SOCIETÀ

Riforma autonomie locali: dalla padella nella brace

“Porto un cero a Sant’Antonio. È l’unica cosa che posso fare a fronte della legge Del Rio sulla riforma-ponte delle autonomie locali”. Lo ha detto il costituzionalista Mario Bertolissi, intervenendo al palazzo del Bo  alla lectio magistralis di Gian Candido De Martin, emerito di istituzioni di diritto pubblico alla Luiss, dedicata ai chiaroscuri della legge 56 del 2014, denominata “legge Del Rio”, appunto . Per Bertolissi siamo di fronte a “una normativa penosa, con una carenza assoluta di cultura, e a un’operazione che non è degna di un Paese serio”. Sulla stessa lunghezza d’onda, il giudizio espresso da un altro docente dell’ateneo padovano, l’economista Maurizio Mistri, secondo il quale il “furore anti-province” porterà a una sorta di paralisi funzionale. Riferendosi alla costituzione delle aree metropolitane, Mistri si è anche chiesto perché il legislatore non ha la bontà di confrontarsi con gli studiosi e non si degna nemmeno di buttare un occhio su quanto è avvenuto nelle  nazioni vicine, dall’Inghilterra alla Spagna, che hanno già fatto marcia indietro lasciando come aree metropolitane le sole Londra e Madrid.

Con la “legge Del Rio” non è stato per nulla tenero neanche Gian Candido De Martin, chiamato a rimarcarne meriti (pochi) e difetti (tanti). De Martin ha ribadito che “si tratta sostanzialmente di una nuova legge tampone che si aggiunge ai molteplici interventi erratici, occasionali e approssimativi della XVI Legislatura in materia di enti locali, per lo più frutto della “legislazione di crisi”, e non certo per un approccio sistematico volto a realizzare, in base ad una Carta delle Autonomie”, il disegno di semplificazione amministrativa e di valorizzazione delle autonomie locali, prefigurato dalla riforma costituzionale del 2001, tuttora in forma inattuata, anzi per molti versi contraddetta dal legislatore ordinario”. 

Tra l’altro è “una legge scritta male, composta di un solo articolo e da 151 commi”, che istituisce le città metropolitane, pensate già nel 1990 e rimaste al palo. Ne sono previste 10 con l’aggiunta di 3 “speciali” ma non è detto che non possano salire fino a 21. “Un quadro evanescente”, l’ha definito De Martin, comunque subordinato ad una riforma costituzionale.

I limiti sottolineati di questa riforma-ponte sono molteplici con un provvedimento che non regge nemmeno in termini di costi e benefici. Anzi, a fronte di risparmi modestissimi (per gli ottimisti 110 milioni, ma secondo calcoli più realistici meno della metà) si va verso una sovrapposizione di enti e di funzioni che aumenteranno difficoltà dei Comuni e peggioreranno i servizi ai cittadini. Si assisterà allo strapotere del sindaco della città metropolitana, tra l’altro non designato con elezione diretta, ma nominato solo da alcuni dei sindaci rappresentati nel consiglio metropolitano. La legge “svuota province”, in nome della semplificazione dello Stato e della Pubblica amministrazione, porta con sé anche un deficit di democrazia: i cittadini sono espropriati del diritto di voto con le decisioni collettive che si ripercuotono sulla nostra vita quotidiana, finiscono inevitabilmente per essere delegate a burocrati al di sopra di ogni controllo. Si abolisce un ente di rilevanza costituzionale, eletto dal popolo sovrano,  per dare vita a un qualcosa di indefinito, sicuramente anticostituzionale , disarticolato, confuso, foriero di nuovi inevitabili conflitti istituzionali. Una legge ambigua,  “una legge ordinaria che gioca d’anticipo: invece di discendere dalla Costituzione, ne annuncia una riforma, comunque di là da venire”. Non è mancato nemmeno il riferimento alla gratuità degli incarichi: si tratta - è stato sottolineato - di una scelta demagogica, per nulla giustificata dalla poca importanza dei compiti assai rilevanti affidati a questi organi, per cui ne può sostanzialmente derivante un disincentivo per l’impegno amministrativo, se non un aumento dei problemi di corruzione nelle amministrazioni locali.

E gli aspetti positivi della “legge Del Rio”? È piena di buone intenzioni sul governo metropolitano, sul governo associativo, sugli statuti ma ha un assetto debole e troppi segnali indefiniti e contraddittori. Si mette in moto una macchina nuova, dalla affidabilità tutta da dimostrare,  su un percorso complicato. Troppi i criteri applicativi che suggeriscono cautela. Guai a fare il passo più lungo della gamba, perché si rischiano danni irreversibili.

Dal mondo universitario arriva - come si legge nel documento inviato alle commissioni Affari costituzionali del Parlamento e a tutti i gruppi parlamentari da 44 professori ordinari di materie giuridiche - “un sì convinto alla riforma delle autonomie locali, che deve essere condivisa ed efficace, con un approccio coerente e di sistema, senza strappi, senza operazioni di pure immagine, destinati a produrre danni profondi e duraturi alla democrazia locale”. Nel documento-appello si afferma che “ogni ipotesi di soppressione o decostituzionalizzazione delle Province appare contraddittoria e in contrasto con i principi autonomistici della Costituzione e con la Carta europea delle autonomie locali” e al tempo stesso si ribadisce “la necessità di affrontare, con soluzioni appropriate  e finalmente operative, i nodi che pesano sempre più sulle difficoltà di governo locale nelle aree metropolitane e nelle realtà caratterizzate dalla frammentazione dei piccoli Comuni”.

La fretta in democrazia è una pessima consigliera. Cercare scorciatoie non è consentito, nemmeno in tempo di crisi. Si tagli piuttosto nella galassia delle 7.800 società, con 19.000 componenti nei consigli di amministrazione, partorite dalla politica. Gli sprechi abitano soprattutto qui.

Valentino Pesci

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