SOCIETÀ

Il sangue: merce e risorsa

Una storia del sangue, dell’evoluzione tecnica delle trasfusioni e della sua mercificazione. Ma anche e, soprattutto, della conseguente diffusione dell’Aids: è questo il racconto di Douglas Starr, autore del libro Blood e docente di giornalismo alla Boston University, ospite all’università di Padova lo scorso novembre.

È in seguito ad esperimenti sovietici sull’immagazzinamento del sangue, poi proseguiti negli Stati Uniti, che nel 1937 a Chicago nasceva la prima “banca del sangue”. La pratica dell’immagazzinamento proseguì fino ad assumere una valenza enorme durante la guerra civile spagnola e, più tardi, durante la seconda guerra mondiale, quando una nuova tecnica elaborata da Edwin J. Cohn permise anche il frazionamento del sangue nei suoi componenti. Le banche del sangue divennero così i punti di partenza per l’invio in tutto il mondo del sangue e del plasma, suo costituente.


Hoffman, N.C. Boxes of dried blood plasma stored in a cabinet inside the operating tent which was set up during the Carolina maneuvers, 1942. Library of Congress Prints and Photographs Division Washington, D.C.

La commercializzazione del sangue e dei suoi componenti si affermò con forza fra gli anni Sessanta e Settanta. Mentre gli ospedali continuavano a raccogliere sangue intero, l’investimento economico puntò prevalentemente sul plasma che, grazie anche a un nuovo processo chiamato plasmaferesi, poteva essere raccolto in ingenti quantità perché estraibile da ciascun donatore moltissime volte all’anno. Il plasma così ricavato non era suddiviso in sacche riconducibili al donatore, ma veniva invece raccolto in barili contenenti i fluidi provenienti da diverse persone. Di qui il pericolo di una possibile contaminazione: la presenza anche di un solo donatore con una malattia trasmissibile attraverso il sangue avrebbe infatti potuto infettare un intero contenitore. Inoltre, poiché i donatori di plasma erano pagati ma il processo di estrazione, soprattutto agli inizi, era piuttosto impegnativo, i principali donatori erano soprattutto i carcerati. Mentre il prodotto ricavato, elaborato con composti chimici, veniva spedito in tutto il mondo.


Ann Rosener, Nurses attached to the Red Cross mobile unit give a routine health checkup to San Quentin prisoners before they can give blood to the bank, 1943. Library of Congress Prints and Photographs Division Washington, D.C.

La disponibilità del plasma si rivelò preziosa soprattutto nel trattamento dell’emofilia. Ma fu proprio la comunità emofiliaca a pagare inizialmente il prezzo più alto. Nel 1982 un emofiliaco, eterosessuale, morì a causa della malattia chiamata Grid, allora classificata come sindrome da immunodeficienza gay-correlata. In poco tempo il numero in decessi per questa sindrome si impennò: le trasfusioni stavano diventando un mezzo globale di infezione fra gli emofiliaci. La diffusione della malattia, che ormai aveva preso il nome di Aids, sembrava inarrestabile e aveva iniziato a dilagare anche fra i gruppi non “a rischio”. Poiché però il virus non sarebbe stato identificato in laboratorio fino al 1984, non era possibile rintracciarlo nel sangue. Solo l’anno seguente venne rilasciato negli Stati Uniti il primo test, Elisa, che una volta esportato si rivelò un affare multimilionario.

Gli scandali della seconda metà degli anni Ottanta travolsero soprattutto chi aveva temporeggiato nel prendere provvedimenti. In Francia era stata sottostimata la portata dell’infezione, che si credeva ristretta nei confini americani; si erano cercati quindi donatori esclusivamente francesi, trovandoli soprattutto fra i prigionieri delle carceri. La stima si rivelò fasulla e i provvedimenti controproducenti: poco più tardi uno studio stimò che il 45% degli emofiliaci francesi fosse ormai sieropositivo, a prescindere dalla provenienza del sangue trasfuso. E che lo fosse il 25%  dei detenuti.
In Giappone, dove l’Aids era giunto nel 1983 attraverso l’importazione del plasma, la diffusione della malattia passò sotto silenzio fino al 1985: due anni in cui l’importazione dei derivati del sangue non aveva fatto che aumentare. 

La morte per Aids di Rock Hudson nell’ottobre del 1985 segnò un punto di svolta nella percezione pubblica della malattia. L’isteria si diffuse assieme alla disinformazione sulle cause della trasmissione e le donazioni diminuirono. Inizialmente le banche del sangue risposero all’emergenza limitandosi a testare tutti i nuovi donatori, ma non controllarono il prodotto già immagazzinato, portando alla morte di altre persone. Negli Stati Uniti il controllo dei dati sanitari e delle banche del sangue non erano una priorità per l’amministrazione reaganiana, che fu accusata di compiacenza. E quando la Federal Drug Administration, in risposta all’urgenza Aids, aumentò i controlli, furono centinaia le violazioni riscontrate. La stessa Croce Rossa fu accusata di aver rilasciato sacche di sangue su cui il test Elisa aveva fallito, venendo chiamata nel 1988 a firmare un accordo – mai rispettato – che le imponeva di riparare ai danni.

Negli anni Novanta il dissenso, gli scandali, le dimostrazioni pubbliche si fecero sempre più frequenti. Nel 1992 in Francia iniziò il processo a Jean-Pierre Allain e Michel Garretta, i principali imputati per lo scandalo francese del sangue; nel 1992 il presidente della Croce Verde giapponese Takehiko Kawano presentò le sue scuse alla nazione in un atto pubblico di umiliazione. In Italia, sulla scia delle inchieste di Tangentopoli, lo scandalo degli emoderivati infetti da Hiv ed epatite C arrivò a travolgere i vertici del ministero della Sanità, coinvolgendo importanti multinazionali del settore farmaceutico.

Se la terribile esperienza che ha accompagnato la commercializzazione dei prodotti derivati dal sangue ha segnato una svolta nelle norme e nelle procedure di controllo, portando a nuovi standard per incrementare la sicurezza di trasfusioni e farmaci e inducendo lo stesso Starr a parlare di post-Aids Society, OMS ed European Centre for Disease Prevention and Control contano 2 milioni di nuovi casi di Aids nel solo 2014. Di questi 142.000 sono stati registrati in Europa e Asia centrale, con il 60% delle nuove diagnosi in Russia e il 21% nei paesi dell'Unione Europea, mentre più del 10% delle nuove infezioni riguarda i giovani con meno di 15 anni. Una considerazione che imporrebbe di tornare a parlare di rischio, ripartendo dalle scuole.

Chiara Mezzalira

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