SOCIETÀ
La nuova Siria tra voglia di rinascita, vendette e minacce straniere

Una veduta aerea di Damasco, capitale della Siria. Foto: Shutterstock
Il presente articolo è risultato del Laboratorio didattico "Giornalismo politico internazionale" coordinato dal dottor Matteo Matzuzzi (Il Foglio) e organizzato dal corso di laurea magistrale in Rrelazioni internazionali e diplomazia (responsabile scientifico: professor Benedetto Zaccaria). Il laboratorio è finanziato dal dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell'Università di Padova per l'anno accademico 2024/25.
L’8 dicembre 2024 il gruppo armato Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) sotto la guida di Ahmad al-Sharaa, nome di battaglia al-Jolani, entra a Damasco senza incontrare resistenza. La fine del regime di Assad viene accolta con rinnovata speranza dalla maggioranza della popolazione siriana, imbarazzando non poco la diplomazia occidentale. Il tentativo di rovesciamento del regime di Assad si era infatti concluso in un nulla di fatto nel 2011, a seguito dell’intervento russo e iraniano; oggi, con la Russia e l’Iran impegnati su altri fronti, la vittoria dell’HTS in Siria spariglia le carte. Mentre in occidente la diplomazia si mantiene su una linea precauzionale, evitando di esporsi sui possibili sviluppi futuri, in Medio Oriente gli equilibri si ridisegnano e alcuni attori, anche non-statali, potrebbero trarne vantaggio più di altri.
Un equilibrio precario
Fra questi, mentre l’Iran perde un alleato essenziale, specie per l’aggiramento delle sanzioni internazionali e il collegamento strategico con Hezbollah in Libano, la Turchia sembra acquisire un ruolo centrale nella regione. L’Economist sostiene infatti che “nessun altro Paese ha così tanto da guadagnare da una Siria stabilizzata quanto la Turchia”. Con una patria finalmente in pace, infatti, i tre milioni di rifugiati siriani in Turchia potrebbero decidere di fare ritorno. Inoltre, un impegno nella questione siriana potrebbe giovare ad Ankara anche in termini di influenza: Erdogan si è già offerto di aiutare il nuovo governo ad interim di Damasco, tanto nella ricostruzione di un esercito quanto nella redazione di una nuova e quanto mai necessaria costituzione.
Al-Sharaa pare infatti riconoscere che le possibilità di sopravvivenza di questo nuovo ordine politico dipendono fortemente da un allentamento delle sanzioni occidentali e quindi da un’apertura, quantomeno apparente, verso la formazione di un governo ampiamente rappresentativo. Tuttavia, queste ambizioni di riunificazione del Paese potrebbero essere difficili da conciliare con la presenza stabile della Turchia nel nord della Siria, dove già si scorgono le prime tensioni con le forze curde, quest’ultime appoggiate dagli Stati Uniti.
La questione più urgente resta comunque la creazione di un esercito unificato e il disarmo dei vari gruppi armati stanziati sul territorio. A preoccupare è soprattutto la potenza numerica del Sirian National Army (SNA). Erdogan ha promesso un aiuto anche su questo fronte, che si tradurrà probabilmente in pressioni sull’Esercito Nazionale Siriano affinché si dissolva e ceda al controllo di Damasco.
Il nuovo governo rigetta tuttavia le accuse di vassallaggio nei confronti della Turchia e si apre a nuove alleanze nella regione. Non è difficile prevedere chi potrebbe trarne beneficio, dato che l’influenza turca negli affari siriani risulta scomoda tanto all’Arabia Saudita quanto all’Egitto, agli Emirati Arabi Uniti e a Israele.
