SOCIETÀ

La transizione fuori controllo della Libia

L’Europa invoca a gran voce una soluzione politica e negoziale alla crisi libica. Ma lì, a Tripoli, la partita si gioca su ben altri toni: si annunciano “offensive finali”, si promettono coperture di armi e denaro, si muovono eserciti e interessi.  Per riassumere: da un lato  c’è il presidente libico Fayez al-Sarraj, che è anche primo ministro del governo di unità nazionale (piuttosto fragile) costituito nel marzo 2016 in seguito agli accordi di Skhirat, con l’obiettivo di guidare il Paese in questa lunghissima fase di transizione. Dall’altro il generale Khalifa Haftar, un militare cresciuto all’ombra di Gheddafi, poi fuggito negli Stati Uniti e infine rientrato in Libia nell’estate del 2011, che oggi con il suo esercito sta tentando di assumere il controllo dell’intero Paese. Ed è piuttosto avanti con l’operazione: la Cirenaica (con Bengasi e Derna) e la regione meridionale del Fezzan sono già sotto il controllo del “Libyan National Army”. Manca soltanto la Tripolitania: e lo scorso 4 aprile (8 mesi fa, non ieri) Haftar ha lanciato la sua offensiva per conquistare il controllo della capitale, Tripoli. E non sono chiacchiere: è guerra civile. L'ufficio stampa dell'LNA ha diffuso immagini di truppe di terra e camioncini con mitragliatrici in arrivo a Tripoli, riferendo di scontri nella parte  meridionale della città e di aver preso il controllo della città di al-Tawghaar, a sud di Tripoli. Attacchi aerei sono stati lanciati a Misurata.

L’Europa ha capito tardi cosa stava accadendo. Si sono mosse singole diplomazie (quella francese ad esempio), guidate soprattutto dalla necessità di difendere i propri interessi economici nell’area (petrolio). Francia che da anni viene criticata proprio per la politica ambigua che ha assunto in Libia: formalmente a favore del governo al-Sarraj (l’unico riconosciuto dall’Onu), ma di fatto al fianco del generale Haftar. Secondo un’inchiesta pubblicata da Le Monde nel 2016, e ripresa da il Post, «…la Francia sperava di aiutare Haftar a imporre l’ordine in Libia, ripristinando la normale produzione di petrolio e tenendo sotto controllo la diffusione di gruppi islamisti e jihadisti: l’architetto di questa strategia era il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian, che sotto la presidenza di Macron sarebbe diventato ministro degli Esteri». Ma l’Unione Europea nel suo insieme non è riuscita ad andare oltre qualche generica dichiarazione, sempre auspicando “soluzioni politiche” alla crisi.

Il voltafaccia di Trump

Ma nel frattempo, sul campo, si formavano le squadre. Chi attacca (il generale Haftar) può contare sull’appoggio di Russia (che per sostenere la Lybian National Army ha inviato in Cirenaica un consistente plotone di mercenari, oltre un migliaio di militari dell’agenzia Wagner, perfettamente addestrati), Emirati Arabi, Egitto e Francia. Chi difende (al-Sarraj) su Turchia e (genericamente), Comunità internazionale. E gli Stati Uniti? Ancora una volta (dopo il clamoroso caso della Siriala presidenza Trump riesce a brillare per assenza e per incoerenza, peraltro in una regione dove per decenni non si è mossa foglia senza l’assenso della Casa Bianca. Fino all’inizio della “battaglia di Tripoli”, gli Stati Uniti hanno sostenuto ufficialmente il governo di al-Sarraj. Ancora il 7 aprile scorso, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, dichiarava: «Ci opponiamo all’offensiva militare delle forze di Khalifa Haftar e chiediamo la fine delle operazioni militari contro la capitale libica». Peter Bodde, ambasciatore americano in Libia, aveva minacciato: «Gli Stati Uniti non accetteranno un attacco contro Tripoli: è una “linea rossa” che non dev’essere oltrepassata». Poi però, il 19 aprile, Trump ha parlato al telefono con il generale Haftar. E la Casa Bianca, nella seguente nota, ha riconosciuto al generale «l’importante ruolo nel combattere il terrorismo e mettere in sicurezza le risorse petrolifere in Libia». Così, come nulla fosse. Un voltafaccia che contraddice le più basiche norme della diplomazia internazionale. Trump, evidentemente, non considera più la Libia e l’intero Medio Oriente come obiettivi prioritari. Un disinteresse che continua a lasciare enorme libertà di movimento (come già accaduto in Siria) all’intervento della Russia, che ha così l’occasione di capitalizzare gli errori strategici dei governi occidentali e aumentare la propria influenza in un paese dilaniato da conflitti interni, ma ricco di petrolio.

