L’ultimo libro, 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare), pubblicato lo scorso mese di ottobre da Laterza, sta suscitando un notevole interesse, come usa dire, di critica e di pubblico. Così come quello appena precedente, Immigrazione. Cambiare tutto, pubblicato sempre con Laterza nel gennaio 2018. L’autore è Stefano Allievi, sociologo dell’università di Padova.
Lo abbiamo intervistato.
Professor Allievi, in tutta Europa, anzi in tutto l’Occidente, il sentimento associato alle migrazioni umane è diventato la paura, talvolta la vera e propria fobia. Perché? Ci sono, per così dire, cause oggettive che rendono le migrazioni un fenomeno preoccupante o è solo una percezione di un pericolo infondato? Nel qual caso, a cosa è dovuta questa percezione?
La doverosa premessa per un sociologo è che la percezione è un fatto reale. Già al primo anno di sociologia partiamo con il “teorema di Thomas”, secondo cui, se una cosa è percepita come reale essa è reale nelle sue conseguenze. Quindi, se anche fosse solo una percezione, la paura associata alle migrazioni è un fatto reale. Poi però dobbiamo dire che sono successe molte cose che poco hanno a che fare con le migrazioni ma hanno fatto sì che le migrazioni siano diventate un target negativo.
Quali sono queste cose?
Le principali sono i fenomeni legati alla globalizzazione e anche alla mobilità: noi umani non ci siamo mai mossi come ora. Va detto che noi abitanti dei paesi sviluppati, nel senso di più ricchi, ci muoviamo molto di più rispetto agli abitanti dei paesi poveri. Tra questi ultimi, i migranti dei paesi poveri che hanno lasciato casa, alcuni si sono trovati molto bene nel luogo dove sono approdati, si sono arricchiti, altri hanno pagato un prezzo salato, hanno avuto problemi a collocarsi. Sono spaesati. Non a caso ho intitolato Spaesati uno spettacolo teatrale ricavato dai miei libri sull’emigrazione presentato nei giorni scorsi. Per inciso, il più spaesato non è chi ha cambiato paese ma chi è rimasto a casa sua e l’ha vista cambiare. Tuttavia è indubbio che abbiamo assistito, stiamo assistendo, al superamento delle frontiere, che è un superamento culturale e anche fattuale: ognuno di noi ordina online prodotti dalla Corea o dall’America che arrivano in un giorno. Quindi merci, denaro, informazioni si muovono tantissimo. Noi umani ci muoviamo un po’ meno, ma comunque più di prima. Anche noi umani stiamo contribuendo al superamento del concetto di frontiera. Ed è questo rilassamento che sta portando per reazione a nuova domanda di confini. Sta portando alla creazione di nuovi confini. A un nuovo ritorno degli ismi: fondamentalismi, localismi, tribalismi, etnicismi, terrorismi, razzismi, autonomismi.
La nuova globalizzazione ha portato dunque a un spaesamento, per usare una parola che le è cara, con conseguente domanda di nuove certezze?
C’è una perdita di identità, vera o percepita: è lo stesso. E la perdita di identità porta con sé una domanda di ridefinizione della domanda: chi siamo noi? Siamo bianchi, cristiani... E questo ci distingue dagli altri. Noi siamo i buoni. Anche se non è vero ci piace crederlo. A questa prima domanda ne consegue un’altra: chi sono gli altri, diversi da noi? Ebbè: sono i neri, i mussulmani. Solo loro gli altri. Sono loro i cattivi.
Ma la percezione negativa delle migrazioni dipende solo dal fattore identitario?
No, quello identitario è solo un aspetto del quadro. Un altro, sempre legato alla globalizzazione, è il processo di arricchimento di una parte importante della popolazione a scala mondiale. Un miliardo di persone è uscito in pochi anni dalla soglia della povertà. Ma questo grande e positivo arricchimento, in realtà, ha prodotto anche un aumento esponenziale delle disuguaglianze sia nei paesi più ricchi che in quelli più poveri. All’interno dei paesi avanzati stiamo assistendo a un impoverimento della classe media, conseguente a un periodo di crisi economica. Ebbene, sempre in un periodo di crisi la diminuzione delle aspettative, delle speranze di miglioramento, produce una chiusura identitaria - si tende a ripiegarsi su sé stessi – con la conseguente ricerca di un capro espiatorio. Per ritornare alla sua prima domanda: questi due fenomeni spiegano, a mio avviso, molto più che le migrazioni in sé, l’astio nei confronti dell’immigrato.
