SOCIETÀ
Trump, la difesa delle forze armate e lo spauracchio della crisi economica
Foto: Joyce N. Boghosian
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è recato a sorpresa in Afghanistan per celebrare la festa del Ringraziamento con i soldati di stanza nel paese. Durante il suo soggiorno, il presidente, ha incontrato il leader afghano Ashraf Ghani e ha dichiarato l'intenzione di riprendere i trattati di pace coi talebani, confermando l'intenzione di ridurre la presenza delle truppe Usa nel paese da 12 mila a 8.600 unità. Resta sullo sfondo il caso Gallagher che ha causato tensioni tra Trump e i vertici militari del paese, per la sua intenzione di chiudere un occhio circa i crimini di guerra che il marine avrebbe commesso in Iraq nel 2017. Richard Spencer, segretario della Marina che è stato recentemente costretto alle dimissioni dal capo del Pentagono Mark Esper, aveva confermato la massima sanzione disciplinare per l'ufficiale Edward Gallagher. È stato allora che è intervenuto il presidente, contrario alla decisione di degradare e radiare l'uomo dai Navy Seal.
Dario Fabbri, coordinatore America di Limes, ricorda che non è la prima volta che il tycoon prende questo tipo di decisioni: “Non solo in questo caso, ma anche nei mesi passati, attraverso il potere presidenziale, ha concesso a dei militari dell'esercito che erano stati accusati di aver compiuto torture e abusi, il pardon, cioè il perdono, come è previsto dalla costituzione americana”. Applicando una similitudine col presidente della Repubblica italiana possiamo parlare, quindi, della concessione della grazia. Questa tendenza del presidente Trump è in netto contrasto con quanto attuato negli ultimi 20/30 anni da parte dei suoi colleghi, che erano stati molto più duri.
“Quando ci fu lo scandalo della prigione irachena di Abu Ghraib, all'epoca la condanna fu molto più forte da parte della Casa Bianca – prosegue Fabbri – la sensazione è che, se Trump si fosse trovato a gestire un caso simile, avrebbe avuto un atteggiamento molto diverso. Invece Spencer dà l'impressione di condannare maggiormente i gesti gravi da parte dei militari. Questo li ha divisi”. Se però, da una parte il leader degli Usa si è posto in contrasto coi vertici militari, dall'altra, fin dagli albori del suo mandato e anche durante la sua campagna elettorale, si è posto come paladino dei cosiddetti rank and file, cioè gli ufficiali e i soldati semplici: “Quando è stato eletto, ha promesso (e in parte ci è riuscito, visto che dipende dai soldi allocati dal Congresso) un aumento del budget per le forze armate, in controtendenza con le amministrazioni degli anni passati” spiega Fabbri.
È universalmente noto il rispetto che i cittadini statunitensi nutrono verso le proprie forze armate, ma le tensioni tra Trump e gli alti ranghi militari, vengono lette in modo molto diverso dal paese. Gli Usa sono divisi tra il centro, che ritiene che l'atteggiamento del capo di Stato sia comprensibile, e le zone costiere: “La percezione cambia non solo da stato a stato, ma anche nelle diverse regioni. La parte centrale, dalla Bible Belt alla Rust Belt, che è la zona che fornisce il maggior numero di soldati, anche per le missioni all'estero, è molto vicina al modo di pensare del presidente. La parte dell'America che assomiglia maggiormente all'Europa occidentale, cioè New York, la costa orientale e quella pacifica, con la California in testa, condannano e considerano inaccettabili i crimini di guerra” afferma Fabbri.
Non è una novità per Donald Trump essere al centro delle polemiche e, con la spada di Damocle dell'impeachment da una parte (abbiamo approfondito l'argomento nell'articolo Gli Stati Uniti e l'impeachment: da Johnson a Trump) e i media che riportano continue notizie sulla presunta fragilità della sua amministrazione, viene da domandarsi se realmente il governo del tycoon si stia per sgretolare. Il supporto della sua base elettorale, però, non sembra mancare, come spiega Fabbri: “L'amministrazione Trump rappresenta l'America profonda, quella meno chiassosa, che Ronald Reagan chiamava la maggioranza silenziosa. Numericamente, in realtà, non è detto che sia la componente maggioritaria, infatti Hillary Clinton ha vinto le elezioni popolari prendendo più voti del presidente. Tuttavia, è la parte del paese che i padri fondatori volevano che decidesse sempre la sorte delle elezioni presidenziali. L'Ohio, l'Indiana e il Michigan vengono considerati solo durante la campagna elettorale. È quell'America che non si reca mai all'estero, se non attraverso i soldati mandati in missione”.
Un altro fattore, altrettanto importante, che fa gioco al governo, è quello economico: “Gli Usa, mediamente hanno un'economia molto solida – continua Fabbri – Trump non ha fatto nulla di nuovo, ha abbassato le tasse per i ceti più agiati, che sono quelli che immettono più soldi nel sistema. Però, in questo momento il paese sta vivendo la sua più lunga fase espansiva, dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi e, secondo il ciclo capitalistico, necessariamente l'America andrà in recessione, indipendentemente dalle azioni del presidente che, in questo senso, ha sempre avuto poca voce in capitolo”.
Quindi lo spauracchio economico potrebbe costituire l'unico ostacolo al rinnovo del mandato del leader Usa: “Trump non ha perso il consenso della sua base elettorale, ed è questo ciò a cui lui tiene, perché è il nucleo che gli ha fatto vincere le elezioni. Ormai da tempo ha perso la volontà di allargare il numero dei suoi sostenitori o di conquistare gli indecisi, perciò la sua dialettica si è ulteriormente indurita. Però, se all'inizio del 2020 il paese andasse in recessione, la parte più povera del popolo statunitense sarebbe la prima a essere scontenta. I presidenti si sono sempre intestati i meriti del benessere economico, così sono costretti a prendersi le colpe nel caso opposto. Fa parte del gioco” conclude Fabbri.