SOCIETÀ

La resistenza di Kobane e il rompicapo curdo

Kobane, nel nord della Siria, oggi non è più solo un ammasso di edifici ischeletriti dalle bombe, dove si combattono casa per casa i guerriglieri curdi e le milizie islamiste dell’Is. Dopo essere stata a lungo considerata una nuova Srebrenica, città-vittima per antonomasia, oggi la città curda viene trasfigurato dai media occidentali in una novella Stalingrado, bastione di resistenza militare e civile contro i fondamentalisti dell’autoproclamato califfato guidato da Abu Bakr al-Baghdadi.

Kobane oggi è un simbolo nel complicatissimo puzzle mediorientale, dove i concetti di amico e di nemico sono sempre stati relativi. In questo momento ad esempio l’Occidente, Stati Uniti in testa, si affida alla tenacia delle "unità di autodifesa" del PYD, il Partito dell’Unione Democratica dei curdi siriani, che a sua volta fa riferimento al PKK di Abdullah Öcalan: un soggetto nato negli anni Settanta, e soprattutto all’origine contrassegnato da un’evidente matrice marxista.

Tanto è vero che la nuova Turchia del presidente, Erdogan, storica avversaria delle richieste di autonomia dei curdi, sembra piuttosto aver puntato sull’Is, con cui divide la confessione islamica sunnita, anche se, per evidenti ragioni, non può dichiararlo apertamente. Una posizione espressa in mille sfumature ma con decisione: non solo forze turche non hanno mosso ciglio per fermare il massacro di Kobane – diverse fonti parlano anzi di un aiuto attivo alle milizie fondamentaliste – ma agli Stati Uniti è stata anche rifiutata la possibilità di utilizzare l’importante base aerea di Incirlik per le incursioni contro i fondamentalisti.

Al governo turco dell'AKP, confessionale e forse anche soggetto a pulsioni neoimperiali, sembra stare stretto il tradizionale ruolo da comprimario nella NATO, di cui è stata fino ad ora uno dei pilastri. Tanto da dar luogo ultimamente a una inedita politica di convergenza con la Russia, storica rivale nello scacchiere mediorientale e nel Caucaso. È forse da leggere nella chiave delle mutate relazioni turco-russe il tramonto del progetto del gasdotto sottomarino South Stream, che in origine avrebbe dovuto lasciare fuori dal suo percorso proprio Ankara? Se così fosse sarebbe il segno di un’inedita alleanza tra due Paesi storicamente nemici da secoli: un mutamento capace di ricadute impensabili anche nell’intricato scenario siriano, dove fin dai tempi dell’Urss Mosca, ha rivestito il ruolo di principale sponsor del regime degli Assad.

Un regime, quello siriano, contro cui all’inizio il PYD si è sollevato al tempo delle ‘Primavere arabe’ facendo di Kobane una delle prime città ad espellere le forze di Assad nel 2012. “I curdi all’inizio hanno fatto parte della rivolta, poi hanno deciso di intraprendere il loro percorso per l’indipendenza o l’autonomia”, spiega, a un incontro organizzato dall'associazione culturale Osteria Volante, il giornalista italo-curdo Murat Cinar, esperto di movimenti popolari, diritti civili e migrazioni in Medio Oriente e in Italia, dove risiede da 13 anni. “In seguito l’opposizione laica è scappata all’estero o è stata distrutta dall’Is e da Al Nusra, il ramo locale di Al Qaeda”.

Anche se turco di origine, Cinar simpatizza da tempo con le istanze sociali e di autonomia dei curdi: “Preferisco di solito ragionare per persone e non per cliché dividendo le persone a seconda della loro origine – spiega il giornalista –. È necessario oggi che tutti difendano i curdi, esattamente come è importante che non siano solo le persone Lgbt a difendere le rivendicazioni degli omosessuali”. Oggi il Partito dell’Unione Democratica è in pratica l’unica forza di opposizione armata al regime non ancora soppiantata dagli estremisti islamici: “Nel nord della Siria si stanno sperimentando nuove prospettive politiche e sociali, che con la Carta di Rojava mettono ad esempio in discussione il liberismo economico, l’uso della religione e il maschilismo delle società mediorientali – continua Cinar –. Una cosa che non va bene ai potenti vicini, e probabilmente neppure ai ‘fratelli’ curdi iracheni, che pure combattono a loro volta contro l’Is”. 

Oggi il governo del Nord Iraq, guidato Mas'ud Barzani, gode di una grande autonomia, e ha appena raggiungo un accordo con lo stato centrale  per dividere i forti proventi derivanti dalla vendita del petrolio, di cui la regione è molto ricca. Intanto, nella prigione in cui vive isolato nel Mar di Marmara, Öcalan ha chiamato i suoi miliziani a deporre le armi e a intraprendere un processo di pace, sulla base di alcune tenui concessioni da parte del governo turco. Una prospettiva di progressiva normalizzazione della ‘questione curda’, che proprio i ribelli del PYD rischiano di turbare costituendo in Siria un territorio fortemente autonomo o addirittura uno stato indipendente.

In questa situazione Kobane e gli altri territori, come le città di Qamishli e Afrin, controllati dal PYD nel Rojava, la fascia a maggioranza curda nel nord del paese, sembravano destinate a una resa certa. A ribaltare la situazione ci hanno pensato gli orrori commessi e poi diffusi su internet dall’Is, con la sua abitudine di sgozzare in diretta video decine di prigionieri e di ostaggi, tra cui diversi giornalisti occidentali, al grido di ‘Allahu Akbar’, e la dura resistenza degli uomini e delle donne (combatte fra loro anche un battaglione femminile, altro segno distintivo rilevante nel panorama mediorientale) del PYD. “Oggi le fonti con cui sono in contatto dicono che presto l’Is potrebbe essere definitivamente sconfitta a Kobane – conclude Cinar – La situazione però rimane confusa: in Siria i villaggi e interi territori passano continuamente di mano, di solito nella direzione dell’Is, la cui pericolosità non è affatto diminuita”.

Uno scenario che intanto ha spinto gli Stati Uniti ad avvicinarsi non solo al dittatore Bashar Assad, ma addirittura sempre più addirittura all’Iran, con il quale potrebbero essere disponibili a fare concessioni sul programma nucleare, pur di comporre un inedito fronte comune occidentale-sciita contro la comune minaccia rappresentata dai fanatici sunniti dell’Is con il loro sono di rinascita del califfato. Paradossalmente, proprio 90 anni fa il governo di Kemal Atatürk deponeva l’ultimo califfo, rinunciando al titolo di cui i sultani turchi si fregiavano da secoli. Oggi invece a tramontare sembra la laicità, che assieme all’idea di purezza etnica ha costituito in questi decenni il pilastro ideologico su cui era stata costruita la nuova Turchia.

Daniele Mont D'Arpizio

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012