SOCIETÀ
Euro: i sonnambuli di Bruxelles verso il disastro

Bruxelles, febbraio 2015. L'incontro tra il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e il premier greco Alexis Tsipras. Foto: Reuters/Yves Herman
Il 29 luglio 1914, a poche ore dallo scoppio della Prima guerra mondiale, i giornali francesi titolavano sull’assoluzione di Henriette Caillaux, la moglie dell’ex primo ministro Joseph Caillaux che qualche mese prima aveva ucciso il direttore di le Figaro, Gaston Calmette. Tutto era iniziato con l’attentato di Sarajevo del giugno 1914: la decisione del governo austriaco di inviare un ultimatum alla Serbia dopo l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando mise in moto una serie di reazioni a catena, mentre le élite dirigenti dei paesi coinvolti sembravano del tutto incapaci di valutare le catastrofiche conseguenze. L’imperatore tedesco era appena rientrato da una crociera nel Baltico, il presidente francese Poincaré era appena stato in Russia ed era in visita di stato in Svezia, in Austria e in Russia non ci si rendeva conto della portata di ogni decisione diplomatica o militare, come ha ben dimostrato un libro recente dello storico Christopher Clark, intitolato I sonnambuli (il testo classico sullo scoppio dei conflitti nella storia è La marcia della follia di Barbara Tuchman).
Domenica 8 febbraio i giornali italiani facevano i loro titoli su una frasetta di Silvio Berlusconi, “Rischiamo una deriva autoritaria”, come se la battuta di un politico-showman condannato in via definitiva per evasione fiscale fosse più importante della possibile disgregazione della zona euro in seguito all’uscita della Grecia (e, infatti, nelle stesse ore, il ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, polemizzava a distanza con il nostro Pier Carlo Padoan sulla sostenibilità del debito italiano). Apparentemente, il fatto che l’11 febbraio i greci debbano presentare una loro proposta dettagliata per rinegoziare il debito e che il 12 ci sia una riunione dei capi di stato e di governo della Ue, dove potrebbe avvenire la rottura definitiva, non è stato considerato. Come si sa, il governo tedesco ha confermato il suo “no” a tutte le proposte di ristrutturazione e, per il momento, la Commissione europea, il Fondo monetario e la Banca centrale europea sono sulla stessa posizione.
Lo scenario dovrebbe essere chiaro a tutti gli attori: se non c’è accordo la Grecia non sarà in grado né di rimborsare il debito alle prossime scadenze e neppure di pagare per più di qualche settimana le pensioni o gli stipendi dei dipendenti pubblici. Di fronte alla sordità europea a Tsipras non resterebbe quindi che uscire dall’euro, tornare alla dracma, affrontare la fuga dei capitali, la corsa agli sportelli bancari, l’inflazione e l’isolamento sul piano internazionale (anche se Russia, Cina e Iran potrebbero avere interesse a dargli una mano). Atene piangerebbe, ma Bruxelles e Francoforte non avrebbero nulla di cui ridere: il default greco metterebbe immediatamente in dubbio la solidità delle finanze portoghesi, spagnole e italiane. L’intera zona euro sarebbe esposta a pressioni speculative fortissime e non è detto che la garanzia di Draghi, “Faremo qualsiasi cosa per salvare la moneta unica”, sarebbe sufficiente.
Naturalmente, ogni decisione dipende dai tedeschi e dalla loro ideologia secondo la quale l’inflazione è figlia di Satana e un debito è una “colpa”. Proprio perché si tratta di ideologia (cioè di una visione del mondo profondamente introiettata dagli attori, come spiegava Althusser molti anni fa) i margini di manovra del governo di Berlino sono ristretti. La Merkel deve tenere conto di anni e anni di propaganda “antimediterranea” da parte della sua stampa popolare nella quale greci, spagnoli e italiani sono descritti come fannulloni e parassiti che hanno beneficiato dell’euro a spese di chi paga le tasse in Germania. Governi di imbroglioni che hanno truccato i conti per ottenere quella moneta unica in nome della quale i tedeschi hanno rinunciato all’adorato Deutsche Mark, il simbolo della loro rinascita dopo il 1945. Non occorre andare troppo lontano per capire quale sia la forza di questo mito politico.
In uno studio del 2005, Edna Ullmann-Margalit dell’università ebraica di Gerusalemme aveva analizzato i processi decisionali nel caso di Big decisions, cioè di scelte che sono contemporaneamente trasformatrici dell’identità dell’attore, irrevocabili, prese in piena coscienza di causa e nelle quali il corso d’azione scartato lascia comunque un segno. Il primo elemento è il carattere “trasformativo” della decisione: la persona che la prende sarà, un attimo dopo, differente e senza possibilità di tornare indietro. C’è poi il carattere irrevocabile delle grandi decisioni: una dichiarazione di guerra non può venire annullata con un telegramma, l’adesione (o l’uscita) da un’unione federale o da una moneta unica non può venire cancellata con un tratto di penna.
Nel caso della prima guerra mondiale è chiaro che tanto l’Austria quanto la Serbia consideravano lo scontro come necessario per mantenere la propria identità: il proprio rango di grande potenza nel caso di Vienna, il proprio programma di riunificazione degli slavi del Sud in una Grande Serbia nel caso di Belgrado. Entrambi i governi erano prigionieri di miti politici che essi stessi avevano creato. La catastrofe, perfettamente visibile come conseguenza della scelta di entrare in guerra, non era sufficiente per dissuaderli da un corso d’azione legato a ciò che consideravano la propria essenza politica.
E oggi? La Merkel non vuole certo rioccupare il Partenone ma i due paesi sono divisi da qualcosa di più di conteggi da ragionieri: c’è la storia di occupazione tedesca e di una lunga e sanguinosa guerriglia durante la seconda guerra mondiale, che nessuno ha dimenticato: Alexis Tsipras ne ha parlato domenica in Parlamento, chiedendo il rimborso dei danni di guerra parzialmente cancellati nel 1953. Per tutta la sinistra greca il simbolo dell’indipendenza nazionale è Manolis Glezos, che a 92 anni è ancora idolatrato per aver strappato la bandiera nazista dall’Acropoli, nel 1941. I cartelli dei manifestanti sono decorati volentieri di caricature dei leader tedeschi o di slogan come “Merkel, non abbiamo paura di te”. Tsipras deve fare i conti non solo con le promesse fatte agli elettori ma anche con i miti politici che per la sua gente contano più del prezzo del pane (non si dimentichi che la restaurazione della monarchia nel 1944, e la repressione della guerriglia, avvennero in maniera coloniale, per volontà e con l’aiuto di Gran Bretagna e Stati Uniti).
Tsipras e la Merkel sono politici stagionati, che conoscono il valore e la necessità del compromesso, tanto più sulla scena internazionale. È anche probabile che sinceramente desiderino un accordo che permetta alla Grecia di risollevarsi e alla zona euro di continuare a esistere. Non è detto, però, che ci riescano: hanno tra le mani una bomba innescata, con una miccia molto corta, e potrebbero trovarsi rapidamente in una situazione in cui nessuno dei due potrebbe più andare davanti ai propri elettori e dire: “Abbiamo dovuto fare un accordo perché non c’era altra soluzione”. Ci vorrebbero due uomini di stato estremamente lungimiranti e coraggiosi per uscire dalla situazione creata in 15 anni di errori attorno alla moneta unica. Ultimamente, politici della statura di Churchill e De Gaulle in Europa se ne sono visti pochi.
Fabrizio Tonello