Ma, fermo restando che la percezione è un fatto, non ci sono anche fattori oggettivi? In altri termini, il fenomeno migratorio sta aumentando? L’Europa è davvero una fortezza assediata?
Se andassimo a contare le persone che vivono in un Paese diverso da quello dove è nato, ci accorgeremmo che a scala planetaria rappresentano il 3,3% della popolazione mondiale. Esattamente come 50 anni fa. La spinta migratoria non è cambiata negli ultimi tempi. Ovviamente è cambiata la cifra assoluta, perché oggi la popolazione mondiale è numericamente maggiore. Ma la percentuale dei migranti è la stessa. Naturalmente ci si sposta in maniera diversa. In Europa, per esempio, la percentuale dei migranti è maggiore della media mondiale: un po’ di più dell’11% della popolazione del continente è costituita da migranti. E tuttavia noi europei non abbiamo un quadro preciso del fenomeno. Non ci accorgiamo che i migranti per necessità, in primo luoghi i rifugiati per motivi di guerra o politici, si spostano dal sud del mondo verso altri paesi del sud del mondo. In Europa ne arriva una parte minuscola.
In questa percezione non suffragata da dati reali, in questa ricerca di un capro espiatorio ai problemi di impoverimento del ceto medio, lei vede una qualche analogia con fenomeni che si sono verificati negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso che sono poi sfociati nell’affermazione del nazismo e del fascismo?
Tendo ad essere prudente con le analogie forse perché faccio il sociologo e non lo storico. Ci sono meccanismi che sono sempre quelli: il meccanismo del capro espiatorio è sempre quello, gli ebrei negli anni ‘20 e ‘30, i mussulmani, gli immigrati oggi: è lo stesso. I capri espiatori sono sempre gli stessi: il processo è parte della storia dell’umanità e anche della storia sociale dell’umanità. C’è anche un’analogia per la situazione di crisi economica, dell’impoverimento delle classi medie. E questo porta senz’altro alla necessità di trovare nuovi orizzonti di gloria, nuovi ottimismi, un capo carismatico. Ma mi fermerei qui, perché la situazione globale è diversa rispetto al secolo scorso. Dubito che oggi sarebbe possibile mobilitare sotto la bandiera dei nazionalismi le folle osannanti degli anni ’20 e ’30 del XX secolo. Non nelle medesime dimensioni, almeno. Certo, oggi mobilitazioni nazionaliste sono possibili, ma avvengono con modalità diverse. Oggi lo scenario della globalizzazione è estremamente complesso, così quello che sta succedendo è che la mobilitazione delle masse non sta andando in un’unica direzione. La società è eccessivamente pluralizzata: chi odia gli immigrati, chi li sposa, chi si rifugia nel dialetto, chi lavora in giro per il mondo, chi fa cose molto diverse nelle diverse fasi della propria vita. Insomma, c’è maggiore eterogeneità.
Eppure ci sono alcuni fattori che inducono molti a ritenere che i flussi migratori aumenteranno. Il primo è quello demografico: faccio l’esempio dell’Africa che è nel pieno di vero e proprio boom demografico. Secondo lei questa dinamica demografica determinerà una pressione migratoria verso l’Europa?
