Haiti, l’Onu sceglie la forza: nuova missione per sopprimere le bande

Il presidente del Consiglio presidenziale di transizione della Repubblica di Haiti, Anthony Franck Laurent Saint-Cyr, REUTERS/Caitlin Ochs
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è deciso a risolvere una volta per tutte la questione di Haiti, scivolata ormai da anni nelle mani di centinaia di bande criminali che hanno devastato qualsiasi diritto, qualsiasi legge, qualsiasi istituzione, imponendo la violenza come unico parametro dell’ordine sociale. E martedì scorso ha deciso l’invio di una nuova missione sulla metà “maledetta” dell’isola Hispaniola (l’altra metà è la Repubblica Dominicana). Che non sarà una missione di pace, o di pura presenza simbolica, s’intuisce dalla denominazione: tra i compiti della “Gang Suppression Force”, che sarà formata da 5550 uomini (tutti caschi blu, più 50 civili), ci sarà anche l’allestimento di un nuovo ufficio delle Nazioni Unite che dovrà supportare l’attività della missione. Sembra un dettaglio, ma non è così: le bande armate hanno preso il controllo di oltre il 90% della capitale, Port-au-Prince: stuprano, rapiscono, saccheggiano, uccidono, prendendo possesso di infrastrutture civili, come scuole e ospedali. Non c’è più da mangiare, non c’è acqua potabile a sufficienza. Haiti ha più di 11 milioni di abitanti, e oltre 6 milioni hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria (sanitaria e alimentare), e non da oggi. Gli sfollati interni (coloro ai quali è stata requisita la casa, la terra, e sono stati costretti a spostarsi altrove in cerca di una qualche forma di sicurezza e di cibo) sono oltre 1,3 milioni. Gli omicidi, senza alcuna possibilità di perseguire i responsabili, sono il pane quotidiano: circa 5600 l’anno scorso, una media di oltre 15 al giorno. L’ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) stima che più della metà dei membri dei gruppi armati sono bambini.
Un passato da cancellare
Il voto del Consiglio di Sicurezza non è stato unanime: Russia, Cina e Pakistan si sono astenute, ma l’assenza di veti ha dato il via libera all’operazione. Secondo l’ambasciatore Vasilij Nebenzja, Rappresentante permanente della Federazione Russa presso le Nazioni Unite, che pure aveva riconosciuto la necessità di agire per arginare la gravità della crisi, la nuova missione è «un’avventura pericolosa e mal concepita». Uno dei punti più controversi riguarda il finanziamento della Forza, al momento affidato alle già precarie risorse ordinarie dell’Onu e basato su “contributi volontari” da parte degli Stati membri. Juanita Goebertus, direttrice per le Americhe di Human Rights Watch, ha commentato così il voto di martedì scorso: «Dopo mesi di sconsiderata inazione, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha finalmente fatto un passo per rispondere alla devastante crisi di Haiti. Ma affinché la nuova “Gang Suppression Force” sia efficace ed eviti di ripetere gli abusi del passato, dovrebbe avere finanziamenti sostenuti e prevedibili, personale sufficiente e solide garanzie del rispetto dei diritti umani». Il riferimento al passato non è casuale: nel 2021 è stato ufficialmente riconosciuto che una parte del contingente delle forze di pace dell’Onu schierato ad Haiti si era macchiano di crimini orrendi come lo sfruttamento sessuale e diversi abusi nei confronti della popolazione haitiana, soprattutto verso donne e bambini. Già nel 2006 un’inchiesta della Bbc rivelava che nel corso della missione di stabilizzazione “MINUSTAH”, avviata dopo il colpo di stato del 2004 che aveva portato alla fuga dell’allora presidente Jean-Bertrand Aristide, parte del personale Onu si era reso responsabile di ripetuti stupri contro donne e bambine, anche di appena 11 anni. Mentre un altro rapporto aveva accusato 114 peacekeeper dello Sri Lanka di aver messo in piedi un giro di pedofilia.
