Norvegia: l’estrema destra accelera ma al governo restano i Laburisti

Jonas Gahr Store. Foto Javad Parsa/NTB/via REUTERS
La prima notizia è che in Norvegia l’estrema destra populista non è riuscita a dare la spallata decisiva al governo uscente laburista, pur raggiungendo un risultato enorme (23,9% dei voti per il Fremskrittspartiet, il Partito del Progresso, nel 2021 aveva appena l’11,7%) alle elezioni parlamentari che si sono appena svolte. Una notizia piuttosto insolita di questi tempi e a queste latitudini (in Svezia e in Finlandia governa stabilmente la destra). La seconda è che il centro-sinistra ha tenuto, soprattutto grazie al 28,2% dei consensi conquistato dal Partito Laburista, con l’attuale primo ministro Jonas Gahr Støre che così ottiene un secondo mandato e potrà formare un nuovo governo di coalizione, con il sostegno del Rødt (Partito Rosso, socialista), del Centre Party (agrario, di centro), della Sinistra Socialista (SV) e dei Verdi. A “tradire” la destra è stata la débâcle di Venstre, il Partito Liberale, suo alleato, che non è riuscito a superare la soglia del 4%. Mentre i Conservatori (Høyre) non sono andati oltre il 14,6%, il loro peggior risultato degli ultimi 15 anni (nel 2023 viaggiavano attorno al 33%). La coalizione di centro-sinistra ha conquistato 88 seggi, tre in più della maggioranza dello “Storting”, il Parlamento monocamerale norvegese, composto da 169 seggi. La destra si è fermata a 81 seggi. Buona, come spesso accade in Norvegia, l’affluenza alle urne: ha votato il 78,9% dei quattro milioni di elettori, una delle percentuali più alte degli ultimi anni. E per i prossimi 4 anni nulla cambierà: Norvegia e Svizzera sono gli unici paesi in Europa che non consentono lo svolgimento di nuove elezioni per la loro assemblea nazionale prima del termine del naturale mandato. Se un componente della coalizione decide di lasciare il governo, l’esecutivo procede per il tempo rimanente, anche se non ha più la maggioranza in Parlamento: com’era accaduto all’inizio di quest’anno, quando il Centre Party aveva deciso di ritirare i suoi 8 ministri per dissidi sulle questioni energetiche. Il Labour aveva deciso di accogliere le direttive dell’Unione Europea (di cui la Norvegia non fa parte, ma ne condivide il Mercato Unico, mentre è membro fondatore della Nato) sul consumo di energia rinnovabile, sulle prestazioni energetiche degli edifici e sull’aumento dell'efficienza energetica complessiva; i centristi sostenevano invece che le regole avrebbero danneggiato l’autonomia della Norvegia, che è il primo fornitore di gas in Europa (dopo l’invasione russa in Ucraina nel 2022, prima c’era il dominio del colosso Gazprom) e il quarto esportatore di gas naturale al mondo (dopo Stati Uniti, Russia e Qatar). Ora che la coalizione si è ricomposta, la questione dovrà essere nuovamente affrontata.
“Tassa sulla ricchezza”, posizioni differenti
Ma non sarà questa l’unica “spina” per il primo ministro Jonas Gahr Støre, 65 anni, che dovrà trovare il modo di far convivere cinque formazioni politiche che, soprattutto sulla “vicinanza” all’Unione Europea, hanno visioni spesso in contrasto tra loro (Laburisti e Verdi favorevoli, Partito Rosso e Centro-Agrario nettamente contrari, mentre i Socialisti non sono dichiaratamente schierati). Un sentimento di “non entusiasmo”, definiamolo così, condiviso oggi dal 55% degli elettori norvegesi che già in due consultazioni referendarie (nel 1972 e poi nel 1994) hanno respinto l’adesione all’UE. La coalizione di centro-sinistra dovrà anche affrontare il nodo della “tassa sulla ricchezza”, una norma storica per la Norvegia, in vigore dal 1892, che prevede un prelievo aggiuntivo fino all’1,1% su beni e azioni per un valore superiore a 1,76 milioni di corone norvegesi (poco più di 150mila euro al cambio attuale), ma che ha innescato negli ultimi anni una consistente fuga, di capitali e di cittadini abbienti, verso la Svizzera, assai più tollerante per quel che riguarda la tassazione delle ricchezze. La leader dell’estrema destra Sylvi Listhaug (c’è chi l’ha definita “la Meloni norvegese”) ha chiesto apertamente l’abolizione della tassa sul patrimonio, mentre i Laburisti hanno promesso “una revisione ad ampio raggio” dell’intero sistema di tassazione. Con il ministro delle Finanze, Jens Stoltenberg, ex segretario generale della Nato (si calcola da quando è entrato a far parte del governo i Laburisti hanno conquistato circa un 10% in più di voti) che si è però schierato contro la creazione di un sistema fiscale che faccia pagare meno tasse ai più ricchi. La cancellazione della norma, è stato calcolato, ridurrebbe di 34 miliardi di corone (2,9 miliardi di euro) le entrate per lo stato.