La demografia sarà un fenomeno importante, gliene do atto. Ma bisogna distinguere fenomeni diversi perché, certo, c’è una fetta di persone che ha interesse a spostarsi, ma ce n’è un’altra che non ne ha affatto voglia. Da questo punto di vista, però, inviterei a riflettere su un fatto: c’è nel mondo una zona nella quale è possibile circolare liberamente. Questa zona è l’Unione Europea, che non si rende conto di quale sfacciata fortuna abbia di poter contare su una libera circolazione di mano d’opera. Ma detto questo bisogna anche considerare che se bastasse la pressione demografica o la crisi economica a spiegare ciò ci saremo già spostati tutti. L’Africa avrebbe già traslocato in Europa da decenni e l’Europa nelle Americhe … Queste due ragioni, che vengono spesso evocate anche da me come fattori concomitanti, e lo sono, non sono però necessariamente cause di migrazione nel senso tecnico del termine. Sono fattori come la diseguaglianza, sia economica che demografica, che fanno aumentare notevolmente la spinta a migrare. L’esempio molto evidente per noi in Europa è la Grecia che ha passato una terribile crisi economica avendo un eccesso di mano d’opera. In Germania il reddito pro capite è circa il doppio della Grecia e la possibilità di fare carriera, di avere successo sono molto maggiori. A ragionare solo sui dati ci saremmo aspettati che la Grecia traslocasse tutta in Germania, ma non è accaduto. Questo ci deve far riflettere, da un lato. Dall’altro la questione demografica che lei pone è importante, ma invito a guardarla non dall’Africa bensì dall’Europa: è qui che ci sono elementi tali da farci drizzare i capelli. Perché gli scenari sono estremi, addirittura terrificanti: più li studio e più mi rendo conto quanto sia miope la nostra politica sulle migrazioni. Prendiamo i dati italiani. In questo momento ci sono in Italia 3 cittadini attivi per ogni 2 pensionati. Nel 2045 il rapporto sarà di 1 a 1. Questo è un invito ai giovani ad andare via. Chi vuole restare in un paese di vecchi che devi mantenere?
Dunque ci sarà una spinta a migrare dall’Italia e dagli altri paesi europei dove il tasso di natalità è basso. Ma solo per paura di doversi fare carico degli anziani?
No, non solo. Un paese dove i cittadini hanno la mia età o di più è un paese triste, insopportabile, che soprattutto non innova. Le startup – le imprese innovative ad alto rischio - o la ricerca scientifica non le fanno gli over 60. Un paese anziano come il nostro è un paese che non ha futuro. Lo stiamo già sperimentando: un paese in recessione demografica – e noi ci siamo entrati per primi nel mondo, nel 1995 –, è automaticamente in recessione economica. La recessione demografica innesca una spirale negativa. È, per l’appunto, un invito per i pochi giovani che ci sono ad andarsene. Qui nel nord-est ci sono 2 over 65 per ogni under 15. Dal 2018 al 2028 in tutta Italia ci sarà un tale calo di bambini (e per fortuna ci sono gli immigrati con i loro alti tassi di fertilità ad attenuarlo) per cui perderemo 55000 posti di insegnanti. Capisce che da questo punto di vista uno che ha studiato all’Università di Padova per insegnare dove va? Da un’altra parte, dove ci sono i bambini.
Di questo si parla poco nella sfera pubblica.
La cosa terrificante nel dibattito pubblico italiano – non solo in politica, ma anche sui media – è che dimostra che abbiamo un’idea primitiva dell’economia. Ci viene detto che l’economia è come una torta, per cui se siamo in 10 abbiamo 10 grosse fette, ma se ne arrivano altri 2 avremo fette più piccole. Non è affatto così. No, non è così. L’economia è una torta che lievita continuamente in dipendenza del numero di persone che arriva. Se siamo in 10 e ne arrivano altri 2, la torta cresce: e tutti avremo una fetta più grande. Se andiamo in una città con 5 milioni di abitanti, già piena, abbiamo più probabilità di trovare lavoro che se restiamo nel nostro piccolo borgo con 300 abitanti.
Quindi sbagliamo a contrastare l’immigrazione?
Sì. Ci stiamo facendo del male da soli. In altri paesi c’è un dibattito pubblico su questo, naturalmente differiscono le ricette anche riguardo le migrazioni o rispetto alle politiche di natalità, ma se ne discute.
L’altro fattore che volevo sottoporle sono gli effetti dei cambiamenti climatici, che, secondo alcuni, condizioneranno i flussi migratori.
È una concausa anche questa. L’Africa produce una piccola parte di inquinamento, ma ha la sfortuna che quando si innalza la temperatura a scala globale di un grado, nella zona intorno al Sahara si registra un aumento di 2,5 gradi. Il che significa desertificazione. Le persone che coltivano la terra e allevavano gli animali sono giocoforza costrette a spostarsi. Già si stima che in quell’area, entro il 2050, ci saranno 135 milioni di profughi climatici.
