SOCIETÀ

La transizione necessaria per combattere la fame

Dieci anni per salvare il mondo. Obiettivo ambizioso e difficile con dichiarazioni di intenti che sembrano irrealizzabili. Come quella di voler sconfiggere la fame, un refrain che ci portiamo dietro da decenni e che pare non trovare soluzione.

Il 2030, l’anno fatidico?

Il 2030 è l’anno chiave indicato da molteplici piani e agende internazionali che abbracciano diverse dimensioni dello sviluppo, per risolvere alcuni dei problemi più urgenti che l’umanità ha davanti:

  • Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, con ben 17 obiettivi (sustainable development goals o SDGs) che vanno dalla lottà alla povertà alla salute globale, dalla piena parità di genere all’accesso all’acqua pulita per tutti, dall’educazione scolastica di base alla riduzione delle disuguaglianze. 

  • Obiettivo europeo sul clima e l’energia 2030, che impegna tutti i paesi dell’Unione a politiche di riduzione delle emissioni climalteranti del 55% rispetto ai livelli del 1990, una pietra miliare per arrivare, nel 2050, alla completa neutralità climatica.

  • La decade delle Nazioni Unite per il recupero degli ecosistemi, avviata in sordina nel corso del 2020 e con un programma di lancio ufficiale nei prossimi mesi, che si pone l’obiettivo specifico di interrompere tutte le azioni di degrado dell’ambiente e di attuare sistemi di recupero e conservazione dinamica per rendere possibile la convivenza delle comunità umane con la valorizzazione e la protezione della biodiversità.

Un po’ troppo? Come molti esperti sottolineano, il porsi obiettivi ambiziosi è condizione necessaria per mettere in campo risorse, strategie e linee di azione che, se anche non portano ai risultati pieni, servono comunque a spingere in quella direzione.

Se guardiamo indietro, per fare un solo esempio, gli otto obiettivi del millennio, i Millennium Development Goals, che hanno guidato le politiche dello sviluppo fino al 2015, sono stati solo parzialmente raggiunti con gap piuttosto significativi in alcune aree più che in altre. Certo, il tasso di povertà è sceso molto rispetto al 1990, anno preso come riferimento, così come si è dimezzato il tasso di mortalità infantile e quasi dimezzato quello di mortalità femminile per parto. Ma ci sono stati altri ambiti, come quello dell’accesso ai farmaci salvavita, dove era impossibile perfino avere i dati reali e aggiornati per monitorare i progressi. Eppure è dal lavoro di revisione di quegli obiettivi che si è poi partiti per mettere a punto dati e indicatori più coerenti e adeguati fornendo così un importante set di strumenti per l’agenda successiva, quella degli SDG attualmente vigenti.

Un secondo esempio è quello della Strategia europea 20-20-20. Nel primo quinquennio del secolo, l’Europa si era data l’obiettivo di ridurre il 20% delle proprie emissioni, di aumentare l’uso delle rinnovabili del 20% e di abbattere i propri consumi energetici, rendendo più efficienti i diversi sistemi, sempre del 20%. Per farlo, ha approvato la RED I, la prima direttiva sulle energie rinnovabili, nel 2009. E ha messo in campo una serie di incentivi e di strumenti, alcuni poi rivelatisi ambigui e perfino dannosi, come quello che ha incentivato la produzione di biocarburanti da colture alimentari in aperta competizione con la produzione di cibo, un meccanismo che è stato corretto in corsa. Nell’insieme, comunque, questi strumenti hanno funzionato. Tanto che gli obiettivi europei sono stati raggiunti per i primi due goals, nonostante alcuni paesi abbiano invece aumentato le proprie emissioni (come vediamo dal grafico sottostante, preso dal sito European Data Journalism Network elaborato su dati Eurostat).

L’obiettivo più importante di tutti: nutrire il mondo

Non c’è dubbio che tutte le agende di sviluppo siano essenziali, se vogliamo garantire un futuro decente all’umanità nei prossimi anni e in un futuro lontano. Ma al tempo stesso, non c’è dubbio che l’urgenza principale dal punto di vista dell’umanità sia quella di riuscire a sfamare tutti. E per questo i primi due obiettivi dello sviluppo sostenibile si propongono di fare proprio questo: sconfiggere la povertà e sconfiggere la fame.

