salotti borghesi animati da intellettuali, artisti, personaggi di primo piano della cultura. Poliglotte, studiose, viaggiatrici per svago o per necessità, per studio o in fuga dal mondo che si spezza nell’Italia fascista, nelle leggi razziali, nelle persecuzioni. 

Eva Fischer oggi ha quasi 93 anni. Nata in Croazia, internata, fuggita in Italia, diventò partigiana. La Shoa ha strappato a Eva più di trenta familiari, fra cui il padre: un dolore inumano che lei tace, ricoprendolo di colori primari, gialli rossi blu, e di oggetti delineati con vigore - biciclette, barche nella bella Amalfi, mercati, case rampicanti. E poi, due grandi quadri, uno vicino all’altro: gli stessi colori – blu, rosso e verde – lo stesso gioco di sovrapposizioni, dove al colore non corrisponde completamente l’oggetto, ma di questo rimane il disegno mentre il colore, fluido, cambia posizione. I quadri sono, a destra, Scuola di ballo: scarpette, tutù, gambe in esercizio; a sinistra Meditate che questo è stato: una montagna di scarpe accatastate, una porta di legno, filo spinato, pareti nere d’ombra.

Suscita impressione conoscere i particolari delle loro vite, dei viaggi, delle amicizie, degli studi nelle piccole scuole di Nudo e dai maestri privati, rubati al tempo e agli spostamenti che la guerra e il loro genere imponevano, anche nel difficile ruolo di mogli: di Mafai, o Levi, o Martinelli, o di altri la cui ombra le ricopre e allo stesso tempo le spinge. Come Adriana Pincherle, che frequentava gli ambienti letterari romani col fratello Alberto (Moravia) e nel proprio salotto ospitava Morante, Flaiano, Pannunzio, Berenson, Montale. I colori di questa fauve romana sbigottiscono: stoffe cremisi su cui si appoggiano frutta e fiori arancio, guanti neri sulla tovaglia blu, un gatto siamese che cerca di acchiappare pappagalli verdi declinando infinite gradazioni di rosso sullo sfondo. La prospettiva si distorce e contorce, e si ricompone nelle pennellate sovrapposte che fanno dimenticare la perfezione prospettica in favore di un trionfo di sfumature e contrasti. 

L’espressionista Lotte Frumi, invece, diventò veneziana dopo essere nata a Praga e migrata a Parigi e aver conosciuto Schiele e Kokoschka, il cui ascendente segnò indelebilmente i suoi ritratti trasfigurati e lividi, illuminati da luci chiare, fredde. Accanto alle sue tele, la mostra padovana declina, sala dopo sala, artista dopo artista, le varie concezioni dell’arte del Novecento italiano, dal post-impressionismo lagunare alle influenze mitteleuropee, dagli esiti astratti e informali al bizantinismo, accomunando le autrici in un unico abbraccio multiforme e in unico racconto al femminile, singolare e plurale insieme. 

Chiara Mezzalira

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