Punteranno tutti verso l’Europa?
Niente affatto. La verità è anche che la grande maggioranza di costoro andrà nel paese vicino, non si sposterà di molto, non arriverà in Europa.
Si sposterà dalle campagne alle città?
Questo è un altro fattore predittivo significativo: l’urbanizzazione. E ci riguarda.
Perché?
Perché se uno ha già fatto il salto dalla campagna alla città sarà disponibile a farne altri. Sarà disponibile a vivere negli slams del mondo. Si prevede che entro il 2050, 800 milioni di persone saranno disposte a vivere in questi posti invivibili con strutture, anche architettoniche, precarie.
È vero che i migranti che arrivano in Europa, dall’Africa, dal Medio Oriente, abbiano un livello di istruzione superiore alla media dei paesi dai quali provengono?
Non più. Era vero quando c’erano le migrazioni regolari, perché nella storia non sono mai partiti quelli più poveri. I poverissimi non riescono neanche ad immaginare un progetto e comunque non hanno gli strumenti culturali ed economici per realizzarlo. Quindi è sempre stato vero, in passato, che venivano da noi persone di fasce sociali che potremmo definire, in termini europei, della piccola borghesia in su. Ma questo finché c’erano canali regolari di migrazione. Certo oggi è ancora vero che da noi arrivano migranti laureati che lavano i piatti nei ristoranti perché, non siamo in grado di valorizzare quel capitale umano che in entrata è un guadagno e in uscita è una perdita. Ma da quando le migrazioni sono solo irregolari – in Italia abbiamo ormai quasi il 100% di irregolari –, il livello di istruzione di chi arriva è diminuito drasticamente. Prendiamo quelli che vengono dalla Libia dall’Africa sub-sahariana. Per loro la Libia era il paese di destinazione, non di transito. Poi è arrivato qualcuno furbetto europeo – la Francia e l’Inghilterra, segnatamente, ma noi ci siamo accodati –, che ha detto di buttare giù la Libia (intesa come stato unitario) senza sostituirla con niente. Creando così quel vergognoso disastro umanitario che c’è tutt’ora. Si è distrutta una nazione e così 600.000 persone sono state costrette a spostarsi. È complicato poi tornare indietro. Ma ricordiamoci che quelle persone avevano un progetto migratorio adatto alla Libia. Erano adatti e disponibili a un lavoro manuale che lì andava bene.
Ritorniamo al tema degli irregolari che stanno modificando il profilo culturale dei migranti in arrivo.
Da quando gli immigrati sono soprattutto irregolari è nato un problema, Ed è nato per colpa nostra. Gli stati europei hanno deciso di bloccare in buona sostanza gli arrivi regolari perché sostenevano e forse pensavano che gli immigrati regolari tolgono il lavoro. Hanno fatto delle leggi protezionistiche, illudendosi che sarebbero bastate a bloccare i flussi di immigrati. Ma non è andata così. Non poteva andare così. È come se una legge vietasse vini e alcolici stranieri consentendo la vendita solo del nostro prosecco e di altri vini italiani. Sicuramente tutti produttori sarebbero contenti, ma non è che non ci sarebbero più vini e alcolici stranieri: entrerebbero di contrabbando.
Gli stati europei hanno rinunciato a governare i flussi migratori?
Certo, è così. Hanno detto che non volevano più occuparsi dei migranti, così c’è stato qualcun altro che se ne è fatto carico, andando anche villaggi dove il livello di istruzione è basso, a vendere il nuovo sogno americano traslocato in Europa. Da quando è così che partono anche persone con livelli di istruzione molto bassi.
Ci sono dati su questo?
Certo. Da molte indagini scientifiche risulta che il livello di istruzione dei nuovi che arrivano, salvo coloro che si sono salvati da un conflitto, per esempio i siriani, è molto basso. Il numero di analfabeti, al contrario, è molto alto. Il che determina un’impennata dei costi dell’integrazione. Tutto questo è una conseguenza diretta delle nostre folli scelte.
Bisognerebbe cambiare tutto, lei dice, anche nel titolo di un suo libro. Cosa in particolare?