La Turchia pronta a inviare l’esercito

Questo lo scenario a oggi. Il generale Haftar vuol serrare i tempi, anche per massimizzare il consenso internazionale: «E’ arrivata l’ora zero», ha declamato alla tv cirenaica, «l’ora dell’attacco finale a Tripoli per liberarla dai terroristi e dai traditori. L'ora zero segna il via all’assalto totale atteso da tutti i libici liberi e onesti, la battaglia decisiva e la progressione verso il cuore di Tripoli. Ora avanti, tutti verso il nostro obiettivo». Una battaglia dall’esito che sembrerebbe già scritto vista la differenza delle forze in campo, se non fosse per un particolare: proprio la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che ha deciso di schierarsi al fianco  di Fayez al-Sarraj e di offrire sostegno militare al presidente libico. «Proteggeremo i diritti della Libia e della Turchia nel Mediterraneo orientale» - ha dichiarato Erdogan. «Siamo più che pronti a dare il supporto necessario alla Libia. Khalifa Haftar non è un leader legittimato ed è il rappresentante di una struttura illegale». Per poi aggiungere: «La Turchia è pronta a inviare un numero sufficiente di militari se la Libia dovesse chiedere assistenza militare. Prenderemo una decisione in merito in modo indipendente, non chiederemo il permesso a nessuno». E arriva addirittura a minacciare gli Stati Uniti: «Se serve, possiamo chiudere una o entrambe le basi militari gestite dagli Usa in Turchia, di Incirlik e Kurecik». 

Secondo il quotidiano turco Yeni Shafak, la Turchia sarebbe prossima ad aprire una base militare in Libia. Peraltro il 27 novembre scorso Erdogan e il presidente al-Sarraj hanno firmato due memorandum d’intesa, in materia di sicurezza e definizione delle aree di giurisdizione marittima, considerati illegali dall’UE e condannati dalla Comunità internazionale, in primis da Egitto, Cipro, Grecia e Francia. Il comandante Faraj al-Mahdawi, capo di Stato Maggiore della Marina libica agli ordini del generale Haftar, ha così reagito: «Siamo pronti a bombardare qualsiasi nave turca si avvicini alla Libia, e anche qualsiasi vascello turco che entri in acque economiche libiche in attività di esplorazione del gas senza l’autorizzazione del Governo ad Interim».

 

L’8 gennaio vertice Putin-Erdogan

Cosa sta cercando di ottenere Erdogan? Una rendita di posizione. Accreditarsi come forza presente nell’area con interessi da tutelare in prima persona. L’8 gennaio è previsto un incontro tra Putin e il presidente turco, proprio per discutere della situazione libica. E già diverse volte Mosca ha dichiarato di “sostenere qualsiasi sforzo internazionale per trovare soluzioni alla crisi libica”.  Tradotto, vuol dire che con ogni probabilità (ma con tempi non prevedibili a oggi) si troverà una soluzione che accontenti le parti. Putin ha anche avuto un colloquio telefonico con Angela Merkeldi fatto appoggiando la proposta della cancelliera tedesca di indire sempre per gennaio una Conferenza, a Berlino, per trovare una soluzione di mediazione all’emergenza in Libia. 

Di fronte all’ampiezza e alla complessità della crisi libica appare davvero marginale (anche se doverosa) la missione diplomatica italiana di pochi giorni fa, guidata dal nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. «L'Italia ha perso terreno in Libia, non possiamo negarlo»ha detto di Maio al ritorno dalla missione a Tripoli, Bengasi e Tobruk, dove ha incontrato tutti i protagonisti della crisi libica. «Ma ora deve riprendersi il ruolo naturale di principale interlocutore, da sempre amico del popolo libico». E per farlo ha deciso di nominare un “inviato speciale” per la Libia che lavorerà al fianco dell'inviato dell'Onu, Ghassam Salamè, e che risponderà direttamente alla Farnesina, «per poter avere un rapporto politico di alto livello e continuo con tutte le parti libiche». Tra i possibili candidati Arturo Parisi e Piero Fassino, oltre all’autocandidatura dell’ex inviato Onu per la Siria, Staffan De Mistura. 

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