La transizione siriana
Nel quadro delle primavere arabe, la guerra civile siriana è iniziata nel 2011 con l’obiettivo il rovesciamento del regime autoritario di Assad per costituire una Siria democratica, pluralista, laica, rappresentativa di tutte le minoranze etniche del Paese. Questi valori rispecchiano tuttora i desideri e le speranze di buona parte della società siriana. In un certo senso, la Carta fondamentale – una costituzione temporanea – firmata giovedì 13 marzo dal neo-presidente Ahmad al-Sharaa, rispecchia queste aspirazioni democratiche e pluraliste; d’altra parte, però, la Carta mantiene l’accentramento del potere nelle mani del presidente e le elezioni per altri cinque anni non sono in vista. Il popolo siriano per ora rimane fiducioso, nonostante inizino già ad emergere le prime crepe: lo scorso 6 marzo milizie armate fedeli al vecchio dittatore hanno condotto un’imboscata all’esercito governativo presso Jableh, accendendo la miccia per ulteriori conflitti nei governatorati di Latakia e Tartus, storicamente vicini alla famiglia Assad. La reazione del governo non si è fatta attendere, e dal giorno successivo hanno iniziano a circolare in rete immagini di esecuzioni sommarie e cruente: Il bilancio degli scontri, più di mille vittime tra militari e civili, è stato addirittura più pesante di quello dell’offensiva che ha rovesciato il governo di Assad.
Il 10 marzo, il presidente siriano ha dichiarato di aver raggiunto un accordo con la leadership curda che prevede l’integrazione delle istituzioni del Rojava in quelle siriane e riconosce i curdi come “componente essenziale dello stato siriano”: un’intesa che potrebbe rappresentare un primo passo verso la pacificazione del Paese. I curdi sono una delle comunità etniche maggiormente militarizzate, organizzate e laiche del paese: un loro assorbimento istituzionale da parte di Damasco sarebbe cruciale per una reale transizione democratica. L’accordo in questione dovrà comunque essere attuato entro il 2025 e nessun esito, per ora, è scontato.
Giustizia e verità contro l’oblio
Intanto la popolazione siriana, dopo aver celebrato la fine di una dittatura durata oltre mezzo secolo, affronta i dolorosi conti con un passato segnato dalla repressione. Le prove delle atrocità commesse sotto il governo di Bashar al-Assad emergono rapidamente mentre le prigioni segrete e centri di tortura del precedente regime vengono esaminati con crescente senso di orrore.
Secondo un rapporto del Syrian Network for Human Rights (SNHR), pubblicato il 14 febbraio 2025, ad agosto 2024 il numero di detenuti e persone vittime di sparizione forzata sotto la custodia del regime di Assad aveva raggiunto quota 136.614, di cui ben 112.414 risultano ancora non rintracciabili. La SNHR sostiene che molti siano stati giustiziati in carcere, tramite torture o esecuzioni segrete, senza alcun procedimento legale.
Pochi luoghi evocano tanto terrore quanto la prigione di Sednaya, alla periferia di Damasco, dove Amnesty International ha documentato oltre 30.000 esecuzioni di massa. Dopo la fuga della famiglia Assad i ribelli hanno scoperto nella struttura circa 40 corpi, mentre migliaia di altre vittime sarebbero state sepolte in fosse comuni o cremate per eliminare le prove dei crimini del regime. Alla diffusione della notizia, centinaia di persone si sono riversate nell'obitorio dell'ospedale al-Mujtahid, sfogliando disperatamente le fotografie dei cadaveri alla ricerca di un segno di riconoscimento.
Le nuove autorità siriane affrontano una sfida di grande complessità: garantire che le prove delle atrocità commesse non vadano perdute. Diverse organizzazioni per i diritti umani – tra cui l’Associazione dei Detenuti e Dispersi di Sednaya (ADMSP) – hanno esortato il governo transitorio a collaborare con le Nazioni Unite per preservare documenti chiave e siti di sepoltura di massa.
Nel frattempo la pacificazione rimane lontana: il nuovo governo di Ahmad al-Sharaa, pur avendo istituito una commissione d'inchiesta nazionale e proposto un comitato per la giustizia di transizione, fatica a contenere il ciclo di vendette e violenze. Mentre alcuni siriani ritrovano i propri cari sopravvissuti, molti altri continuano a cercare risposte tra le macerie del passato.