Ora Støre avvierà colloqui con tutte le forze politiche per formare, entro i primi di ottobre, il nuovo governo. «Il risultato dimostra che la socialdemocrazia di centro-sinistra può vincere le elezioni anche quando soffia forte il vento da destra», ha dichiarato il primo ministro commentando la vittoria. «Ma siamo rispettosi nei confronti degli altri partiti, e troveremo soluzioni anche con loro». Una ricerca di grandi intese su temi importanti e “sentiti”, come il sostegno all’Ucraina e la difesa (la Norvegia deve gestire 196 chilometri di confine con la Russia, con il valico di Storskog che è stato chiuso lo scorso anno). Ma basta guardare i numeri per comprendere che la strada del primo ministro non sarà semplice: che per ottenere l’approvazione in Parlamento di leggi importanti (come quella di bilancio) dovrà necessariamente ottenere l’appoggio di tutti gli alleati, anche dei più piccoli, talmente è ristretto il margine di maggioranza.
Gli investimenti del Fondo Sovrano
Una delle questioni chiave, di cui molto si è dibattuto in campagna elettorale ma che continuerà a essere un tema centrale anche nelle prossime settimane, riguarda il Government Pension Fund Global, il fondo sovrano istituito nel 1990 dal Parlamento norvegese per gestire i proventi derivanti dall’estrazione di petrolio e gas nel Mare del Nord in modo responsabile (è noto per le sue politiche di investimento etico) e garantire benefici per le generazioni future. Attualmente è uno dei fondi d’investimento più grandi del mondo (detiene azioni di circa 9mila aziende in 72 paesi) ed è una delle principali fonti di ricchezza della Norvegia, ma è stato molto criticato per la sua partecipazione in società israeliane. La Sinistra Socialista ha già annunciato che non sosterrà la coalizione se il fondo non accetterà di disinvestire completamente dalle aziende israeliane, poiché “la Norvegia sta contribuendo alla violazione del diritto internazionale investendo in società attive nei territori palestinesi occupati”. I Laburisti invece sono contrari, perché il gesto potrebbe essere interpretato come “un atto politico che viola la storica neutralità del fondo”. Dal 30 giugno a oggi il Government Pension Fund Global ha venduto le azioni che aveva in oltre due dozzine di aziende israeliane, compresa una società di motori a reazione che fornisce manutenzione ai jet da combattimento israeliani. Ma al 14 agosto, come riporta la Retuers, deteneva ancora partecipazioni in 38 società per un valore di 19 miliardi di corone (1,85 miliardi di dollari), in diversi settori, tra banche, tecnologia, beni di consumo e industriali. Il ministro delle Finanze Stoltenberg ha annunciato comunque che sono in programma altri disinvestimenti. Ma alla fine di agosto il fondo sovrano norvegese ha deciso di disinvestire completamente non soltanto da 5 banche israeliane, ma anche dalla multinazionale statunitense Caterpillar, dal momento che quei bulldozer sono attualmente utilizzati a Gaza dall’esercito israeliano per abbattere costruzioni e villaggi. La decisione è stata presa dal consiglio di amministrazione della Norges Bank Investment Management, che gestisce il fondo, su raccomandazione del suo consiglio etico: «C’è un rischio inaccettabile che le società contribuiscano a gravi violazioni dei diritti degli individui in situazioni di guerra e conflitto», è stata la giustificazione ufficiale. Già lo scorso anno il governo norvegese aveva riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina: «I palestinesi hanno un diritto fondamentale e indipendente all’autodeterminazione. Sia gli israeliani sia i palestinesi hanno il diritto di vivere in pace e sicurezza nei rispettivi Stati», aveva dichiarato il primo ministro.
Ma l’avanzata decisa dell’estrema destra norvegese, che segue la scia di quanto sta accadendo praticamente in ogni angolo d’Europa, non può essere sottovalutata, anche se a livello elettorale la questione sarà affrontata nuovamente nel 2029. Il Progress Party, anti-immigrati, anti-tasse, anti-élite di Sylvi Listhaug, che s’ispira a Ronald Reagan e a Margaret Thatcher e che predica l’equazione “zero immigrazione” ad eccezione dei rifugiati cristiani, ha raccolto adesioni soprattutto tra gli elettori più giovani, grazie anche a una martellante campagna sui social. «Oggi festeggiamo il nostro miglior risultato di tutti i tempi», ha commentato Listhaug incontrando i suoi sostenitori. «Il mio obiettivo è che questo sia soltanto l’inizio». Un recente sondaggio dell’emittente pubblica NRK ha rilevato che il Partito del Progresso è il più votato tra gli uomini di età inferiore ai 30 anni. Ma tra i norvegesi continua a crescere un sentimento di paura. Secondo un sondaggio pubblicato il mese scorso dal Peace Research Institute di Oslo, il 59% degli intervistati ritiene “probabile” una nuova guerra in Europa entro i prossimi dieci anni (l’anno scorso quella percentuale era al 55%). Il 45% ritiene probabile che una nuova guerra mondiale scoppi entro 10 anni (41% del 2024). Quasi il 40% ritiene probabile un attacco nucleare, da qualche parte nel mondo, nei prossimi cinque anni.