SOCIETÀ

Nella guerra per la Groenlandia e Panama c’entra pure lo Stretto di Malacca

Il presente articolo è risultato del Laboratorio didattico "Giornalismo politico internazionale" coordinato dal dottor Matteo Matzuzzi (Il Foglio) e organizzato dal corso di laurea magistrale in Relazioni internazionali e diplomazia (responsabile scientifico: professore Benedetto Zaccaria). Il laboratorio è finanziato dal dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell'Università di Padova per l'anno accademico 2024/25.


Ormai Donald Trump non fa più notizia quando dice qualcosa di sconvolgente. Dal giorno del suo (secondo) insediamento, il presidente americano ha reso chiare le sue priorità in politica internazionale: recuperare terreno nella sfida globale con Pechino e riaffermare la grandezza statunitense. Rientrano in quest’ultimo ambito le rivendicazioni territoriali più o meno velate dal sapore ottocentesco: Make America Great Again, appunto. Ma a che prezzo?

La Groenlandia: un’ossessione geopolitica per Trump

Con il referendum consultivo del novembre 2008, la Groenlandia ha visto allargarsi la propria autonomia in materia legislativa, giudiziaria e nello sfruttamento delle risorse naturali. L'interesse per l’isola va ben oltre il ghiaccio che la ricopre: è un territorio ricco di petrolio, uranio, metalli preziosi e terre rare. Ed è proprio su queste ultime che oggi si concentra l'attenzione maggiore, trattandosi di materiali usati per la costruzione di conduttori, dispositivi elettronici, auto elettriche e mezzi militari ad alta tecnologia. Il cambiamento climatico – che ha portato all’innalzamento delle temperature e allo scioglimento dei ghiacci – ha reso più agguerrita la partita per accaparrarsi le materie prime, data la accresciuta facilità nell’estrazione dei minerali dal suolo.

Già nell’agosto del 2019 il Presidente Trump aveva puntato l’attenzione sulla Groenlandia dichiarando a vari consiglieri della Casa Bianca di voler “acquistarla”. Sembra che la storia si stia ripetendo con l’inizio del secondo mandato. L’interesse della Casa Bianca è stato riconfermato dalla recente visita del vicepresidente Vance, il quale ha accusato la Danimarca di non aver fatto “un buon lavoro” per la protezione dell’isola. “Il popolo groenlandese si autodeterminerà, noi speriamo che scelgano gli Stati Uniti. La loro sicurezza è la nostra sicurezza”, ha affermato il vicepresidente dalla base militare statunitense Pituffik, nel nord-ovest dell’isola.

Queste dichiarazioni, in linea con quelle trumpiane, sono state accolte in Europa con indignazione, ma gli abitanti dell’isola non la pensano tutti allo stesso modo. Alcuni ad esempio sperano che questa possa essere l’occasione perfetta per la tanto attesa cesura con la Danimarca, altri sono pronti ad accogliere gli investimenti statunitensi. La maggioranza di loro (attorno all’85%) è però concorde sul fatto di non voler far parte degli Stati Uniti. A conferma di ciò il Primo Ministro groenlandese Mute Bourup Egede ha commentato direttamente dal suo profilo Facebook: “Non vogliamo essere né americani, né danesi, siamo Kalaallit (groenlandesi). Non siamo in vendita e non possiamo semplicemente essere presi. Il nostro futuro lo decidiamo noi in Groenlandia”. Quello che i groenlandesi vogliono è una Groenlandia prospera ma indipendente. Quello che Trump vuole è un avamposto economico e militare a guida statunitense. 

Il piano del presidente incontra però un ostacolo decisivo dall’altra parte del Pacifico: le ambizioni della Cina. Negli ultimi anni la Groenlandia si è avvicinata molto a Pechino, partecipando in varie occasioni alla China Mining Conference and Exhibition a Tianjin, un foro di discussione relativo a politiche e tecnologie dell’estrazione mineraria. Un possibile scenario potrebbe contemplare accordi commerciali Cina-Groenlandia, con i quali Pechino espanda la sua rotta commerciale portando a completa realizzazione la Polar Silk Route, alternativa a quella passante per lo Stretto di Malacca. Circa il 60% del commercio marittimo cinese transita per lo stretto nell’indo-pacifico, mettendo la Cina in una posizione fragile rispetto all’instabilità politica dell’area: un’eventuale chiusura al transito delle merci cinesi isolerebbe infatti il Paese il Paese. Allo stesso tempo dal potenziamento della rotta artica la Groenlandia ricaverebbe ingenti finanziamenti, sicuramente maggiori rispetto a quelli che oggi riceve dalla corona danese. L’isola si trova dunque ad affrontare pressioni crescenti nell’equilibrio tra le grandi potenze.  