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Ed è proprio per questo, per le esperienze profondamente negative del passato, che gran parte degli haitiani non vede di buon occhio un intervento straniero. Come ci raccontava alla fine dello scorso anno la giornalista haitiana Colette Espinasse: «La comunità internazionale dovrebbe riconoscere i suoi ripetuti fallimenti e lasciare agli haitiani il compito di farsi carico del proprio destino cercando la propria strada. Naturalmente il sostegno sarà necessario, ma spetta agli haitiani determinarlo, incanalarlo, organizzarlo, richiederlo. Il sostegno precedente è stato troppo spesso egoistico, dettato dall’esterno e ha contribuito in gran parte a indebolire le strutture del Paese, rendendole più dipendenti e più vulnerabili. Per mettere in atto tutto questo è necessaria una leadership solida e assertiva». Ma è pur vero che la situazione effettiva, ad Haiti, non fa che peggiorare. Ed è per questo che la scorsa settimana, durante il dibattito generale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’attuale presidente del Consiglio presidenziale di transizione di Haiti, Laurent Saint-Cyr, ha espresso esplicito sostegno per l’invio di una nuova missione, dopo aver rimarcato che l’ultimo tentativo, guidato dall’esercito del Kenya, non ha prodotto alcun risultato apprezzabile, anche per carenze di personale e per difficoltà di finanziamento: «Ogni giorno vite innocenti vengono spente dalle pallottole, dal fuoco, dalla paura. Interi quartieri stanno scomparendo, costringendo più di un milione di persone all'esilio interno e distruggendo memorie, investimenti e infrastrutture», ha ricordato Saint-Cyr. «Omicidi, stupri di gruppo, carestie. È in corso una guerra tra criminali che vogliono imporre la loro violenza come nuovo ordine sociale e una popolazione inerme che lotta per preservare la propria dignità umana. Questo è il volto di Haiti oggi: un paese in guerra, una Guernica contemporanea, una tragedia umana».
Armi, violenza e traffico di droga
È presto per dire se la nuova missione dell’Onu, che sicuramente dovrà disporre di un adeguato equipaggiamento militare, riuscirà in qualche maniera a scalfire il predominio delle bande criminali sulla nazione caraibica, dilagato dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moise, ucciso nella sua casa sulle colline di Port-au-Prince il 7 luglio 2021 da un commando formato da 28 sicari, molti dei quali di nazionalità colombiana. Anche perché non è ancora chiaro quando sarà schierato il nuovo contingente («cinque volte più numeroso del precedente», ha rimarcato con soddisfazione l’ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU, Mike Waltz, che con Panama ha sponsorizzato l’operazione), né quali paesi forniranno nel concreto i soldati e gli agenti di polizia necessari, anche se il Canada ha già annunciato che sosterrà l’operazione con uno stanziamento di 40 milioni di dollari, più altri 20 milioni per garantire la sicurezza marittima nei Caraibi, con l’obiettivo di “fermare il flusso di armi e droga dentro e attraverso Haiti” (per gli Stati Uniti l’isola resta uno dei principali snodi del traffico di cocaina). Certo è che le bande criminali, se ne stimano oltre 200 in azione, spesso in feroce lotta tra loro (qui un recente reportage dell’emittente pubblica tedesca Deutsche Welle) non resteranno a guardare. Se davvero l’obiettivo è estirparle, ci saranno scontri, ci saranno ulteriori violenze. Come è evidente che fin quando non sarà ripristinato un ordine basato sulla legge e su istituzioni pubbliche con un minimo di solidità, in grado di indire elezioni libere, accessibili e sicure, è improbabile che il paese riesca a risolvere le cause profonde che hanno contribuito a portare all’attuale insicurezza. Pochi mesi fa il dipartimento di Scienze Politiche della Colorado Boulder University, nel ricordare le responsabilità e le colpe storiche degli Stati Uniti nella “distruzione di Haiti”, a partire dal massiccio invio di marines sull’isola deciso nel 1915 dall’allora presidente Woodrow Wilson, scriveva: «La politica estera americana nei confronti di Haiti è stata storicamente contaminata dal desiderio egoistico di far progredire l’economia e l’influenza degli Stati Uniti. La travagliante storia degli Stati Uniti con l’intervento ad Haiti sottolinea la necessità di un nuovo approccio, un approccio altruistico guidato dal desiderio di proteggere gli esseri umani piuttosto che uno motivato dal potere e dalla leva economica o politica».