La prima cosa è proprio questo: la politica dell’immigrazione e dell’integrazione. Non è che se la sanità o la scuola non funzionano, lo stato non se ne occupa. Al contrario: se ne deve occupare di più. Deve intervenire, cambiare. Invece con l’immigrazione gli stati hanno fatto così, non se ne sono occupati più ed è una follia. Una dimissione di responsabilità gigantesca, che la pubblica opinione plaude ma di cui pagherà le conseguenze. E molto di più pagheranno i figli degli italiani. Quindi occorre ricominciare a gestire questo fenomeno.
L’immigrazione non è dunque un problema? Tutto è un problema, anche i figli: ma non è per questo che smettiamo di farli. L’immigrazione è un fenomeno che va gestito.
Ripeto, come?
Riaprendo i canali regolari di immigrazione. Certo, possiamo mettere delle condizioni. Decidere i numeri, i criteri. Ora il meccanismo è semplice: se sei un africano e vuoi venire in Itali o in Francia o altrove in Europa, vai in ambasciata e subito ti dicono che non è possibile. Lasciando così aperta a chi vuole migrare un’unica opzione: l’immigrazione clandestina. Invece noi dovremo dire che ci sono delle condizioni: per esempio, prendiamo solo persone con la fedina penale pulita. Potremmo chiedere di pagare subito il biglietto aereo di ritorno, così se commetti un reato ti rispediamo a casa spese tue e, a differenza di quanto accade oggi, il tuo paese è costretto a riprenderti perché abbiamo un accordo.
E vale la ricetta di concedere il visto d’ingresso solo a chi ha già un lavoro certo nel paese d’arrivo?
No. Dobbiamo uscire dall’ipocrisia “ti do il visto perché hai un lavoro”. Non funziona così in nessuna parte del mondo. Ti do il visto per cercare lavoro. Se non lo trovi entro un certo tempo, torni indietro. Possiamo porre anche altri vincoli: ti paghi in anticipo anche l’assicurazione, così se ti ammali ti puoi curare.
Cosa ci guadagnerebbe un immigrato ad accettare tutte queste condizioni?
Tutto. Perché arriverebbe in Europa in 6 ore, invece che in un anno e sei mesi, che è la media per passare solo dal Corno d’Africa alla Libia, con tutti i pericoli. E poi bisogna aggiungere tutto il lungo e incerto viaggio dalla Libia all’Italia. Con flussi regolari perché regolati il migrante avrebbe la certezza di arrivare subito e di arrivare vivo: oggi muore 1 su 8 tra quelli che partono. E i morti non sono neppure contati tutti.
E noi cosa ci guadagneremmo?
Noi ci guadagneremo in ordine e regolarità: sapremmo chi sono gli immigrati e otterremmo che il loro livello culturale medio sarebbe più alto.
Come otterremo quest’ultimo risultato?
Per esempio mettendo dei punteggi sull’istruzione. Chi ha più titoli viene premiato. Guardi però che il mercato del lavoro ha bisogno di altro. Le cinque principali domande di lavoro in Veneto, per esempio, sono: per colf e badanti; per i settori di retroguardia nel turismo; per la logistica; per braccianti; per bassa manovalanza in edilizia. Questi sono tutti lavori che un italiano non farebbe perché ha studiato e preferisce andare all’estero.
Regolarizzare il numero di immigrati serve alla nostra economia ma non ritiene che sia anche un investimento: nel senso di “aiutiamoli a casa loro”, perché le rimesse dei migranti sono il mezzo più efficace e sostenibile per sviluppare un’economia nei paesi poveri?
Beh, sì. Le rimesse dei migranti sono state un elemento determinante in Italia mezzo secolo fa, perché se c’è stato il boom negli anni ‘60 è stato, certo, grazie a vari altri fattori, ma le rimesse dei nostri migranti hanno svolto un ruolo primario. Oggi per molti paesi costituiscono la seconda o la terza voce attiva del bilancio pubblico. In Africa i soldi che arrivano per aiuti e sviluppo sono circa 50 miliardi di dollari l’anno: un aiuto, appunto, di importanza primaria. Perché le rimesse sono “soldi buoni”, entrano cioè nell’economia reale e non vanno ad arricchire le consorterie corrotte, né fanno il transito di altri soldi, come gli aiuti, che arrivano e ritornano immediatamente in Europa, in Svizzera, nelle nostre banche.