Della fame come problema di grande scala abbiamo cominciato a renderci conto nel secondo dopoguerra, quando si sono incrociate le decolonizzazioni dei paesi del Sud, lasciando dietro di sé territori depredati e comunità devastate, con quelle dello sviluppo demografico tumultuoso in tutto il mondo. Sul disastro associato alla colonizzazione prima e a una decolonizzazione sempre troppo parzialmente compiuta poi, hanno scritto in tanti. Qui, per ora, vogliamo concentriamoci sul problema dei problemi: far mangiare quasi 9 miliardi di persone, tante sono quelle che popoleranno la terra verso il 2030-2040. Una sfida immensa, che a inizio 2021, dopo un anno di pandemia, sembra ancora più consistente.

Il mondo non è sulla buona strada per raggiungere l'obiettivo Fame Zero entro il 2030. Se i trend attuali continuano, il numero di persone affamate supererà gli 840 milioni per quell'anno

Secondo i dati FAO e le stime del World Food Programme, ci sono al momento 690 milioni di persone che soffrono la fame, di cui 135 milioni sono in una situazione di fame acuta. E sono in totale 2 miliardi, quindi poco meno di un terzo della popolazione mondiale, quelli che non hanno accesso regolare a cibo nutriente e sicuro. Sappiamo che una cifra perfino superiore è quella delle persone con problemi di obesità, frequentemente correlata anch’essa alla disponibilità di cibo di bassa qualità.

L’impatto della pandemia, che si somma a conflitti locali e internazionali, come la guerra in Yemen o in Siria o il conflitto interno in Etiopia o in Mozambico, comportando la distruzione di interi sistemi locali di approvvigionamento e lo sfollamento di massa in campi rifugiati e in situazioni precarie, faranno presumibilmente raddoppiare questa cifra. 

Più di un quarto di miliardo di persone, quest’anno, si troveranno dunque in una situazione di fame acuta. E le proiezioni sono tutt’altro che ottimistiche.

Le definizioni di fame, sottonutrizione e insicurezza alimentare sono in un certo senso complementari e fanno riferimento a dimensioni diverse: dalla stima dell'assunzione giornaliera di una sufficiente quantità di energia alla accessibilità al cibo e dunque all'insieme delle condizioni, naturali, socio-economiche e ambientali, che possono impedire a una persona di mangiare. I dati dunque vanno presi nel loro insieme perché, ancora una volta, descrivono un problema complesso multidimensionale. Come vediamo dalle due mappe qui sotto, peraltro, in molti casi i dati non ci sono o sono poco affidabili e dunque è difficile avere un fotografia chiara e precisa del fenomeno.

I sistemi alimentari devono cambiare. Ma come?

Per affrontare la tripla emergenza, quella della fame cronica, la crisi pandemica e l’emergenza climatica che rende necessario produrre cibo in modi sempre più sostenibili, le Nazioni Unite hanno deciso di organizzare un Food Systems Summit nel corsi del 2021. Il Summit, la cui data non è ancora fissata, dovrebbe servire a valutare l’andamento dei progressi nei vari SDGs e a mettere in campo una serie di meccanismi di monitoraggio e di follow-up per spingere verso il loro raggiungimento. Ma al contempo, il Summit vuole anche promuovere l’identificazione di soluzioni che riformino il sistema di produzione e distribuzione alimentare a tutti i livelli. 

L’impressione che si ha è che serva davvero una accelerazione molto significativa. Che non bastino i generici appelli e che si debbano usare tutti i dati a disposizione per indirizzare gli sforzi nella direzione di sostenere i sistemi di produzione e distribuzione alimentare senza, naturalmente, pesare sull’ambiente più di quanto l’agricoltura contemporanea già non faccia. Per questo è necessario guardare con molta attenzione a diverse indicazioni che arrivano dal mondo della ricerca. Ma anche tenere il più aperto possibile il campo delle consultazioni e del coinvolgimento di diversi attori, dalla società civile locale alle varie organizzazioni internazionali.

Forse anche grazie all’intrecciarsi delle tre diverse emergenze, risulta ormai evidente che l’accento non debba essere più posto semplicemente sul produrre più cibo. Perché, come tutti le ricerche recenti dimostrano, il problema è solo in parte quello produttivo. Anzi. 

Il sistema alimentare, o meglio i sistemi alimentari, da quelli di piccola scala familiare e iperlocale a quelli di dimensione industriale globale, sono tutti sistemi complessi che implicano il coinvolgimento di diverse aree: la gestione della terra e il mantenimento della fertilità del suolo; l’accesso a semi sicuri, produttivi e adatti ai diversi climi e terreni; la capacità di produrre e di conservare in modo adeguato, quando serve, i propri prodotti; la disponibilità di acqua; la distribuzione e dunque le catene, corte o lunghe, che stanno dietro le filiere alimentari e che vanno dal cibo prodotto alla persona che lo consuma; i mercati, vicini o lontani, e i loro diversi sistemi di accesso; le reti di distribuzione e dunque il controllo dei sistemi di trasporto e di vendita; la capacità di mettere insieme domanda e offerta per ridurre gli sprechi. E molto altro, sicuramente. 