Il Canale di Panama: ritorno sulla scena geopolitica

Sin dalla sua creazione il Canale ha un’importanza cruciale sia per gli Stati Uniti che per il commercio globale. Passato dall’amministrazione statunitense al controllo del governo panamense nel 1999 grazie al Neutrality Treaty, che ne prevede la neutralità permanente, negli ultimi anni ha visto rafforzarsi in maniera consistente la presenza cinese, dando adito alle preoccupazioni degli Stati Uniti riguardo la perdita di influenza nell’area. Più nel dettaglio, gli attori non statali legati a Pechino hanno svolto un ruolo fondamentale, che però non si è mai tradotto in un controllo formale dello stretto (ancora affidato all’Autorità del Canale di Panama), al contrario di quello che ha affermato il Presidente Trump. Queste imprese hanno mantenuto, nel tempo, una certa indipendenza nelle loro operazioni commerciali: si pensi alla Hutchinson Port Holding di Hong Kong, che possedeva i due principali porti agli sbocchi del canale venduti a metà marzo alla società di investimento newyorkese BlackRock. Pechino, con toni severi, ha reso noto il suo disappunto in un comunicato pubblicato sul sito dell’Ufficio cinese per gli affari di Hong Kong e Macao. Sebbene il proprietario della HPH abbia precisato che la cessione dei suoi porti rispondesse a valutazioni squisitamente commerciali, è curiosa la coincidenza temporale tra tale transazione e le dichiarazioni assertive della Casa Bianca. 

L’intervento economico di Pechino porta gli Stati Uniti a domandarsi quanto Panama possa rimanere indipendente nella gestione del Canale e fuori dal controllo della Cina. Trump, in una serie di dichiarazioni pubbliche, ha accusato il governo panamense di non garantire tariffe di favore agli Stati Uniti, definendole “ridicole”, e di non poter “permettere che un’infrastruttura così strategica sia soggetta ad influenze ostili”. Il presidente panamense José Raúl Mulino ha respinto le accuse ribadendo che “il Canale di Panama appartiene solo a Panama e nessuna influenza straniera ne influenzerà la gestione“. 

La rilevanza dell’istmo di Panama è aumentata soprattutto a seguito della siccità nel 2023, che ha visto lievitare le tariffe – per tutti, non solo per Washington – a causa della necessaria limitazione del passaggio delle navi. È chiaro, però, che l’aumento dei costi abbia un peso soprattutto per il paese che più utilizza il canale, ovvero gli Stati Uniti. Un peso che si riflette non solo sui privati americani, ma anche sul bilancio della Difesa di Washington, dati i continui spostamenti di centinaia di navi militari in tutti e sette i mari del mondo.

Un nuovo (dis)equilibrio geopolitico?

È certo che il presidente, sebbene voglia ridurre gli impegni di Washington nelle istituzioni internazionali e limitare la portata delle alleanze, non sia affatto interessato a un ritiro degli Stati Uniti dalla scena globale, il cui carattere diventa sempre più assertivo e volto a difendere interessi unilaterali. Il prezzo di una politica estera così aggressiva potrebbe però essere alto. Il rapporto con Pechino e il riassetto delle alleanze internazionali sono incognite che accompagnano la strategia di Trump, minacciando la tenuta dell’ordine mondiale.

La Cina, che sta rispondendo alla politica estera statunitense con pragmatismo politico ed economico, continua ad essere il principale rivale degli Stati Uniti sul piano globale. Ne è un esempio la crescente rivalità in America Latina e nell’Artico, dove Trump, con l’idea di contenere l’espansione cinese, potrebbe non solo peggiorare i rapporti con i Paesi in questione – e i suoi alleati europei – ma anche indebolire la posizione degli Stati Uniti in un contesto internazionale multipolare.

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012