SOCIETÀ

Il modello Germania. Virtù etiche? No, spietate scelte politiche

La Germania viene presentata oggi come il modello vincente che, grazie alle riforme e ai conti in ordine, si è conquistata una posizione di leadership economica e morale in Europa. Il Paese che, grazie ai suoi investimenti in istruzione e ricerca, ha saputo domare la tigre della globalizzazione e adesso spicca tra gli alleati europei. Una storia edificante, quasi una favola di LaFontaine che noi siamo chiamati a imitare, se vogliamo uscire dalla crisi.

E, come in tutte le favole, vi si mescola ciò che è e ciò che si vorrebbe che sia.

Lasciamo da parte le interpretazioni simil-Weberiane, come s’incontrano sulla stampa e nei discorsi della chiacchiera quotidiana, e cerchiamo una chiave di lettura dove più probabilmente possiamo trovarla: nella storia e nell’economia. Siamo nel 1990, la DDR si ricongiunge alla sorella occidentale da cui era rimasta separata per più di quarant’anni. Per raccogliere i fondi necessari alla riunificazione, la Germania alza i suoi tassi d’interesse, cosa che poi porterà alla crisi dello "SME credibile", il sistema di rapporti fissi fra le valute europee allora in uso, con l’uscita di lira e sterlina e ispirerà, in un tentativo di armonizzare le politiche monetarie, l’introduzione della moneta unica.

L’economia dell’ex-DDR però non regge alla rottura disordinata del Comecon, la comunità economica dei Paesi nell'orbita sovietica, nemmeno nei suoi settori più sani come la meccanica di precisione, e la Germania in un decennio raggiunge un picco di disoccupazione. Solo a partire dal 2003, con le "riforme Hartz", l’economia comincerà a riprendersi. In cosa consistono queste riforme che hanno fatto ripartire la "locomotiva d’Europa"? In buona sostanza, e con buona pace di chi cita gli stipendi degli operai WV, nella compressione della quota salari. Facendo leva sull’alta disoccupazione, i lavoratori tedeschi sono stati convinti ad accettare stipendi più bassi. Con prodotti di buona o ottima qualità a buon mercato, la Germania strappa quote di mercato in Europa ai suoi concorrenti – vale a dire i produttori del Sud Europa, Francia e Italia in primo luogo - ai quali presta inoltre le risorse per comprare. L’accumulo di debito privato ha poi portato alla crisi che stiamo vivendo, quando lo shock proveniente dagli Usa ha spinto i creditori a domandare i soldi indietro.

Nel frattempo, come mostrano i dati dell’Ocse, in Germania, le imprese cominciano a investire di meno e lo stato a spendere di più, perché, anche cumulando due o tre "minijobs" – i lavori a basso reddito e a tempo parziale introdotti dalle riforme Hartz appunto - è difficile affittare una casa e avere figli (tanto più che la Germania sta assistendo a un calo demografico), così che deve intervenire lo stato con sovvenzioni, pagate incrementando il deficit oltre le soglie permesse da Maastricht – mentre nello stesso momento paesi come la Spagna e l’Italia stavano riducendo il loro debito. L’uso scaltro della Bundesbank per finanziare i Bund, il debito pubblico federale ha poi permesso di mantenere i tassi d’interesse artificialmente bassi, insieme alle operazioni della KfW, il Kreditanstalt für Wiederaufbau ovvero la banca per la ricostruzione nata nel dopoguerra che, per regole contabili, non rientrano nel saldo dello stato tedesco. Nel frattempo gli investimenti languono e si cominciano a sentire segnali d’allarme. 

Insomma, uno scenario molto differente rispetto a quello vantato da chi ci propone un modello teutonico iper-efficiente. Ammettiamo pure che esso lo sia: la politica seguita finora è consistita nell’abbassare i prezzi per andare a incrementare le esportazioni e mantenere la domanda bassa per limitare la spesa interna, quindi le importazioni (anche se l’Ocse ci rivela che prima della crisi la Germania ha comprato in Cina più di quanto abbia venduto). Questo modello basato sull'export non solo non può applicarsi all’intera Eurozona, perché mancherebbero i compratori, ma è anche in contrasto con lo spirito dei trattati che miravano a rendere l’Europa immune da shock di domanda nel resto del mondo.   

Rimane però valida l’osservazione che la Germania investe in ricerca molto più dell’Italia. Anche qui forse la macroeconomia ha un ruolo maggiore di quanto il buon Max Weber non fosse disposto a riconoscere. Investire in ricerca quando le quote di mercato si sono molto ridotte non è necessariamente una mossa furba, perché si rischia di fallire prima del ritorno alla fase di sviluppo, o di non rientrare mai dell’investimento. Prima è necessario rientrare nei mercati da cui si è stati allontanati – nella condizione presente l’unica possibilità è comprimere la quota salari, dato il congelamento del cambio – e poi si può espandersi con nuovi prodotti. È quello che la Germania, appunto, ha fatto. È stato così anche per Apple: prima si sono abbassati i costi delocalizzando in Cina (dove Jobs è stato preso alla lettera) e poi si è arrivati sul mercato con prodotti innovativi (tra l’altro, in parte sviluppati dal governo americano). 

La conclusione della nostra favola è amara, soprattutto perché ci priva di una possibile soluzione (e spiegazione dei nostri mali) apparentemente a portata di mano, essere più virtuosi, e perché, in fondo, smentisce un legame tra moralità e successo. Le categorie etiche non si rispecchiano sempre in quelle economiche. 

Marco Barbieri

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