SOCIETÀ

Oltre il carcere, ricostruire legami per ritrovare cittadini

Ci sono temi, nel dibattito pubblico, che sembrano dover rimanere sottotraccia, perché se ne possa parlare in modo proficuo. Spesso, nonostante la loro importanza. Temi che dagli addetti ai lavori, da chi ne ha conoscenza diretta vengono trattati con passione e competenza, e su cui si potrebbero fare passi avanti considerevoli, seguendo le indicazioni delle esperienze più avanzate, ma che invece soffrono, e molto, nella visibilità mediatica. Uno di questi è sicuramente il carcere - istituzione “rimossa” e destinata a separare dalla società chi ne fa parte – che concentra su di sé, nei rari momenti in cui i suoi problemi vengono sotto i riflettori, le ansie e il desiderio di rassicurazione di una società complessivamente in sofferenza e priva di una bussola. In questo caso il “ritorno all’autorità” spesso invocato sembra una ricetta in gran parte illusoria. Soprattutto se visto dal lato della sua efficacia, e guardando da vicino. Esce da questa dicotomia fra prese di posizione visibili ma superficiali e convegni importanti ma trascurati dal grande pubblico l’ultimo libro di Francesca Melandri, Più alto del mare. Ambientato nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara, negli anni ’70, il romanzo racconta la storia di Paolo e Luisa, il padre di un terrorista e la moglie di un assassino. Nella stesura del romanzo la scrittrice si è documentata raccogliendo le testimonianze di quanti, a diverso titolo, ruotano intorno a quel mondo. Uno “sguardo da vicino” ma non di addetto ai lavori o di persona direttamente coinvolta, se non per passione civile, come già nel suo precedente “Eva dorme” che consente, pur nella finzione del racconto, di guardare ai fenomeni narrati , conosciuti dalla gran parte dei lettori solo superficialmente, con cognizione di causa. Ce ne ha parlato nel corso di un’intervista.

“Dietro questo libro – spiega l’autrice – c’è il ricordo di una visita fatta qualche anno fa all’Asinara, - chiusa da tempo - ma non c’è alcuna mia esperienza diretta all’interno delle carceri. La struttura penitenziaria non rappresenta il focus della mia opera, ma la cornice, ciò che a me interessava approfondire erano i rapporti tra i condannati e le loro famiglie. La dimensione del carcere è una dimensione “temporale”, si prolunga nel tempo e l’”assaggio” di alcuni frammentari momenti, quei pochi consentiti alle persone esterne, sarebbe stato comunque insufficiente a ricostruirne nel dettaglio le dinamiche. E non sarei riuscita a cogliere quegli aspetti che invece intendevo esaminare, fatti di rapporti umani, relazioni sociali interrotte. Perché parliamo di condannati, ma non dobbiamo dimenticare che parliamo prima di tutto di persone. Proprio per cercare di ricostruire questa rete di relazioni, ho voluto “ascoltare” il carcere da chi quest’esperienza, a vario titolo, l’ha vissuta e cioè da ex detenuti, ex terroristi, ex agenti di polizia penitenziaria e il quadro che ne è emerso non è confortante”.

Esordisce così Francesca Melandri e continua con le impressioni che le testimonianze raccolte le hanno lasciato. “Ci sono dettagli che lasciano intravvedere, pur nel loro essere quasi banali, tutti gli ingranaggi della macchina che sta intorno. La lista degli oggetti ammessi all’interno del carcere è uno dei tanti esempi: l’accappatoio non si può portare, ma un “asciugamano con le maniche” sì. Diceva Voltaire che la civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri: le nostre riflettono il peggio e quel poco di buono che c’è. Dalle testimonianze che ho raccolto emerge sicuramente la tendenza alla rieducazione e riabilitazione del carcerato. Io stessa, dopo la pubblicazione del libro, sono stata invitata a tenere degli incontri all’interno delle carceri che evidentemente si collocano nell’ambito di programmi educativi e culturali. Le leggi, tuttavia, sono ancora applicate male. Le condizioni di sovraffollamento dei carcerati non sono degne di esseri umani. Si tratta di un universo vasto e con grandi diversità, con punti di eccellenza e situazioni infernali.

Non dimentichiamoci, poi, di un’altra realtà, non meno importante. E mi riferisco agli agenti di polizia penitenziaria che lavorano all’interno delle carceri e qui trascorrono un terzo della loro vita. Di loro nessuno parla, mentre sono i primi a subire le carenze del sistema.  Lo dimostra il tasso di suicidi che è quasi paragonabile a quello dei detenuti. Dai lunghi colloqui che ho avuto è emerso il disagio profondo di una categoria professionale obbligata, in prima linea, a lavorare in condizioni impossibili”.

Giunte quasi sul finire della nostra chiacchierata, la scrittrice sottolinea, a partire dall’esperienza fatta prima e attorno al suo libro, il ruolo essenziale dei familiari dei carcerati, e  come essi possano costituire una chiave di volta importante nel processo di rieducazione dei detenuti e riappropriazione del sé. Un tassello importante, in altre parole, per ricostruire relazioni capaci di recuperare alla società - come la Costituzione prevede - e non di condannare all’emarginazione e nei casi peggiori a nuovi reati i detenuti che hanno scontato la pena.  “Nel momento in cui mi documentavo e raccoglievo notizie per la stesura del romanzo, ho scelto di non incontrare i parenti dei detenuti. Ho parlato con tutte le altre figure che a vario titolo ruotano intorno al mondo carcerario, ma non con i parenti. Per una sorta di pudore non me la sono sentita. Ho cercato di entrare in loro, indossando le loro scarpe. Ho cercato di immaginarmi l’amore di un padre per un figlio che scopre terrorista, di una moglie per un marito assassino. Ho cercato di pensare come cambia quell’amore, se cambia. Come evolve.

Ciò che è emerso è che i familiari, pur essendo presenze esterne, hanno un ruolo molto importante. È opinione comune che la colpa e la pena di chi commette un reato ricada sui parenti. Ma è anche vero il contrario. E cioè che l’affetto dei familiari, pur condensato e ridotto ai tempi previsti dai regolamenti interni, permette ai detenuti di riappropriarsi della loro dimensione di “esseri umani”. A dirlo è stato un detenuto nel corso di una mia presentazione all’interno di un carcere e la cosa mi ha molto colpita. Ciò mi porta a fare una considerazione e cioè che nell’ambito di quei programmi di rieducazione di cui parlavo prima, si dovrebbe cercare anche di facilitare i rapporti con le famiglie. E questo non solo nell’interesse dei detenuti, ma anche nel nostro come società”. 

Monica Panetto

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