Gli aiuti non servono?
Il non detto degli aiuti è che, con una stima di decine di miliardi di dollari, i soldi partono dall’Europa ma rientrano a stretto giro. Finora hanno “aiutato l’Europa a casa sua” mentre facevano finta di aiutare l’Africa e gli africani a casa loro. È importante tenere conto di ciò visto che parliamo tanto di globalizzazione, questo è anche un effetto della globalizzazione, peraltro tra i più antichi.
E gli investimenti delle aziende europee in Africa possono essere di aiuto?
Certo, l’investimento delle è di grande importanza anche l’investimento delle imprese nei paesi di origine dei flussi migratori. Perché se le imprese italiane ed europee vanno in Africa, ci guadagnano tutti. Gli africani, ma anche le nostre imprese, ovvero noi. Sono investimenti strategici e remunerativi. Vede, noi abbiamo una idea pauperistica dell’Africa. Invece ci sono zone che crescono anche a due cifre, con tassi di sviluppo che noi ci sogniamo, tanto che – lo dico senza gusto provocatorio, perché un’analisi di realtà non è una profezia –, non tra 50 ma tra soli 10 anni avremo una quota significativa di italiani che migrerà in Africa per lavorare. Anche lavori come il mio, altamente qualificati. E andranno lì gli italiani perché questi lavori saranno pagati molto meglio. Ripeto, lo dico senza polemica, è una pura constatazione: i professori universitari saranno pagati molto meglio in Africa che in Italia. Quindi l’Italia perderà ulteriore capitale culturale.
Professore, lei dice: cambiamo tutto. Facciamo politiche di integrazione. Ma qualcuno sostiene che con i migranti che vengono dall’Africa e di religione islamica c’è una difficoltà di integrazione maggiore rispetto ad altri. In Svezia, paese che da sempre attua politiche di integrazione coi migranti, in anni passati è stato facile integrare persone che venivano dal sud dell’Europa, Italia compresa, o magari dall’America Latina. Mentre oggi sembrano incontrare difficoltà a integrare persone provenienti dall’Africa o dal medio oriente. È una percezione infondata?
È una domanda che non ha una risposta semplicistica: sì o no. Primo: non è vero che sono una parte cospicua i migranti che vengono dall’Africa. Per esempio in Italia sono circa il 20% degli immigrati, mentre gli europei sono il 50%. Secondo: non c’è alcun dato che valuti la differenza di religione come elemento di difficoltà di integrazione e di disagio. Non esistono dati che valutino che i mussulmani si integrano meno dei cristiani. Sui tassi di delinquenza abbiamo la stessa situazione: ci sono comunità mussulmane o cristiane che delinquono molto ma altre, sia mussulmane che cristiane che delinquono meno degli autoctoni. Quindi la religione non è una variabile. Le variabili significative sono il tasso di sviluppo del paese dal quale provengono e le politiche di integrazione perché, lo ricordo, l’integrazione è come un matrimonio, funziona se lo vogliono entrambi. Quindi se ai migranti islamici sbattiamo in faccia che la loro religione ci repelle, se facciamo leggi contro le moschee. contraddiciamo i nostri stessi valori e principi. Diciamo che il diritto di culto non è universale: il nostro sì, è universale, ma non il vostro. Se facciamo questo facciamo in modo che la profezia della mancanza di integrazione si autorealizzi. Dopodiché è vero che ci sono differenze su cui è più facile aggregare l’opinione pubblica dei paesi ospitanti: una è proprio quella religiosa, l’altra è il colore della pelle. Il colore della pelle è un fattore che non è legato né all’intelligenza, né alla cultura, né alla disponibilità all’integrazione: è ancora un fattore di differenziazione che viene percepito di fatto come reale e questo spiega molti fenomeni, anche molto spiacevoli. Chi ha un colore della pelle diverso viene percepito come un “non umano” o come un non completamente umano. Questo tipo di categoria razziale spiega, per esempio, perché tra noi italiani, come verificato da molte ricerche, siamo i primi del mondo nel turismo sessuale pedofilo: ci permettiamo di fare cose in Tailandia o a Cuba che in Italia avremo orrore a fare, proprio perché c’è l’idea che l’altro non è altrettanto umano.