SOCIETÀ

Conosci la tua città?

Probabilmente oggi non sono molti in Italia a ricordare il nome di William “Holly” Whyte, autore di un libro, The Organization Man, che con i suoi due milioni di copie vendute fu un vero e proprio bestseller quando uscì negli Stati Uniti, alla metà degli anni Cinquanta, e che venne poi tradotto in italiano da Luciano Gallino (L'uomo dell'organizzazione, Einaudi 1960). Laureato a Princeton, marine durante la seconda guerra mondiale, Whyte cominciò a lavorare come redattore per Fortune, dove rimase una dozzina d'anni, realizzando tra l'altro la fortunata serie di interviste a manager e funzionari di grandi imprese che sarebbe stata alla base di Organization Man. Ma dall'analisi delle trasformazioni subite dalla società americana con l'affermarsi delle corporations, l'interesse del giornalista si spostò in seguito all'evoluzione degli spazi metropolitani, e questo nuovo campo di studi diventò per Whyte  – grazie anche al sostegno di Laurence S. Rockfeller, che finanziò molte sue ricerche – una seconda, e ancora più soddisfacente, carriera.

Munito di taccuino e di macchina fotografica, Whyte, insieme a un piccolo gruppo di collaboratori, cominciò a percorrere ogni giorno le strade di New York per captare dal vivo le dinamiche urbane, monitorando gli spazi pubblici – parchi, piazze, giardinetti  – nelle varie ore del giorno, individuando i percorsi più battuti, osservando il comportamento dei pedoni all'interno dei flussi di traffico. Fu un lavoro gigantesco, durato diversi anni, quello del suo Street Life Project, i cui risultati furono condensati nel 1980 in un libro, The Social Life of Small Urban Places, accompagnato da un mediometraggio che porta lo stesso titolo. Un'opera, osservò il New York Times nell'obituary di Whyte, nel 1999, che è insieme complemento e parallelo al fondamentale saggio di Jane Jacobs VIta e morte delle grandi città.

A riportare l'attenzione dei lettori sullo Street Life Project è stata Maria Popova qualche mese fa in un post del suo seguitissimo blog Brain Pickings, nel quale ha sottolineato l'acutezza e la precisione delle osservazioni di Whyte. Come, per esempio, questa: “Un buon spazio pubblico attrezzato comincia all'angolo della strada. Se è un angolo di forte passaggio, avrà una vita sociale animata per conto suo. La gente non si limiterà ad aspettare il semaforo verde per attraversare. C'è chi si fermerà a chiacchierare, chi si attarderà in un lungo commiato. Se all'angolo c'è anche un chioschetto di bibite, la gente tenderà a far capannello in quel punto e ci sarà un notevole viavai tra lo spazio attrezzato e l'angolo della strada”.

Commentando The Social Life of Small Urban Places, Popova ne ha messo in luce l'attualità, per esempio a proposito della tendenza, oggi anche più accentuata rispetto ai tempi in cui Whyte operava, di sorvegliare ogni spazio pubblico: “invece di recintare queste aree e di inondarle di telecamere a circuito chiuso, dovremmo mirare a renderle sempre più accoglienti” , anche perché (e qui è lo stesso il giornalista-sociologo a parlare) “è molto più semplice creare spazi funzionali per le persone che li frequentano, che fare il contrario – e per la vita di una città la differenza è incredibile”.

Sono parole ancora valide oggi, come è valido il metodo di Whyte, basato sull'osservazione ravvicinata, la raccolta di un grande numero di dati, un atteggiamento privo di pregiudizi. Per questo Colin Ellard, psicologo sperimentale all'università canadese di Waterloo, in un articolo uscito di recente sul Guardian, rende un lungo omaggio a Whyte come padre degli studi di antropologia urbana. Se il metodo è lo stesso rispetto a trenta o quarant'anni fa, aggiunge però Ellard, sono cambiati, e di molto, gli strumenti per attuarlo: “Ora possiamo andare ben oltre la semplice osservazione dei comportamenti degli abitanti di una città... Possiamo misurare il loro sguardo, il battito cardiaco, lo stato del loro sistema nervoso. Possiamo perfino misurare le loro onde cerebrali. Se siamo disposti a installare nei nostri cellulati apposite applicazioni, possiamo registrare non soltanto il punto in cui ci troviamo e i nostri movimenti, ma anche il nostro stato d'animo”. Tecnologie, ci tiene a precisare Ellard, che saranno ben presto, e in parte sono già, alla portata di tutti: “La vasta disponibilità di sensori che misurano la nostra fisiologia, di potenti piattaforme mobili e di reti informatiche che ci collegano ai laboratori di ricerca hanno dotato le metodologie di Whyte di una cassetta degli attrezzi ricolma di inedite ed eccitanti opportunità”.

In effetti, l'armamentario di cui oggi dispongono i sociologi e gli psicologi urbani è tanto vasto da ricordare un parco-giochi, anche perché spesso gli esperimenti vengono condotti non per le strade metropolitane, ma in laboratorio, facendo ricorso al 3D. Per esempio Kevin Barton di Relive (Research laboratory for immersive virtual environments) ha “costruito” un ambiente composto da ben trenta isolati, secondo due modelli urbanistici differenti: una griglia ben ordinata, come quella di Manhattan, e una più tortuosa, simile a quella delle città europee. Piuttosto prevedibilmente, l'esperimento ha mostrato che le reazioni psicologiche dei soggetti variavano moltissimo, a seconda dell'inserimento nell'uno e nell'altro tipo di ambiente.

Ancora Ellard riferisce di altri esperimenti, condotti invece attraverso gli spazi reali della città, nei quali i partecipanti indossano dispositivi tali da consentire una misurazione costante delle reazioni cognitive ed emotive alle varie esperienze vissute. In uno, per esempio, è stato rilevato che di fronte agli spazi verdi, non solo migliorava l'umore dei soggetti della ricerca, ma si registrava un effetto benefico sul loro sistema nervoso autonomo: ottime munizioni, commenta lo psicologo, per tutti quelli che si battono perché nelle città si realizzino piccole oasi fra i grattacieli. 

L'interazione fra umani e città è insomma un terreno aperto alle esplorazioni e potrebbe diventare una vera e propria disciplina in cui convergono neuroscienze e design urbano. Tanto maggiore, quindi, il merito di Whyte per avere aperto la strada, avendo a disposizione solo carta, penna e macchina fotografica.

Maria Teresa Carbone

 

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