Non basta dunque aumentare la produzione, vogliamo sottolinearlo ancora. 

Anche per questo, le Nazioni Unite propongono cinque linee di azione che includono consultazioni pubbliche, la pubblicazione di discussion papers e diversi Public Forum aperti al pubblico. Se interessati, basta registrarsi per partecipare agli incontri online.

Un’ampia partecipazione non solo delle organizzazioni internazionali ma anche di tutte quelle realtà molto attive sui diversi territori a cercare soluzioni che portino effettivamente a una gestione sensata ed efficace delle crisi è quanto avoca anche Nature, in un editoriale intitolato How science cen put the Sustainable Development Goals back on track, pubblicato a fine gennaio. 

Abbracciando l’intero insieme degli SDGs, la rivista britannica si rivolge ai 15 scienziati chiamati a fine anno scorso dal segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, a lavorare sul prossimo UN Global Sustainable Development Report (GSDR) per dare indicazioni ai regolatori sullo stato di avanzamento degli SDGs. Nature riflette sull’urgenza emersa dalla congiunzione straordinaria delle tre crisi, e sottolinea la necessità di tenere insieme ricerca e azione. “Continuare come al solito non è una opzione.” conclude l’editoriale “Ci sarà bisogno di molta ricerca per supportare le azioni e le pratiche per concludere lo stato di crisi attuale e avviarsi sulla strada di un maggiore benessere e, prima o poi, di una prosperità e sostenibilità ambientale.”

E sui sistemi alimentari si concentra anche l’OCSE nel suo ultimo rapporto, “Making better policies for Food systems” che parte esattamente da questo presupposto: «Ci sono da più parti sempre più richieste di adottare un approccio sistemico per fare poter progredire simultaneamente sulle tre dimensioni». Le tre dimensioni, come già citato sopra, essendo la necessità di produrre cibo nutriente per tutti; quella di farlo senza distruggere l’ambiente e tenendo in considerazione le necessità socio-economiche a partire dal quelle dei 570 milioni di agricoltori, in larga parte piccoli agricoltori, che producono il cibo per tutti noi.

Leggendo il report, soprattutto nelle sue conclusioni, si ha chiara l’impressione che ci sia però ancora moltissimo da fare. E anche in questo caso, si pone l’accento sull’urgenza di cambiare strategia e adottare un approccio sistemico. Perché le politiche dedicate a risolvere i singoli problemi si sono rivelate controproducenti, creando addirittura in qualche caso maggiori disuguaglianze o situazioni di maggior rischio ambientale.

La ricerca utile e necessaria 

Utile a un approccio sistemico è senz’altro un progetto come CERES2030, di cui abbiamo già parlato qui in “Ricerca agricola: dobbiamo fare più attenzioni ai piccoli agricoltori”. Pubblicando sulla rivista Nature una serie di rapporti e di conclusioni, il progetto sostanzialmente indica una strada per arrivare a eliminare il problema della fame entro il prossimo decennio. La strada è quella di lavorare di più sulle necessità dei piccoli agricoltori, che rappresentano la quasi totalità dei produttori di cibo al mondo, e di allineare dunque la ricerca alle reali esigenze dell’agricoltura e non alle richieste che vengono massicciamente dalle grandi aziende. 

Anche la rivista Current opinions in Plant Biology dedica un numero intero alla questione dell’innovazione in agricoltura e alla produzione alimentare in tempi di crisi climatica. La raccolta di articoli scientifici combina l’applicazione delle nuove tecnologie di miglioramento genetico, come l’editing genomico, con la necessità di conoscere sempre meglio i meccanismi di che le piante che oggi coltiviamo hanno sviluppato nel tempo per lavorare sulla loro capacità di adattamento ai diversi climi e al clima che cambia. 

La FAO parla della necessità di produrre più cibo seguendo un modello di intensificazione sostenibile: combinazione di tecnologia, gestione del suolo, delle risorse genetiche e delle pratiche di coltivazione che consentano di produrre di più con meno input, come fertilizzanti o irrigazione, senza aumentare la quantità di terra coltivata. Tutto questo richiede un cambio di passo, a livello di ricerca e a livello di policy. Un obiettivo ambizioso, appunto. Ma necessario, se vogliamo davvero riuscire a eliminare la fame.

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